La fine è il mio inizio
Inviato: 04/04/2023, 17:23
Non è l'ultima opera di Tiziano Terzani.
Anzi, La fine è il mio inizio è propria l'ultima fatica di Terzani, ma non è del Guru di Orsigna che voglio parlare.
Se sei un autore dilettante, come me, la prima cosa che viene in mente quando si inizia a scrivere è: da che punto comincio? Quali fatti, eventi, inizio a narrare. E subito si pone il problema dello scorrere del tempo nel racconto. Ora, dopo, prima: oggi, domani, ieri. Prima cosa succede? Che Tizio incontra Caio e poi, che Tizio muore. Ma nel racconto, nel nostro racconto, cosa succede?
Noi siamo abituati a pensare in termini di Fabula. E andatevi pure a leggere quel che ho scritto a proposito.
Ma se dobbiamo scrivere una storia, se dobbiamo addensare gli eventi salienti, organizzarli all’interno della narrazione, ecco che le cose cambiano. Il tempo lineare, la Fabula, il tempo che scorre da A a B può non essere più lineare, diacronico, ma può essere sincronico, non lineare. Siamo noi, e non lo Spazio Tempo, a scegliere cosa dire e quando dirlo. Siamo noi, nel nostro racconto, i Signori del Tempo. Ho scritto un capitolo a proposito.
Prendiamo ad esempio il bellissimo racconto di Tolstoj, La morte di Ivan Il'ic.
Un racconto all'apparenza semplicissimo, ma che nasconde un sapientissi-missimo lavoro di costruzione temporale, di montaggio potremmo dire prendendo in prestito il termine dal cinema, e non solo: è un racconto ricco di contenuti.
Il mio poeta preferito, Garcia Lorca, scriveva, a proposito della poesia: " Se è vero che sono poeta per Grazia di Dio, o del Demonio, lo sono anche per merito della tecnica e dell'esfuerzo, perché so con certezza cosa sia una poesia".
Noi sappiamo cosa sia un racconto? L’Officina serve in parte a rispondere al quesito.
Siamo in Russia, Anno Domini 1882, Ivan Il’ic Golovin ha 45 anni, è stato da poco promosso consigliere di Corte di Appello. Il salto di qualità nella gerarchia è notevole e il prestigio di cui gode presso amici e conoscenti lo hanno reso euforico. Ivan Il’ic è un uomo interamente occupato dalla professione, dagli obblighi sociali e dalla famiglia. Non v’è spazio per altro.
Sta mettendo su la nuova casa quando scivola dalla scala e si fa male a un fianco. Sul momento non dà peso alla cosa, un piccolo livido, e riprende la sua normale quotidianità. Ma il dolore della caduta, all'inizio lieve, giorno dopo giorno aumenta fino a costringerlo all'inattività. Inizia così una lunga malattia e con il passar del tempo, immobilizzato a letto, a un certo punto Ivan Il'ic si accorge di essere destinato a morire presto.
La percezione della fine, al contrario della moglie e dei figli i quali credono che il suo sia solo un capriccio, un dispetto fatto a loro per indurli a far di più, a responsabilizzarsi magari, gli rivela che la posizione sociale e persino i rapporti con i suoi familiari più stretti e cari, è solo una menzogna. Così come una menzogna è il loro voler ignorare la morte imminente ritenendola solo un fastidio, una seccatura tale da fingere che non esista. Questa disposizione dei suoi cari acuisce il senso di solitudine di Ivan il quale finisce per affezionarsi all'ultimo dei suoi servitori, Gerasim, fino a quel momento totalmente ignorato. Gerasim è il suo punto di partenza di un viaggio attraverso la coscienza di sé e del mondo che lo circonda e che lo porta a scoprire in quale condizione di povertà emotiva abbia fino a quel momento vissuto. Si rende conto, in questo percorso a ritroso, di non aver veramente vissuto, che solo la sua infanzia si salva, e finisce per chiedere perdono a tutti, compresi i suoi cari, per questa pochezza e per i dolori che la sua malattia comporta. Nel momento estremo Ivan Il’ici mette da parte il proprio dolore e considera quello che sta causando ad altri.
Questa è la Fabula, il Tempo della Storia.
Ma Tolstoj sa adoperare i mezzi del mestiere. Il Tempo della Storia non è identico al Tempo della Narrazione, per niente, e l’autore fa cominciare il racconto proprio dalla sua fine. L’inizio è la sua fine. Il racconto comincia proprio dall'esalazione dell'ultimo respiro di Ivan. Il primo capitolo si apre nel Palazzo di Giustizia, dove il Giudice Ivanovic dichiara: " Signori, il Giudice Ivan Il'ic è morto".
Il racconto inizia con la morte.
