Il primo orfano

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zio chester
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Iscritto il: 17/09/2010, 10:35

Il primo orfano

Messaggio da leggere da zio chester »

Ecco qua un seguito al mio "Quando le macchine vennero" pubblicato su LTL Seeds.
Il primo orfano
Capii che cosa fosse successo appena vidi il numero della scuola apparire sul display del cellulare; la preside confermò i miei sospetti convocandomi per un confronto con gli altri genitori a causa dell’ennesima litigata in cui era stato coinvolto mio figlio.

– Capisce che non possiamo andare avanti così… – mi disse una delle madri, indicando con lo sguardo mio figlio che se ne stava seduto a testa bassa in un angolo, con le guance illuminate da piccole chiazze viola vorticanti.
– Voi sapete benissimo che la colpa non è di Luca, eppure vi ostinate a prendervela con lui invece di insegnare l’educazione ai vostri figli!
Ormai ho perso il conto di quante volte ho dovuto ripetere questa frase in situazioni simili, ma per fortuna mancavano solo due settimane alla fine del primo anno scolastico.
– È vero, anche questa volta l’hanno chiamato in quel modo, ma lo fanno solo quando si arrabbiano… Sono solo dei bambini e per noi è molto difficile… – farfugliò una delle maestre.
– Non mi risulta che siate così accondiscendenti quando si insultano per via del colore della pelle o della religione! – esclamai interrompendo quell’ennesima sfilza di scuse. – Se lo chiamano “quella creatura” è solo per ignoranza e cattiveria, tutte cose che imparano dai genitori e che almeno voi insegnanti dovreste provare a correggere. E comunque sia, il governo è stato chiaro: noi siamo cittadini italiani a tutti gli effetti e pretendiamo di essere trattati come tali. Non si può cancellare quello che è successo sette anni fa e di certo non sono stata io a chiedere di essere infettata dalle macchinei!
Finita quella tirata, che aveva per un attimo zittito tutti quegli idioti, mi alzai e presi in braccio Luca per riportarmelo a casa. Per non vedere i compagni si nascose spingendo il suo piccolo viso contro la mia spalla ed ebbe un sussulto di paura quando sbattei dietro di me la porta della classe.

Trasferendomi in un piccolo paese pensavo di fuggire l’ipocrisia e la malvagità delle grandi città, ma scoprii ben presto che la qualità delle persone ha poco a che fare con il loro numero.
Noi prescelti eravamo sparsi in tutto il mondo in rapporto direttamente proporzionale alla popolazione delle diverse aree geografiche, ma grazie alla rete potevamo incontrarci e scambiarci opinioni, dubbi e paure. Fu così che prescelti maschi e femmine iniziarono a cercarsi, consapevoli di non poter trovare un’anima gemella tra la normale popolazione. Io e il mio compagno ci conoscemmo pochi mesi dopo l’infezione e la paura di rimanere isolati dal mondo ci spinse, forse in modo azzardato, a crearci subito una famiglia.
Inizialmente si era parlato di costruire ex novo città soltanto per noi prescelti: con la scusa di preservare la nostra unicità ci volevano relegare in veri e propri ghetti. Fortunatamente queste assurdità non si materializzarono, almeno non nel mondo occidentale: in Asia e in Oriente la situazione era molto più grave e anche le maggiori organizzazioni internazionali non erano riuscite a trovare un accordo su come regolamentare la questione dei nostri diritti su scale globale.
Io e il mio compagno non parlavamo mai di queste cose in presenza di nostro figlio e il fatto che lui non ci facesse domande riguardo la nostra diversità era per noi, allo stesso tempo, fonte di sollievo e di preoccupazione. Sapevamo però che il momento del confronto sarebbe prima o poi arrivato; il vero problema è che non potevamo immaginarcene le modalità e prepararci ad affrontarlo.

Decidemmo di distrarre Luca dai soliti drammi portandolo, per la prima volta, al mare. Durante il viaggio non distolse per un attimo lo sguardo dal finestrino, attento a mandare a memoria ogni pianta o animale che abitasse la campagna ai lati della carreggiata; dopo mezz’ora di superstrada si cominciò a intravedere in lontananza l’Adriatico. L’ultima parte del viaggio si svolse su un lungo rettilineo che correva parallelo alla costa.
– Cosa c’è? – chiesi al mio compagno, vedendolo distratto dallo specchietto retrovisore. Con un cenno della testa Paolo mi indicò il sedile posteriore. Luca sembrava ipnotizzato dal sole riflesso sul mare e s’agitava per guardare oltre le case costruite a pochi metri dalla battigia. Superato un sottopassaggio ci trovammo praticamente a due passi dalla spiaggia e potemmo finalmente scendere dalla macchina. Eravamo partiti presto pensando di poterci godere in po’ di solitudine, ma dopo neanche mezz’ora la spiaggia era quasi piena di famiglie; come al solito ci trovammo da soli in mezzo alla folla.

