La sua introduzione alla raccolta di sonetti inizia con queste parole "Io ho deliberato di lasciare un monumento alla plebe di Roma...". Egli tuttavia era in netto contrasto con la struttura sociale del suo tempo.
Roma era governata dal pontefice, "il Papa Re". Un ristretto numero di aristocratici e l'arrogante clero costituivano le classi sociali pi? alte, il cui potere aveva ormai perso qualsiasi giustificazione storica o morale; a loro si contrapponeva il popolino, fanatico e superstizioso, i cui unici diversivi erano le molte manifestazioni di piazza, indette per celebrare e glorificare le classi dominatrici, e le altrettanto numerose pubbliche esecuzioni (tanto che uno dei boia, Giovan Battista Bugatti detto Mastro Titta, divenne addirittura un personaggio famoso).
"I nostri popolani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n'ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perch? lasciata libera nello sviluppo di qualit? non fattizie".
Era un intellettuale, forse anche un moralista, e scrisse i sonetti con l'intento di mettere alla berlina l'ipocrisia di questa societ? decadente, nel vano tentativo di vederne cambiare la secolare struttura. La sua satira pungente ha dato vita a un gran numero di vignette ricche di spirito, celandovi talvolta amare considerazioni sulla vita e sulla condizione dell'uomo.
Alcuni dei sonetti hanno per tema soggetti biblici; in essi i personaggi parlano, pensano e agiscono alla stregua di tipici esponenti del popolo romano.
Belli scrisse anche diversi saggi in italiano, ma ? ricordato solamente per i suoi "Sonetti".
un ritratto del poeta
Negli ultimi anni di vita per? il poeta li rinneg?, dichiarandoli "...sparsi di massime, pensieri, parole riprovevoli...", e rifiutando di riconoscere in essi i propri sentimenti; "...esiste una cassetta piena di miei manoscritti in versi. Si dovranno ardere!" scrisse nel suo testamento.
il monumento a Belli nel
popolare quartiere di Trastevere Una raccolta dei "Sonetti Romaneschi" usc? per la prima volta oltre 20 anni dopo la sua morte. Molti altri furono rinvenuti in seguito (alcuni dei quali incompiuti), e la prima edizione completa dovette attendere quasi un secolo, venendo pubblicata nel 1952.
Molto del loro vigore ? dovuto all'uso del dialetto romanesco: diversamente, un gioco di parole o un'espressione caratteristica non avrebbero la stessa efficacia, in italiano come in nessun'altra lingua. Per questo motivo la letteratura "ufficiale" non li ha mai tenuti in gran considerazione e, per quanto mi risulti, seri tentativi di traduzione non ne sono mai stati fatti.
Ognuno di essi racconta un breve aneddoto, uno schizzo della vita di tutti i giorni; gli elementi principali della storia si snodano rapidamente nell'apertura, mentre i versi finali contengono una conclusione, di solito umoristica o ironica, a volte lirica o persino filosofica.
Ciascun sonetto ha una struttura semplice: due quartine seguite da due terzine; la rima nella maggioranza dei casi si attiene allo schema: A B B A - A B B A - C D C - D C D, ma a volte: A B A B - A B A B - C D C - D C D

ER CONFESSORE
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Padre... -- Dite il confiteor. -- L'ho detto. --
L'atto di contrizione? -- Gi? l'ho ffatto. --
Avanti dunque. -- Ho detto cazzo-matto
A mi' marito, e j'ho arzato un grossetto. --
Poi? -- Pe una pila che me r?ppe er gatto
Je disse for de me: "Si' maledetto";
E ? cratura de Dio! -- C'e altro? -- Tratto
Un giuvenotto, e ce s? ita a letto. --
E l? cosa ? successo? -- Un po' de tutto.--
Cio?? Sempre, m'immagino, pel dritto. --
Puro a riverzo... -- Oh che peccato brutto!
Dunque, in causa di questo giovanotto,
Tornate, figlia, con cuore trafitto,
Domani, a casa mia, verso le otto.
Roma, 11 dicembre 1832
ER VOTO
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Senti st'antra. A Ssan Pietro e Marcellino
Ce stanno certe moniche befane,
C'aveveno pe voto er contentino
De maggn? ttutto-quanto co le mane.
