Tecniche di rappresentazione (uno di quattro)

"Officina" come luogo, dove si può imparare a capire cos’è un racconto, dove poter apprendere le tecniche costruttive della narrazione, almeno le più elementari.
Si organizzeranno corsi strutturati in varie lezioni.

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Gaetano Intile
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Tecniche di rappresentazione (uno di quattro)

Messaggio da Gaetano Intile »

Vorrei approfondire alcuni aspetti fondamentali della teoria narrativa e quindi del modo di costruire un racconto. E cos' anticipare i capitoli dedicati al narratore, alla focalizzazione e al discorso indiretto.
Forse avrete capito, non è importante tanto la storia che si racconta, ma è il come la si racconta a costituire la sostanziale differenza.

1) Prospettiva, o Punto di Vista, Distanza, Voce.

La narratologia, per dirla all’europea, considera il racconto un messaggio trasmesso da un emittente a un destinatario.
Il racconto può fornire maggiori o minori particolari, in forma più o meno diretta, cioè a una DISTANZA variabile da ciò che narra: può inoltre regolare l’informazione adottando un particolare Punto di Vista o PROSPETTIVA, il centro ottico da cui esporre la storia.
Gerard Genette ritiene che distanza e prospettiva costituiscano due aspetti fondamentali del modo narrativo, la categoria che definisce la regolazione quantitativa e qualitativa del messaggio.
Il fatto che il racconto sia una comunicazione implica che venga sotteso da un emittente, o VOCE CHE NARRA, e venga diretto a un destinatario o narratario.
La comunicazione narrativa ha uno statuto e a noi interessa isolare l’istanza narrativa che presiede al racconto distinguendo il MODO (chi è il personaggio il cui punto di vista orienta la prospettiva narrativa? O, più semplicemente, CHI VEDE?); anche se tutte queste tecniche della rappresentazione sono strettamente correlate tra loro.
Non è indifferente che il racconto sia NON FOCALIZZATO (o a FOCALIZZAZIONE ZERO), oppure focalizzato su un personaggio. La diversa scelta di PROSPETTIVA implica diverse forme di enunciazione, la sottolineatura o la scomparsa del narratore onnisciente (VOCE CHE NARRA), l’emergenza del racconto puro, diegetico o la drammatizzazione mimetica, scenica, il discorso più o meno diretto (DISTANZA).
Il racconto è quindi narrato, ma anche visto da una prospettiva, e a una certa distanza.
Ecco un esempio riportato da Angelo Marchese, che riprende il testo de La signora Dalloway di Virginia Woolf.

La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei.
Lucy ne aveva fin che voleva, del lavoro. C’era da lavare le porte dai cardini: e per questo dovevano venire gli uomini di Rumpelmayer.
E che mattinata, pensava Clarissa Dalloway, fresca, pare fatta apposta per dei bimbi su una spiaggia.
Che voglia matta di saltare! Così ella si era sentita a Bourton: quando, col lieve cigolar dei cardini che ancora le pareva sentire, aveva spalancato le portefinestre e s’era tuffata nell’aria aperta. Ma quanto più fresca e calma, e anche più silenziosa, era quell’altra aria, di buon mattino; come il palpito di un’onda, il bacio di un’onda; gelida e pungente, eppure (per la fanciulla di diciott’anni ch’ella era allora) solenne: (…) e rimaneva trasognata, fino a che udiva la voce di Peter Walsh: “ Fate la poetica in mezzo ai cavoli?” -aveva detto così?- Doveva averlo detto una certa mattina a colazione, quando lei era uscita sul terrazzo… Peter Walsh! Sarebbe tornato dall’India quanto prima, a giugno o luglio, ella non rammentava più, ché le sue lettere erano disastrosamente monotone. (…)
In attesa che passasse il furgone di Durtnall, ella s’irrigidì un poco, sull’orlo del marciapiede. Una donna graziosa, la giudicò Scrope Purvis, (ella la conosceva come ci si conosce tra vicini di casa a Westminster): aveva in sé qualcosa di un uccellino, della gazza, un che di verdeazzurro, lieve, vivace, quantunque avesse varcato la cinquantina, e fatto molti capelli bianchi dopo la sua malattia. In attesa di attraversare ella se ne stava là, dritta sulla via, come appollaiata a un ramo, e non lo vide neppure.

Allora, fina dalle prime battute, grazie alla struttura del discorso indiretto, la distanza del racconto viene accorciata, e il lettore è messo a contatto col personaggio. Il punto di vista è quello di Clarissa Dalloway, che riflette sulle faccende di casa con Lucy ne aveva fin che voleva, del lavoro siamo penetrati nella coscienza della protagonista, mediante una forma stilistica particolare: il pensiero indiretto libero, cui invece segue la trascrizione diretta di un altro moto interiore, un sentimento di gioia quasi infantile: Che voglia matta di saltare! Segna il passaggio, ancora nell’ottica del personaggio, a una retrospezione, un’analessi con un salto di oltre trent’anni.
La parola poi ritorna al narratore che confronta le due situazioni, commentando lo stato d’animo ineffabile di Clarissa ragazza con similitudini poetiche che insistono su dati sensoriali dai quali era partita la rievocazione, in modo simile a Proust.
La breve descrizione del paesaggio è diegetica, perché dipende dal punto di vista di Clarissa.
All’interno dell’analessi si staglia la figura di Peter Walsh, le cui parole, rammemorate con difficoltà dal personaggio, attenuano la distanza con uno scampolo di discorso diretto. L’analessi si chiude con un ritorno al presente, che è ancora un pensiero indiretto libero (si capisce dall’inciso “ella non rammentava più”, proprio del narratore).
Anche la descrizione di Peter sembra dipendere dal PdV del personaggio, volendo considerare quel “Strano davvero!” come un’ulteriore espressione di sorpresa che coglie Clarissa, abbandonata al flusso dei ricordi.
Poi la parola e la prospettiva tornano ancora al narratore, che conduce Clarissa per le vie di Londra.
Repentinamente però il punto di vista passa a un certo Scrope Purvis, che ci descrive la donna, ferma sul marciapiede, a modo suo, attraverso il paragone dell’uccellino e della gazza, e ci comunica alcune altre informazioni oggettive che dovrebbero dipendere dal narratore (la signora Dalloway è sulla cinquantina, ha i capelli bianchi, è stata affetta da una malattia).
È ancora di Scrope Purvis questa immagine: “ella se ne stava là, dritta sulla via, come appollaiata a un ramo,”.
Prendiamo un altro brano della medesima opera della Woolf.