Poi l'autore presenta l'ambiente in cui Ivan Il’ic ha trascorso la parte più produttiva della sua vita. Da queste prime descrizioni il lettore capisce che il Giudice doveva essere un opportunista, un arrivista, un uomo meschino. Per gli amici del Giudice, si intuisce leggendo, la vera notizia non è la morte del collega, ma la liberazione di un posto ambito.
Questa costruzione narrativa rispecchia il modo in cui nel libro è presentata la morte. Da un lato, essa viene vista come un fatto che accade in generale a tutti gli esseri umani e può essere descritta esteriormente, biologicamente, come la cessazione di certe funzioni vitali. Vi è però anche un'altra prospettiva, con cui ci si avvicina alla morte, che è invece molto più interiore e individuale: non si parla più della morte in generale, ma della mia morte, in altre parole di un evento singolare che coinvolge solo il mio essere individuale: io sono solo di fronte alla morte e devo fare i conti con essa, devo viverla, rappresentarmela, trovarle un significato. In che relazione mi pongo con la mia morte? Questa doppia prospettiva è bene espressa nel passo dell'opera in cui Ivan Il'ic accetta l'idea della morte in generale, ma prova orrore verso la propria morte: il sillogismo elementare “Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale" gli era sempre sembrato giusto, ma “un conto era l'uomo-Caio, l'uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui, che non era né Caio né l'uomo in generale, ma un essere particolarissimo, completamente diverso da tutti gli altri esseri". Nella seconda prospettiva la morte di Ivan Il'ic diventa “il sacco nero", la buca che lo vuole risucchiare e inghiottire e che lo farà sparire per sempre; da ciò lui vuole difendersi, ma scopre di non avere armi perché ha sprecato la sua vita: la morte spazzerà via tutto e di lui non resterà più niente.
Dopo queste considerazioni l'autore fa entrare in scena il giudice Petr Ivanovic in casa del defunto. Lacrime, pianti, segni della croce, tutto quello che ci si potrebbe aspettare al cospetto di un defunto.
In questa prima parte il Punto di Vista è quello di Ivanovic, il quale vede il morto, incontra la moglie e i figli e persino di sfuggita il servo Gerasim. L’autore permette al lettore di conoscerli attraverso gli occhi di un pari di Ivan Il’ic, anzi quasi un doppio.
Alla fine della visita l'autore accompagna Ivanovic (e noi con lui) in una casa dove si gioca a carte e ci si diverte.
In questa prima parte il lettore si rende conto di quale sia l’ambiente in cui Ivan Il’ic si muoveva.
Le sofferenze fisiche di Ivan Il'ic sono descritte molto dettagliatamente e con orrore, ma la prospettiva che interessa Tolstoj è soprattutto quella interiore, psicologica: “Il dottore aveva ragione ad affermare che le sue sofferenze erano tremende, ma più tremende delle sofferenze fisiche erano le sofferenze morali, e in esse stava il suo principale tormento." Perché Ivan Il'ic ha paura della morte? Da cosa derivano queste sofferenze? Egli soffre per il dolore fisico, ma è chiaro che questa sofferenza è accentuata dalla consapevolezza di non aver vissuto bene. Si è soli davanti alla morte e l'unica cosa che ci resta quando essa giunge è “il pensiero del passato", cioè di come abbiamo vissuto. Ivan Il'ic guarda al suo passato e scopre che solo la sua infanzia è stata buona (lì vede la luce, non il sacco nero), “più si indietreggiava, più vita c'era" (la regressione all’infanzia), ma quanto più si procedeva verso il presente “tanto più morta era la sua vita". La morte è infatti terribilmente dolorosa quando non si è capaci di contrapporle qualcosa di sensato. L'orrore diminuisce se si è consapevoli di aver vissuto bene. Essa ci fa paura se non abbiamo nulla da opporle quando giunge, ed è una punizione e un'angoscia per chi è consapevole di aver vissuto male. Se invece si ha la coscienza che la propria vita non è stata inutile, la si affronta serenamente ed anche la sofferenza diminuisce. La morte è veramente la negazione della vita, il nulla, sia in senso materiale sia in senso spirituale; e questo nulla ci spaventa se ad esso non abbiamo niente da contrapporre, cioè se ci rendiamo conto che la nostra vita è stata inutile, insensata, inautentica. Se anche la vita è stata un nulla, al nulla della morte si somma quello della vita ed il risultato è il nulla più assoluto. L'uomo non può sfuggire alla morte, ma gli resta la possibilità di introdurre nella somma un fattore positivo, cioè qualcosa che