Dopo più di un’ora passata giocare con la sabbia, Luca ci chiese di poter entrare in acqua. L’avevamo già notato, negli ultimi minuti, guardare con la coda degli occhi gli altri bambini: intenti a rincorrersi nell’acqua bassa, si lanciavano contro urla di gioia e di scherno, controllati a distanza dai genitori.
– Che facciamo? – mi chiese Paolo.
– Voi andate pure. Io rimango qui a guardare le nostre cose.
La mia era una pessima scusa: in realtà non volevo togliermi la maglietta, soprattutto dopo aver visto come il sole aveva reso brillanti le nostre gambe. Mi rimproverai il mio egoismo, in quel momento più forte dell’amore per mio figlio, e dovetti faticare non poco per trattenere le lacrime mentre vedevo gli arabeschi elettrici che danzavano sulla piccola schiena di Luca allontanarsi da me. M’ero persa nei miei pensieri quando un grido mi riportò alla realtà: era Luca che urlava di gioia mentre disegnava un arco nel cielo prima di sparire sott’acqua. Ne saltò fuori ridendo e corse dal padre per farsi lanciare di nuovo; il mio sorriso divenne ancora più grande e sincero quando vidi una bambina avvicinarsi a Paolo per chiedere anche lei di poter fare un tuffo.
Luca era abituato sin dalla nascita alla potenza del padre: dopo l’infezione, infatti, sia la forza che la resistenza di noi prescelti erano sensibilmente aumentate, seppur senza cambiamenti significativi nella struttura ossea e muscolare. Ma Paolo si dimenticò allora di dosare le energie con la bambina, che volò a diversi metri di distanza. Appena riemersa, la piccola iniziò a piangere, attirando l’attenzione dei suoi genitori. Suo padre entrò in acqua e quando le chiese cosa fosse successo lei si limitò a indicare Paolo singhiozzando.
– Ehi, idiota! Non vede cosa ha fatto? – urlò l’uomo in direzione del mio compagno.
– Lo so, mi dispiace… – disse Paolo, muovendosi in direzione della bambina per chiederle scusa. Quando i due si avvicinarono, l’uomo capì d’avere davanti a sé un prescelto ed esplose di rabbia, dimenticandosi della figlia.
– Andate al diavolo, bastardi! Lo sapevo che eri uno di loro! Vi dovrebbero chiudere nei campi come fanno…
– Ho già chiesto scusa. Non sono abituato a… – provò a difendersi, ma l’altro gli impediva di parlare, continuando ad insultarlo e fronteggiandolo ora a pochi centimetri di distanza.
– Non ho niente – disse la bambina, cercando di attirare l’attenzione del padre tirandolo per un braccio. – Ho solo avuto paura quando sono andata sott’acqua.
Intervenne allora la madre, che la prese in braccio e la portò via da lì senza dir niente al marito; nel frattempo tutti si erano fermati a guardare la scena. Quando Paolo cercò di raggiungere la riva, l’altro lo spintonò, facendolo cadere in acqua. Non me ne accorsi perché nel frattempo Luca era tornato da me, chiedendomi cosa stesse accadendo.
– Finirà presto. – gli risposi – È come a scuola quando ti prendono in giro…
Non feci in tempo a finire la frase che vidi lo sconosciuto volare lontano da Paolo e ricadere diversi metri più lontano.
– Andiamocene – disse Paolo appena ci ebbe raggiunto; prendendoci entrambi per mano ci incamminammo di fretta verso la macchina.
All’improvviso fummo tutti e tre scaraventati in avanti: il mio compagno ci trascinò a terra, colpito alla schiena da un colpo di pistola. Un liquido violaceo, denso e freddo, cominciò a fluire dalla ferita; sulla pelle gli arabeschi andavano affievolendosi, perdendo colore fino a scomparire. Quando arrivò l’ambulanza non c’era più niente da fare; ora che era morto, Paolo era identico a tutti gli altri esseri umani. L’uomo che aveva sparato fu portato via da due agenti della polizia, ma una volta dentro la macchina vidi i tre scambiarsi orribili sorrisi d’intesa. Anche Luca aveva assistito alla scena, stringendo i piccoli pugni sempre più luminosi. L’ambulanza portò via il mio compagno e noi la seguimmo scortati da una seconda volante della polizia.
Fu così che venne pubblicamente ucciso il primo prescelto: mentre rispondevo alle domande dei poliziotti pensavo soltanto al futuro di mio figlio, nei termini in cui lo può fare una qualsiasi donna che ha perso il proprio compagno. Non potevo ancora immaginare quello che sarebbe successo in seguito a tutte le innocenti creature venute al mondo fino a quel momento da noi prescelti.
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