La brezza proveniente dal mare ha spazzato via l’afa del giorno torrido e ora gonfia le lenzuola del mio letto, facendone un’oasi di frescura.
Sul tavolino accanto al comò, un piatto capace ospita tre albicocche, due fette di melone e una d’anguria, e una ciotola di fichi, pesche, mirtilli e ribes.
E una bottiglia di Macallan 25 years Anniversary, whisky di puro malto.
Papà Valeriano lo adorava perché maturato in barili di quercia.
Squilla il cellulare.
Stefano, mio fratello.
Parliamo di mamma.
“E’ davvero così? Mamma si sarebbe salvata se l’avessero messa in terapia intensiva, dopo l’operazione?” chiedo aggrottando le sopracciglia, mentre sul viso mi transitano rapidamente, per fondersi l’uno nell’altro come fiumi in piena, il bianco dello sconcerto, il verde della bile, il rosso dell’imbarazzo, lo scarlatto dell’ira.
“Sì, Mario, ricapitoliamo brevemente: lei é stata operata per la rottura del femore all’ospedale San Camillo, sabato 28 luglio. Un intervento perfetto, durato poco più di un’ora. La fase post operatoria sembrava procedere regolarmente. Ma attorno alle sei di pomeriggio del giorno dopo, domenica 29 luglio, il suo cuore ha smesso di battere. Non si sa da dove sia partita l'embolia, l'unica cosa certa è che mamma non c'è più..” scuote la testa desolato Stefano, aggiungendo “Certo se l’avessero messa in terapia intensiva, come avevano promesso prima di operarla, sarebbe ancora viva. Infatti la terapia intensiva garantisce immediati interventi in caso di necessità, per cui si sarebbero accorti in tempo dell’embolo, rianimandola prontamente.”
Salutando Stefano, mi ricordo del dottorino dal viso di falco che mi ha detto “sua madre è deceduta!” con un tono indifferente. Sembrava quasi che mi prendesse in giro.
Mi ha costretto a soffrire, impreco, maledetto, maledetto, maledetto!
L’avrei ucciso, gettando il suo corpo ai corvi e agli avvoltoi del deserto.
A questo punto, benché lavato, nutrito e dissetato, non riesco a dormire.
La stanchezza gioca brutti scherzi, soprattutto se uniti all’eccitazione di eventi gravi e azzardati. Allora tanto vale alzarmi, decido.
Accendo il pc per esaminare i miei blog.
Mi stanco subito ed esco sul balcone.
Mamma Ernesta.
Mi ha sempre difeso come una leonessa difende i suoi cuccioli, anche a costo di subire biasimi e critiche.
Accendo la radio.
“…poi mi viene in mente, se mi metto lì a pensare, il bacio di una madre come solo lei sa dare...”
Diamine, non potevano scegliere un altro momento per trasmettere “Come Gioielli” di Eros Ramazzotti!
Chino la testa, domato, e mi metto a singhiozzare a dirotto, come se giorni e giorni di tensione avessero scelto proprio questo momento per tracimare tutti assieme in un lungo pianto liberatorio.
Ancora il cellulare.
Stavolta è Simonetta, compagna di vita.
Sta tornando da Collevecchio.
Senza Alessandro.
Il poeta ha preferito rimanere un’altra settimana dalla nonna.
Sento aprire la porta.
Mi volto, è Gabriele, il neo-dottore.
Nota sul mio viso qualcosa che non va.
Infatti mi abbraccia.
Poi se ne va.
Al cinema.
Con Francesca. Rea.
Non Rea Silvia, sia chiaro!
Debbo ritenermi soddisfatto, rifletto allungando di nuovo le gambe sul letto, di avere avuto una mamma come mamma Ernesta.
Lei, che mi ha guarito i graffi e le ferite con una carezza magica.
Lei, un posto caldo dove ho trovato sempre un abbraccio.
Lei, con quell’odore di buono che mi faceva tornare bambino.
Lei, che mi lasciava andare anche se avrebbe voluto tenermi stretto a sé.
Lei, una canzone nella notte.
Lei, una ninna nanna speciale.
Lei, uno sguardo che non aveva bisogno di parole.
Lei, quella che sapeva, sempre, cosa era la cosa migliore per me.
Lei, quella mano che mi ha tenuto mentre traballando imparavo a camminare.
Lei, il bum bum del cuore che sentivo appoggiando la testa sul suo petto.
Lei, mamma, una parola: la prima che ho detto.
Lei, mamma, un sorriso: il primo che ho visto.
Lei, mamma, una voce: la prima che ho udito.
Lei, mamma, un sapore: il primo che ho assaggiato.
Lei, mamma, una culla: la prima che ho avuto.
Lei, mamma, che soffrendo mi ha fatto nascere.
Lei, che mi ha parlato nel cuore della notte. Quando tutto il mondo era addormentato. E nessuno, tranne me, udiva le sue parole. E, tenendomi fra le braccia, mi avvolgeva di un amore che aveva una forza inaudita.
Sfoglio un vecchio album di fotografie: qui avevo sei anni. “Vieni!” sembra dirmi, prendendomi la mano per condurmi a casa.
Mi manchi, mamma.
Improvvisamente mi sento invadere da una torpida sonnolenza.
Quando mi addormento, mentre il giorno si spegne lentamente, sulle pagine lucide dell’album spiccano ancora le tracce delle mie lacrime.
Mario Pulimanti (Lido, di Ostia –Roma)