dia significato alla vita, e di far cambiare il risultato, in modo che si ottenga un po' di senso. Ivan Il'ic acquisisce questa consapevolezza quando, provando compassione per i suoi famigliari, chiede perdono per la sofferenza che sta procurando loro, ed il dolore scompare. Egli non lo avverte più perché può finalmente affrontare con serenità la morte: la sua vita non è stata inutile, finalmente ha fatto qualcosa di positivo che l'ha riempita di significato e l'ha sottratta al nulla incalzante della morte. Al posto del sacco nero ora c'è la luce. Il senso della vita è tutto nell' “aldiquà". Al di là e al di fuori della vita c'è il nulla: il senso della vita va cercato nella vita stessa, non in qualcosa che ne sta al di fuori. Quando Ivan Il'ic riceve, su insistenza della moglie, la comunione dal prete, la sua sofferenza risulta alleviata per un momento, ma gli basta poco perché la sua mente torni ad essere dominata dal pensiero doloroso che tutto ciò per cui ha vissuto è menzogna. La comunione non risolve il suo problema perché egli non si preoccupa tanto di ciò che troverà nell'aldilà, ma di ciò che lascia qui, nella sua vita. Ivan Il'ic non pensa a consolarsi con ciò che potrà trovare oltre la vita: il problema del senso della vita va cercato nella vita stessa, non al di fuori di essa. Nel racconto vi è l'esaltazione di valori tipicamente religiosi come la solidarietà, la pietà verso i propri simili, il perdono; ma non vi è alcun riferimento alla trascendenza: quella di Tolstoj è una religione tutta umana e terrena, che può fare a meno di un essere superiore. L'uomo lotta da solo contro la morte e la sconfigge senza l'aiuto di una divinità. All'invocazione: Signore, liberaci dalla morte, Tolstoj forse preferirebbe: Uomo, libera te stesso dalla morte. La morte si vive. Dopo aver perdonato i suoi cari, Ivan Il'ic ha finalmente sconfitto la morte. Chi lo vede dal di fuori afferma che è finita la sua vita, ma lui è invece consapevole che è finita la sua morte. Adesso finalmente può morire tranquillo. Il perdono è ciò che gli permette di andarsene serenamente, e questa equivalenza è espressa con molta efficacia quando il “perdona" diventa, nella pronuncia alterata del morente, “lascia andare", cioè lasciami morire, ormai non ho più paura. E' chiaro dunque che la morte va vissuta ogni giorno, che cioè bisogna morire continuamente: ogni giorno si deve fare quell'esperienza che Ivan Il'ic ha potuto fare solo in punto di morte e che gli ha rivelato l'inautenticità in cui era vissuto fino ad allora. Solo così ci si renderà conto della minaccia costante che insidia l'essere umano e si potrà porre quotidianamente rimedio ad essa. Come si dice comunemente, bisogna vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo e chiedersi costantemente: “Ho fatto qualcosa che abbia meritato di essere vissuto? Se la morte, il nulla, mi cogliesse ora, che cosa avrei da opporle? La mia vita ha avuto un senso?" Con grande finezza, perciò, Tolstoj osserva che il volto di chi muore diventa più bello perché il trovarsi di fronte alla morte consente a tutti di fare quell'esperienza fondamentale che ci trasforma sottraendoci ad un'esistenza banale, superficiale, priva di significato: “...il suo viso, come quello di tutti i morti, era più bello, anzi più espressivo di quanto non fosse da vivo. Su quel viso si leggeva che quello che si doveva fare era stato fatto, ed era stato fatto giustamente."
Nel secondo capitolo l'autore, con un'analessi, ci conduce nel passato della vita di Ivan Il'ic.
Ma, a questo punto, il lettore sa già che Ivan Il'ic morirà, e come morirà, in quali circostanze, ma lo segue ora quando è vivo, nel pieno della sua fortuna. Ogni azione di Ivan Il’ic qui pare dettata da arroganza e presunzione, da questo momento il lettore non è spinto a provare per lui simpatia né pietà, se non la pietà che accompagna chi si conosce già sia destinato a prematura morte. Tutto va bene nella vita di Ivan Il'ic fino a quel piccolo e quasi comico scivolone. La metonimia che sconvolgerà il narrato.
Con il passare delle pagine l’autore fa vivere a Ivan Il’ic una vita che nasconde a lui la morte.
Però, chi non avesse letto il primo capitolo, se il racconto fosse stato montato secondo la logica del Tempo della Storia, non distinguerebbe l’essere di Ivan dal suo apparire, e sarebbe indotto a non nutrire alcuna compassione per la sua vicenda. Il sapere della sua morte e della sua “conversione” ci mostra anche il passato con una luce diversa.