Ma intanto la colpì il silenzio, all’entrar nel parco, la nebbia, e un ronzar d’insetti, e le anatre felici che nuotavano lente, e i trampolieri panciuti che si dimenavano goffi. E chi se ne veniva lemme lemme, volgendo il dorso ai palazzi dei ministeri, una cartella ornata dello stemma reale sotto il braccio, chi, se non Hugh Whitbread, il suo vecchio amico Hugh – l’impareggiabile Hugh.
“Buongiorno a voi, Clarissa” disse Hugh, alquanto enfatico, ché si conoscevano da bambini. “Qual buon vento vi porta?”
“Mi piace camminare per Londra” replicò la signora Dalloway. “Vi assicuro che si cammina meglio che in campagna.”
I Whitbread erano arrivati, per l’appunto in città per andare dal dottore. C’era chi veniva per vedere un’esposizione, per andare all’opera, per portare le signorine in società: i Whitbread ci venivano “per andar dal dottore”.
Innumerevoli volte Clarissa era stata a trovare Evelyn Whitbread in una clinica. Dunque Evelyn stava di nuovo male? Evelyn… hmm, era un po’ indisposta, spiegò Hugh, e dava a vedere con una sorta di broncio, di gonfiamento di tutta la rivestita, virile, estremamente estetica e ben curata persona, (egli era sempre un tantino troppo ben vestito, ma presumibilmente non poteva farne a meno, per via della piccola carica che occupava a corte) dava a vedere che la moglie soffriva di un disturbo interno, niente di grave, che una vecchia amica come Clarissa Dalloway avrebbe capito benissimo senza ch’egli scendesse nei particolari. Eh sì, ella capiva: che seccatura! E si sentì assai sororale, e al tempo stesso singolarmente imbarazzata all’idea del proprio cappello. Non era precisamente un cappello da mattina, no? Perché in presenza di Hugh, che si sbracciava e scappellava le giurava che avrebbe potuto essere un ragazza di diciott’anni, e sicuramente sarebbe venuto alla festa stasera. Evelyn ci teneva moltissimo, solo poteva darsi che lui facesse un po’ tardi dovendo accompagnare uno dei ragazzi di Jim alla serata a Palazzo – in presenza di Hugh ella si sentiva sempre un po’ meschina, un po’ collegiale.

In questo brano la presenza del narratore appare assai limitata (si tratta di un narratore discreto, che rinuncia volentieri alla sua onniscienza) perché la descrizione del parco e di Hugh dipende dall’ottica del personaggio.
Segue una sequenza dialogica, che realizza una perfetta identità tra tempo della storia e quello della narrazione.
Ma quest’ultimo viene dilatato dalla sequenza riflessiva di Clarissa su Hugh, sulla moglie, sul proprio disagio, mentre il ricorso al discorso indiretto libero condensa invece leggermente la temporalità diegetica. Il narratore non è scomparso del tutto, visto che spiega C’era chi veniva per vedere un’esposizione , riassume, citando la voce dei personaggi I Whitbread ci venivano “ per andar dal dottore” , commenta Egli era sempre un tantino troppo ben vestito… .
Il brano si chiude con un felice incrocio tra la parola di Hugh, indiretta, e il pensiero di Clarissa, anch’esso in forma indiretta libera, che si sente un po’ goffa con quel cappello intesta.
Ultima modifica di Gaetano Intile il 17/05/2023, 11:39, modificato 1 volta in totale.
Robennskii
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Re: Tecniche di rappresentazione (uno di tre)

Messaggio da Robennskii »

Questi due brani della Woolf sono magnifici. E spaventosi. Impareggiabili per la prosa poetica, intimidatori per chi potrebbe credere di aver acquisito la "padronanza della parola".
Non è un pourparler: la capacità di spostamento del punto di vista, talmente elevata che neanche ce ne accorgiamo, i cambiamenti dei tempi di storia e narrazione con la medesima leggerezza...

Ecco, padronanza della parola, strumento che utilizzo per raccontare una storia e, di nuovo, si capisce come lo stile possa, in qualche modo, diventare la stessa trama che è fatta, oltre che di frasi, del corollario di emozioni che solo con tali tecniche noi percepiamo.
Gaetano Intile
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Re: Tecniche di rappresentazione (uno di quattro)

Messaggio da Gaetano Intile »

Quando la tecnica diventa arte. Mi colpisce la leggerezza del raccontare, e invece chissà quanto le sarà costato.
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