Vedi si una forchetta e un cucchiarino,
Si un cortelluccio pe ttajacce er pane,
Abbi da offenne Iddio! N'antro tantino
Leccaveno cor muso com'er cane!
Pio Ottavo per?, bona-momoria,
Che vedde una matina quer porcaro,
Je disse: "Madre, e che v? d? sta storia?
Sete state avvezzate ar monnezzaro?!
Che voto! un cazzo. A dio p? dasse groria
Puro co la forchetta e cor cucchiaro".
Roma, 2 febbraio 1833
LA PORTERIA DER CONVENTO
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Dico: "Se p? pparl? cor padr'Ilario?"
Dice: "Per oggi no, perch? confessa". --
"E doppo confessato?" -- "Ha da d? messa". --
"E doppo detto messa?" -- "Ci? er breviario".
Dico: "Fate er zervizzio, fra Maccario,
D'avvisallo ch'? cosa ch'interessa".
Dice: "Ah, qualunque cosa oggi ? l'istessa,
Perch? nun p? lass? er confessionario".
"Pacenza", dico: "j'avevo portata,
Pe quell'affare che v'avevo detto,
Ste poche libbre qui de cioccolata...".
Dice: "Aspettate, fijo benedetto,
Pe via che, quanno ? ppropio una chiamata
De premura, lui vi?: mo' ciarifretto".
Roma, 30 dicembre 1832

Una delle mie preferite tra la poesie di Belli:
Er Commercio libbero
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Be'? So' pputtana, venno la mi' pelle:
Fo la miggnotta, si, sto ar cancelletto:
Lo pijo in quello largo e in quello stretto:
C'? gnent'antro da d?? Che cose belle!
Ma ce s? stat'io puro, sor cazzetto,
Zitella com'e tutte le zitelle;
E mo nun c'? chi avanzi bajocchelle
Su la lana e la paja der mi' letto.
Sai de che me laggn'io? No der mestiere
Che ssar?a bell'e bono, e quanno butta
Nun p? ttrovasse ar monno antro piacere.
Ma de ste dame che stanno anniscoste
Me laggno, che, vedenno quanto frutta
Lo scortico, ciarrubbeno le poste.
L'INNUSTRIA
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Un giorno che arrestai propio a la fetta,
Senz'av? manco l'arma d'un quadrino,
Senti che cosa fo: curro ar camino
E roppo in quattro pezzi la paletta.
Poi me l'invorto sott'a la giacchetta,
E vado a spasso pe Campovaccino
A aspett? quarche ingrese milordino
Da daje 'na corcata co l'accetta.
De fatti, ecco che vi? quer c'aspettavo.
"Siggnore, guardi un po' quest'anticaja
C'avemo trovo jeri in de lo scavo?"
Lui se ficca l'occhiali, la scannaja,
Me mette in mano un scudo e dice: "Bravo!"
E accus? a Roma se pela la quaja.
Roma, 23 dicembre 1832
LI GALOPPINI
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Jeri, a la Pulinara, un colleggiale
Doppo fatta una predica in todesco,
Setacci? tutt'er popolo in du' sale,
E a la ppi? mejo vorze d? er rifresco.
In quella fece entracce er Cardinale
Co l'amichi der Micco e ppadron Fiesco;
E nell'antra la gente duzzinale
Che viaggia cor caval de san Francesco.
Pe sta sala che qui de li spedati
Comincionno a ppass? li cammorieri
Pieni de sottocoppe de gelati.
Ma che! a la sala delli cavajeri
Un cazzo ciarriv?: ch? st'affamati
Se sparinno inzinenta li bicchieri.
LA CREAZZIONE DER MONNO
L'anno che Gesucristo impast? er monno,
Ch? pe impastallo gi? c'era la pasta,
Verde lo vorze f?, grosso e ritonno,
All'uso d'un cocommero de tasta.
Fece un zole, una luna e un mappamonno,
Ma de le stelle poi d? una catasta:
Su ucelli, bestie immezzo, e pesci in fonno:
Piant? le piante, e doppo disse: "Abbasta".
Me scordavo de d? che cre? l'omo,
E coll'omo la donna, Adamo e Eva;
E je proibb? de nun toccaje un pomo.
Ma appena che a maggn? l'ebbe viduti,
Strill? per dio con quanta voce aveva:
"Ommini da vien?, sete futtuti"
Terni, 4 ottobre 1831