L’inizio del quarto capitolo inizia con: “Erano tutti in buona salute”, ma presto Ivan Il’ic sarà trasportato in un mondo affatto nuovo: il mondo della malattia. E solo quando prenderà coscienza di questo nuovo stato capirà che dovrà morire. La narrazione prosegue fino a che le informazioni di Ivan Il’ic e del lettore coincidono, e in quel momento lo spostamento temporale iniziale esaurisce la sua funzione, il racconto prosegue con linearità diacronica annullando il potere divinatorio di chi legge e già sa.
Questa seconda parte precede il rito funebre e ricompare la figura del doppio, del giudice Ivanovic, vittima della sua vanità, della sua arroganza, il collega tanto simile al primo Ivan. La sua funzione è quella di rendere più presente, viva, esplicita, la differenza, il cambio di stato di Ivan. E Ivanovic si sente quasi colpevole di fronte ai figli di Ivan. Ma colpevole di cosa? Di avere la stessa età dell’amico, di aver fatto gli stessi studi e la stessa professione, di avere le identiche debolezze e passioni. Egli si sente in colpa dunque, per un qualche motivo, e la sua figura di doppio sta là a rimarcare la differenza con l’altro che proprio nel momento in cui la fine si avvicina sembra acquisire una coscienza. A sottolineare questa coscienza soffocata sopraggiunge un altro personaggio, un altro giudice, Schwarz, un morto ambulante la cui unica paura è quella di perdere una partita di whist.
Ma Ivanovic è diverso pure da questo.
Sul finale della sua vita due cose fanno star meglio Ivan Il’ic. La regressione all’infanzia, come già detto, e la presenza del servo Gerasim, l’unico a vedere da subito la malattia, e di conseguenza ad avere pietà di lui e a riconoscergli il diritto a essere trattato come un malato, quindi a trattarlo come un bambino.
Alla fine del quinto capitolo si presenta in casa di Ivan Il’ic il Deus ex machina, nella persona del cognato. Egli entra in scena per poco e per ricordare al lettore che Ivan Il’ic deve comunque morire e per mostrare alla famiglia, che ancora pensa alla malattia come a un capriccio, che Ivan Il’ic morirà presto. Il cognato è il messaggero che rivela la realtà della morte respinta e ignorata da tutti, persino dal lettore, che nel frattempo l’ha quasi dimenticata, allontanata da sè.
Questo rifiuto della morte da parte della famiglia di Ivan Il’ic non è pietà, compassione, ma menzogna. E di questa menzogna hanno circondato Ivan Il’ic moribondo. Il quale più starà male più sarà trattato come un millantatore. Solo Gerasim si sottrarrà a questo circolo vizioso.
Con l’accettazione della realtà della morte ha inizio in Ivan Il’ic un altro percorso: quello della catarsi. Che passa attraverso il rifiuto dei rituali familiari.
Quanto a Petr Ivanovic, il suo senso di colpa prelude alla nascita della coscienza. Egli sembra rendersi conto del grido di disperazione del collega e della menzogna che lo circonda. Appare diverso dall’altro collega,Schwarz, il quale morirà di sicuro con un grido di disperazione. Egli pure sembra iniziare ad accettare la morte e al ritorno a casa, dopo la partita, si sentirà male.
Tanti i temi affrontati da Tolstoj dunque e vasta la conoscenza delle tecniche narrative, dei marchingegni che costruiscono i personaggi e portano il lettore laddove l’autore pretende. Tra i temi non ultimo è una profonda critica alla società borghese del tempo: la moglie, i figli, gli amici ed i conoscenti di Ivan Il'ic - che appartengono tutti alla medesima cerchia sociale borghese - agiscono soprattutto in base all'interesse (la moglie non lo ama più ma ha deciso di restare con lui per il suo stipendio) e vedono nella sua morte qualcosa che disturba le loro abitudini di vita. La figlia, ad esempio, deve sposarsi, e un moribondo è solo un intralcio al suo matrimonio: meglio fingere che la sua morte non esista per evitare di essere disturbati nelle proprie occupazioni. Solo Gerasim, un contadino che non ha le stesse preoccupazioni dei propri padroni, ma vive un rapporto più autentico e schietto con la realtà della morte, riesce ad essergli di conforto: “Tutti dobbiamo morire, lascia che ti aiuti Ivan Il'ic".
La società borghese è menzogna e nasconde il mistero della vita e della morte dietro la ricchezza materiale, mentre quella contadina è decisamente migliore poiché fa i conti con la morte, non se la nasconde e la affronta direttamente.
Con La morte di Ivan Il'ic, del 1884-86, e con La sonata a Kreutzer, del 1888, Tolstoj aggredisce fortemente le menzogne della società borghese, e analizza, rispettivamente, il rapporto di essa con due temi fondamentali come la morte e l'amore.
