
Aveva fame. Aveva molta fame. Un metro per volta, faticosamente, strisciò nella polvere della cantina. Le ossa spezzate, dalle quali era stato estratto tutto il midollo, crepitarono con un rumore di rami secchi quando vi passò sopra.
Si appiattì per scivolare attraverso la fessura della porta, fluendo come una gigantesca ameba su per le scale. La porta della cantina era divelta, e il portone della casa, parzialmente sventrata dalle esplosioni, pendeva inclinato sui cardini. Era giorno, ma all’esterno era quasi buio come nella cantina, e freddo: l’inverno nucleare era iniziato. Lui non aveva un apparato visivo: i suoi sensi si limitavano ad un olfatto sensibile all’emissione di alcune sostanze chimiche volatili, e a sensori distribuiti appena sotto il tegumento, che registravano le vibrazioni del terreno e dell’aria. Si appiattì lungo un muro ancora in piedi, una lunga striscia grigiastra coperta di polvere, immobile. Avvertiva la presenza di cibo nelle vicinanze, ma era sostanza viva, e si muoveva troppo rapidamente. Attese. Aveva fame, ma era troppo debole per allontanarsi.
Nel buio, centinaia di piedi si muovevano in una marcia disordinata. C’era una nave, aveva detto qualcuno, attraccata giù al porto e ancora intatta; avrebbe potuto portare i sopravvissuti lontano dalle città distrutte, lontano dalle radiazioni. La voce era corsa per la città, e i pochi superstiti in grado di muoversi si erano radunati, arrancando stancamente attraverso strade ingombre di macerie e ammorbate dall’odore dei cadaveri insepolti. I più attrezzati avevano torce elettriche, altri usavano accendini, o rimediavano stracci avvolti su pezzi di legno, che bruciavano con un odore acre. A tratti, senza parlare, qualcuno si staccava dal gruppo, si infilava in un negozio attraverso una vetrina sfondata ed emergeva poco dopo con un pacco di biscotti stretto al petto o una lattina di conserva. Qualcuno si fermava, scosso da conati di vomito, poi riprendeva la marcia. Qualcuno si lasciava cadere esausto e rimaneva lì, nel buio. I compagni continuavano il cammino senza una parola, senza voltarsi.
– Vai tu, io non ce la faccio.
La donna si abbandonò vicino allo scheletro di un autobus rovesciato.
– Dai, Marta, ormai ci siamo quasi – la incoraggiò il suo compagno, ripetendo senza convinzione una frase già usata troppe volte.
– Vai, mi sento troppo male; e poi, vedi? – Marta passò una mano tremante tra i capelli, e alcune ciocche le rimasero impigliate alle dita – É inutile, eravamo troppo vicini all’esplosione, che senso ha andare avanti?
– Ti prego, tesoro, io non riesco a portarti, tirati su, potremo andare via, in un posto dove ci cureranno.
– I miei bambini... Lucia, Stefi, voglio i miei bambini! I miei...
Il marito si inginocchiò a fatica, dirigendo la torcia sul viso di lei: gli occhi, infossati, erano vitrei, il respiro affannoso e interrotto. Non si poteva illudere, ne aveva visti tanti finire così, come Lucia, come il piccolo Stefi. Sedette stancamente vicino a Marta, tenendole la mano. Accanto a loro la coda della folla continuava ad avanzare nell’oscurità, con un mormorio indistinto. Passarono, e si fece silenzio: si udiva solo il sibilo del vento attraverso le finestre sfondate e il rantolo della donna morente.
Poco dopo, l’uomo contemplò per l’ultima volta il viso della moglie, finalmente sereno. Si alzò a fatica, si aggiustò lo zaino sulle spalle e riprese il cammino.
Appena si fu allontanato, una forma indistinta si mosse, strisciando con sicurezza nell’oscurità.
Cibo! Scivolò rapidamente nel buio, guidata dal tropismo verso i gas della decomposizione. Si appiattì, allargandosi sul cadavere, avvolgendolo come un sudario grigiastro, mentre i succhi digestivi scindevano le proteine e assorbivano le sostanze nutrienti, con mostruosa efficienza. Finalmente poteva nutrirsi, per crescere, per scindersi, per crescere nuovamente e dividersi ancora, insensibile alle radiazioni, in un ciclo senza scopo e senza fine.
L’arte, la poesia, la scienza, retaggio di millenni di umanità, erano state spazzate via dalle guerre insensate che si erano succedute in un tragico crescendo: restavano soltanto i resti anneriti dei grattacieli, qualche mozzicone di ponte, l’atmosfera oscurata dalla polvere radioattiva e, a strisciare nel buio, una creatura sperimentale fuggita da un laboratorio distrutto: l’ultima creazione dell’homo sapiens.