La fine è il mio inizio, dunque, perché è proprio inziando a guardare dalla fine che l'inizio trova il suo senso.
Anzi, La fine è il mio inizio è propria l'ultima fatica di Terzani, ma non è del Guru di Orsigna che voglio parlare.
Se sei un autore dilettante, come me, la prima cosa che viene in mente quando si inizia a scrivere è: da che punto comincio? Quali fatti, eventi, inizio a narrare. E subito si pone il problema dello scorrere del tempo nel racconto. Ora, dopo, prima: oggi, domani, ieri. Prima cosa succede? Che Tizio incontra Caio e poi, che Tizio muore. Ma nel racconto, nel nostro racconto, cosa succede?
Noi siamo abituati a pensare in termini di Fabula. E andatevi pure a leggere quel che ho scritto a proposito.
Ma se dobbiamo scrivere una storia, se dobbiamo addensare gli eventi salienti, organizzarli all’interno della narrazione, ecco che le cose cambiano. Il tempo lineare, la Fabula, il tempo che scorre da A a B può non essere più lineare, diacronico, ma può essere sincronico, non lineare. Siamo noi, e non lo Spazio Tempo, a scegliere cosa dire e quando dirlo. Siamo noi, nel nostro racconto, i Signori del Tempo. Ho scritto un capitolo a proposito.
Prendiamo ad esempio il bellissimo racconto di Tolstoj, La morte di Ivan Il'ic.
Un racconto all'apparenza semplicissimo, ma che nasconde un sapientissi-missimo lavoro di costruzione temporale, di montaggio potremmo dire prendendo in prestito il termine dal cinema, e non solo: è un racconto ricco di contenuti.
Il mio poeta preferito, Garcia Lorca, scriveva, a proposito della poesia: " Se è vero che sono poeta per Grazia di Dio, o del Demonio, lo sono anche per merito della tecnica e dell'esfuerzo, perché so con certezza cosa sia una poesia".
Noi sappiamo cosa sia un racconto? L’Officina serve in parte a rispondere al quesito.
Siamo in Russia, Anno Domini 1882, Ivan Il’ic Golovin ha 45 anni, è stato da poco promosso consigliere di Corte di Appello. Il salto di qualità nella gerarchia è notevole e il prestigio di cui gode presso amici e conoscenti lo hanno reso euforico. Ivan Il’ic è un uomo interamente occupato dalla professione, dagli obblighi sociali e dalla famiglia. Non v’è spazio per altro.
Sta mettendo su la nuova casa quando scivola dalla scala e si fa male a un fianco. Sul momento non dà peso alla cosa, un piccolo livido, e riprende la sua normale quotidianità. Ma il dolore della caduta, all'inizio lieve, giorno dopo giorno aumenta fino a costringerlo all'inattività. Inizia così una lunga malattia e con il passar del tempo, immobilizzato a letto, a un certo punto Ivan Il'ic si accorge di essere destinato a morire presto.
La percezione della fine, al contrario della moglie e dei figli i quali credono che il suo sia solo un capriccio, un dispetto fatto a loro per indurli a far di più, a responsabilizzarsi magari, gli rivela che la posizione sociale e persino i rapporti con i suoi familiari più stretti e cari, è solo una menzogna. Così come una menzogna è il loro voler ignorare la morte imminente ritenendola solo un fastidio, una seccatura tale da fingere che non esista. Questa disposizione dei suoi cari acuisce il senso di solitudine di Ivan il quale finisce per affezionarsi all'ultimo dei suoi servitori, Gerasim, fino a quel momento totalmente ignorato. Gerasim è il suo punto di partenza di un viaggio attraverso la coscienza di sé e del mondo che lo circonda e che lo porta a scoprire in quale condizione di povertà emotiva abbia fino a quel momento vissuto. Si rende conto, in questo percorso a ritroso, di non aver veramente vissuto, che solo la sua infanzia si salva, e finisce per chiedere perdono a tutti, compresi i suoi cari, per questa pochezza e per i dolori che la sua malattia comporta. Nel momento estremo Ivan Il’ici mette da parte il proprio dolore e considera quello che sta causando ad altri.
Questa è la Fabula, il Tempo della Storia.
Ma Tolstoj sa adoperare i mezzi del mestiere. Il Tempo della Storia non è identico al Tempo della Narrazione, per niente, e l’autore fa cominciare il racconto proprio dalla sua fine. L’inizio è la sua fine. Il racconto comincia proprio dall'esalazione dell'ultimo respiro di Ivan. Il primo capitolo si apre nel Palazzo di Giustizia, dove il Giudice Ivanovic dichiara: " Signori, il Giudice Ivan Il'ic è morto".
Il racconto inizia con la morte.
Poi l'autore presenta l'ambiente in cui Ivan Il’ic ha trascorso la parte più produttiva della sua vita. Da queste prime descrizioni il lettore capisce che il Giudice doveva essere un opportunista, un arrivista, un uomo meschino. Per gli amici del Giudice, si intuisce leggendo, la vera notizia non è la morte del collega, ma la liberazione di un posto ambito.
Questa costruzione narrativa rispecchia il modo in cui nel libro è presentata la morte. Da un lato, essa viene vista come un fatto che accade in generale a tutti gli esseri umani e può essere descritta esteriormente, biologicamente, come la cessazione di certe funzioni vitali. Vi è però anche un'altra prospettiva, con cui ci si avvicina alla morte, che è invece molto più interiore e individuale: non si parla più della morte in generale, ma della mia morte, in altre parole di un evento singolare che coinvolge solo il mio essere individuale: io sono solo di fronte alla morte e devo fare i conti con essa, devo viverla, rappresentarmela, trovarle un significato. In che relazione mi pongo con la mia morte? Questa doppia prospettiva è bene espressa nel passo dell'opera in cui Ivan Il'ic accetta l'idea della morte in generale, ma prova orrore verso la propria morte: il sillogismo elementare “Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale" gli era sempre sembrato giusto, ma “un conto era l'uomo-Caio, l'uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui, che non era né Caio né l'uomo in generale, ma un essere particolarissimo, completamente diverso da tutti gli altri esseri". Nella seconda prospettiva la morte di Ivan Il'ic diventa “il sacco nero", la buca che lo vuole risucchiare e inghiottire e che lo farà sparire per sempre; da ciò lui vuole difendersi, ma scopre di non avere armi perché ha sprecato la sua vita: la morte spazzerà via tutto e di lui non resterà più niente.
Dopo queste considerazioni l'autore fa entrare in scena il giudice Petr Ivanovic in casa del defunto. Lacrime, pianti, segni della croce, tutto quello che ci si potrebbe aspettare al cospetto di un defunto.
In questa prima parte il Punto di Vista è quello di Ivanovic, il quale vede il morto, incontra la moglie e i figli e persino di sfuggita il servo Gerasim. L’autore permette al lettore di conoscerli attraverso gli occhi di un pari di Ivan Il’ic, anzi quasi un doppio.
Alla fine della visita l'autore accompagna Ivanovic (e noi con lui) in una casa dove si gioca a carte e ci si diverte.
In questa prima parte il lettore si rende conto di quale sia l’ambiente in cui Ivan Il’ic si muoveva.
Le sofferenze fisiche di Ivan Il'ic sono descritte molto dettagliatamente e con orrore, ma la prospettiva che interessa Tolstoj è soprattutto quella interiore, psicologica: “Il dottore aveva ragione ad affermare che le sue sofferenze erano tremende, ma più tremende delle sofferenze fisiche erano le sofferenze morali, e in esse stava il suo principale tormento." Perché Ivan Il'ic ha paura della morte? Da cosa derivano queste sofferenze? Egli soffre per il dolore fisico, ma è chiaro che questa sofferenza è accentuata dalla consapevolezza di non aver vissuto bene. Si è soli davanti alla morte e l'unica cosa che ci resta quando essa giunge è “il pensiero del passato", cioè di come abbiamo vissuto. Ivan Il'ic guarda al suo passato e scopre che solo la sua infanzia è stata buona (lì vede la luce, non il sacco nero), “più si indietreggiava, più vita c'era" (la regressione all’infanzia), ma quanto più si procedeva verso il presente “tanto più morta era la sua vita". La morte è infatti terribilmente dolorosa quando non si è capaci di contrapporle qualcosa di sensato. L'orrore diminuisce se si è consapevoli di aver vissuto bene. Essa ci fa paura se non abbiamo nulla da opporle quando giunge, ed è una punizione e un'angoscia per chi è consapevole di aver vissuto male. Se invece si ha la coscienza che la propria vita non è stata inutile, la si affronta serenamente ed anche la sofferenza diminuisce. La morte è veramente la negazione della vita, il nulla, sia in senso materiale sia in senso spirituale; e questo nulla ci spaventa se ad esso non abbiamo niente da contrapporre, cioè se ci rendiamo conto che la nostra vita è stata inutile, insensata, inautentica. Se anche la vita è stata un nulla, al nulla della morte si somma quello della vita ed il risultato è il nulla più assoluto. L'uomo non può sfuggire alla morte, ma gli resta la possibilità di introdurre nella somma un fattore positivo, cioè qualcosa che dia significato alla vita, e di far cambiare il risultato, in modo che si ottenga un po' di senso. Ivan Il'ic acquisisce questa consapevolezza quando, provando compassione per i suoi famigliari, chiede perdono per la sofferenza che sta procurando loro, ed il dolore scompare. Egli non lo avverte più perché può finalmente affrontare con serenità la morte: la sua vita non è stata inutile, finalmente ha fatto qualcosa di positivo che l'ha riempita di significato e l'ha sottratta al nulla incalzante della morte. Al posto del sacco nero ora c'è la luce. Il senso della vita è tutto nell' “aldiquà". Al di là e al di fuori della vita c'è il nulla: il senso della vita va cercato nella vita stessa, non in qualcosa che ne sta al di fuori. Quando Ivan Il'ic riceve, su insistenza della moglie, la comunione dal prete, la sua sofferenza risulta alleviata per un momento, ma gli basta poco perché la sua mente torni ad essere dominata dal pensiero doloroso che tutto ciò per cui ha vissuto è menzogna. La comunione non risolve il suo problema perché egli non si preoccupa tanto di ciò che troverà nell'aldilà, ma di ciò che lascia qui, nella sua vita. Ivan Il'ic non pensa a consolarsi con ciò che potrà trovare oltre la vita: il problema del senso della vita va cercato nella vita stessa, non al di fuori di essa. Nel racconto vi è l'esaltazione di valori tipicamente religiosi come la solidarietà, la pietà verso i propri simili, il perdono; ma non vi è alcun riferimento alla trascendenza: quella di Tolstoj è una religione tutta umana e terrena, che può fare a meno di un essere superiore. L'uomo lotta da solo contro la morte e la sconfigge senza l'aiuto di una divinità. All'invocazione: Signore, liberaci dalla morte, Tolstoj forse preferirebbe: Uomo, libera te stesso dalla morte. La morte si vive. Dopo aver perdonato i suoi cari, Ivan Il'ic ha finalmente sconfitto la morte. Chi lo vede dal di fuori afferma che è finita la sua vita, ma lui è invece consapevole che è finita la sua morte. Adesso finalmente può morire tranquillo. Il perdono è ciò che gli permette di andarsene serenamente, e questa equivalenza è espressa con molta efficacia quando il “perdona" diventa, nella pronuncia alterata del morente, “lascia andare", cioè lasciami morire, ormai non ho più paura. E' chiaro dunque che la morte va vissuta ogni giorno, che cioè bisogna morire continuamente: ogni giorno si deve fare quell'esperienza che Ivan Il'ic ha potuto fare solo in punto di morte e che gli ha rivelato l'inautenticità in cui era vissuto fino ad allora. Solo così ci si renderà conto della minaccia costante che insidia l'essere umano e si potrà porre quotidianamente rimedio ad essa. Come si dice comunemente, bisogna vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo e chiedersi costantemente: “Ho fatto qualcosa che abbia meritato di essere vissuto? Se la morte, il nulla, mi cogliesse ora, che cosa avrei da opporle? La mia vita ha avuto un senso?" Con grande finezza, perciò, Tolstoj osserva che il volto di chi muore diventa più bello perché il trovarsi di fronte alla morte consente a tutti di fare quell'esperienza fondamentale che ci trasforma sottraendoci ad un'esistenza banale, superficiale, priva di significato: “...il suo viso, come quello di tutti i morti, era più bello, anzi più espressivo di quanto non fosse da vivo. Su quel viso si leggeva che quello che si doveva fare era stato fatto, ed era stato fatto giustamente."
Nel secondo capitolo l'autore, con un'analessi, ci conduce nel passato della vita di Ivan Il'ic.
Ma, a questo punto, il lettore sa già che Ivan Il'ic morirà, e come morirà, in quali circostanze, ma lo segue ora quando è vivo, nel pieno della sua fortuna. Ogni azione di Ivan Il’ic qui pare dettata da arroganza e presunzione, da questo momento il lettore non è spinto a provare per lui simpatia né pietà, se non la pietà che accompagna chi si conosce già sia destinato a prematura morte. Tutto va bene nella vita di Ivan Il'ic fino a quel piccolo e quasi comico scivolone. La metonimia che sconvolgerà il narrato.
Con il passare delle pagine l’autore fa vivere a Ivan Il’ic una vita che nasconde a lui la morte.
Però, chi non avesse letto il primo capitolo, se il racconto fosse stato montato secondo la logica del Tempo della Storia, non distinguerebbe l’essere di Ivan dal suo apparire, e sarebbe indotto a non nutrire alcuna compassione per la sua vicenda. Il sapere della sua morte e della sua “conversione” ci mostra anche il passato con una luce diversa.
L’inizio del quarto capitolo inizia con: “Erano tutti in buona salute”, ma presto Ivan Il’ic sarà trasportato in un mondo affatto nuovo: il mondo della malattia. E solo quando prenderà coscienza di questo nuovo stato capirà che dovrà morire. La narrazione prosegue fino a che le informazioni di Ivan Il’ic e del lettore coincidono, e in quel momento lo spostamento temporale iniziale esaurisce la sua funzione, il racconto prosegue con linearità diacronica annullando il potere divinatorio di chi legge e già sa.
Questa seconda parte precede il rito funebre e ricompare la figura del doppio, del giudice Ivanovic, vittima della sua vanità, della sua arroganza, il collega tanto simile al primo Ivan. La sua funzione è quella di rendere più presente, viva, esplicita, la differenza, il cambio di stato di Ivan. E Ivanovic si sente quasi colpevole di fronte ai figli di Ivan. Ma colpevole di cosa? Di avere la stessa età dell’amico, di aver fatto gli stessi studi e la stessa professione, di avere le identiche debolezze e passioni. Egli si sente in colpa dunque, per un qualche motivo, e la sua figura di doppio sta là a rimarcare la differenza con l’altro che proprio nel momento in cui la fine si avvicina sembra acquisire una coscienza. A sottolineare questa coscienza soffocata sopraggiunge un altro personaggio, un altro giudice, Schwarz, un morto ambulante la cui unica paura è quella di perdere una partita di whist.
Ma Ivanovic è diverso pure da questo.
Sul finale della sua vita due cose fanno star meglio Ivan Il’ic. La regressione all’infanzia, come già detto, e la presenza del servo Gerasim, l’unico a vedere da subito la malattia, e di conseguenza ad avere pietà di lui e a riconoscergli il diritto a essere trattato come un malato, quindi a trattarlo come un bambino.
Alla fine del quinto capitolo si presenta in casa di Ivan Il’ic il Deus ex machina, nella persona del cognato. Egli entra in scena per poco e per ricordare al lettore che Ivan Il’ic deve comunque morire e per mostrare alla famiglia, che ancora pensa alla malattia come a un capriccio, che Ivan Il’ic morirà presto. Il cognato è il messaggero che rivela la realtà della morte respinta e ignorata da tutti, persino dal lettore, che nel frattempo l’ha quasi dimenticata, allontanata da sè.
Questo rifiuto della morte da parte della famiglia di Ivan Il’ic non è pietà, compassione, ma menzogna. E di questa menzogna hanno circondato Ivan Il’ic moribondo. Il quale più starà male più sarà trattato come un millantatore. Solo Gerasim si sottrarrà a questo circolo vizioso.
Con l’accettazione della realtà della morte ha inizio in Ivan Il’ic un altro percorso: quello della catarsi. Che passa attraverso il rifiuto dei rituali familiari.
Quanto a Petr Ivanovic, il suo senso di colpa prelude alla nascita della coscienza. Egli sembra rendersi conto del grido di disperazione del collega e della menzogna che lo circonda. Appare diverso dall’altro collega,Schwarz, il quale morirà di sicuro con un grido di disperazione. Egli pure sembra iniziare ad accettare la morte e al ritorno a casa, dopo la partita, si sentirà male.
Tanti i temi affrontati da Tolstoj dunque e vasta la conoscenza delle tecniche narrative, dei marchingegni che costruiscono i personaggi e portano il lettore laddove l’autore pretende. Tra i temi non ultimo è una profonda critica alla società borghese del tempo: la moglie, i figli, gli amici ed i conoscenti di Ivan Il'ic - che appartengono tutti alla medesima cerchia sociale borghese - agiscono soprattutto in base all'interesse (la moglie non lo ama più ma ha deciso di restare con lui per il suo stipendio) e vedono nella sua morte qualcosa che disturba le loro abitudini di vita. La figlia, ad esempio, deve sposarsi, e un moribondo è solo un intralcio al suo matrimonio: meglio fingere che la sua morte non esista per evitare di essere disturbati nelle proprie occupazioni. Solo Gerasim, un contadino che non ha le stesse preoccupazioni dei propri padroni, ma vive un rapporto più autentico e schietto con la realtà della morte, riesce ad essergli di conforto: “Tutti dobbiamo morire, lascia che ti aiuti Ivan Il'ic".
La società borghese è menzogna e nasconde il mistero della vita e della morte dietro la ricchezza materiale, mentre quella contadina è decisamente migliore poiché fa i conti con la morte, non se la nasconde e la affronta direttamente.
Con La morte di Ivan Il'ic, del 1884-86, e con La sonata a Kreutzer, del 1888, Tolstoj aggredisce fortemente le menzogne della società borghese, e analizza, rispettivamente, il rapporto di essa con due temi fondamentali come la morte e l'amore.
La fine è il mio inizio, dunque, perché è proprio inziando a guardare dalla fine che l'inizio trova il suo senso.