L'abito di piume

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Mario Pulimanti
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L'abito di piume

Messaggio da Mario Pulimanti »

L’abito di piume
(novella breve di Mario Pulimanti)


Ostia.
Terra di mare.
Il sole è intenso.
Acque salate,
salate come la mia vita.

Mi chiamo Mario.
Mario Pulimanti.
Sono di Ostia.
E non sono un bastardo.
Nessuno sa niente di me.
Mi sono tenuto fuori dai radar.
Le persone che hanno conosciuto mio padre, affermano che sono il suo ritratto.
Lui, il poeta Antonio Valeriano, ha più volte mostrato il proprio coraggio, ma ancora di più ne ha dimostrato nell’ultima battaglia, quella contro la malattia che nel giorno di pasquetta del novantadue lo ha ucciso, ma non piegato.
Se sono in difficoltà, penso: papà ti prego fai qualcosa.
Lo so che ci sei, da qualche parte.
So che mi vedi.
Ho sempre fatto tesoro dei suoi consigli.
So quando è il tempo di passare all’azione o di starne fuori.
Tuttavia ci sono cose che facciamo perché ne abbiamo voglia e altre che facciamo perché ci tocca. Questione di sopravvivenza.
Sono fortemente attratto dalla pittura di rottura, che rifiuta il neoclassicismo ottocentesco vetusto e arrogante.
Ammiro l’opera coraggiosa dei primi espressionisti e dei secessionisti viennesi. Mi illumino davanti alle scomposizioni cubiste di Cezanne e Picasso, mi esalto con le pennellate di Van Goch, piango con Munch e le sue angosce dilatate.

Ostia.
La mente viaggia.
Il mio cuore è schiavo.

Negli ultimi tempi fluttuo in un mare di dolori fantasma e sensazioni fasulle, create dal cervello per tormentarmi e confondermi.
Sento il solletico di una mosca anche se non c’è nessuna mosca.
Sono sempre più distratto.
Non riesco ad agire perché per tutto il tempo, nonostante gli scoppi d’indignazione, penso di commettere un terribile errore, una sequela di terribili errori.
Le cose non possono stare come io sono sempre più certo che stiano.“Che cosa sto facendo?” mi chiedo sgomento mentre ritraggo il pugno che ha appena sfiorato la parete, contrito.
Chiaramente non sono saggio come Marco Aurelio Antonino, imperatore filosofo e valoroso.
Non so tenere una conversazione brillante, ma forse un ho pregio ce l’ho: sono abituato a contare solo su di me senza aspettarmi mai favori piovuti dal cielo, come mi aveva insegnato Nonna Jole. Non posso dimenticarmi il suo volto saggio e profumato, gli occhi celesti e i capelli grigi raccolti dietro la testa.
Brrr.
Mi sento gelare a questi ricordi.
Lasciamo stare.

Ostia.
Sentimenti avvelenati.
Impossibili.
Impotenza di fronte ad eventi ruggenti.
Caos oscuro.

Non avverto nulla e mi rendo conto in ritardo al bar che una tazza di caffè bollente mi si è rovesciata addosso e mi sta ustionando.
Comincio a analizzare ogni mio pensiero, cercando qualcosa di anormale o di alterato.
Mi costringo a star sveglio di notte perché ho paura dei miei sogni.
I sogni sembrano reali e non lo sono, e mi rendo conto che sono molto vicini alla pazzia.
E poi, a casa sono un disastro.
Così come, sul versante femminile, esistono le mani di fata, su quello maschile esistono gli uomini veri, quelli da amaro Montenegro, capaci di salvare cavalli ma anche di aggiustare oggetti, di riparare guasti domestici, di lavare i piatti e di cucinare.
Io, ahimé, come molti altri uomini, non appartengono a questa categoria.
In realtà so fare tante altre cose.
Leggo moltissimi libri e me li ricordo.
Credo di cavarmela con la scrittura e malgrado quello che dicono certi miei colleghi, penso di lavorare con impegno e con discreta abilità.
Faccio delle belle fotografie.
E poi quando c’è da bere e da mangiare sono un vero professionista!
Ma, come dice mia moglie Simonetta, in tutto il resto, o quasi, sono un disastro.
E quando dico disastro non esagero.
Perché la mia vita è punteggiata, quotidianamente, da sconfitte imbarazzanti.
Prendiamo la botanica.
Vi dico subito che Simonetta ha il pollice verde.
Ogni pianta che lei mette in casa diventa un baobab.
Io, invece, sono una catastrofe vivente.
Ogni pianta che metto in ufficio muore dopo pochissimi giorni.
Sono l’Attila delle azalee, dei ficus e degli oleandri.
Passiamo alla cucina.
Per sintetizzare il mio rapporto con i fornelli sarò esplicito: non so cucinare nemmeno un uovo al tegamino.
Quando prendo in mano una padella divento Fantozzi.
Confondo il sale con lo zucchero.
Mi brucio le mani quando scolo l’acqua della pasta.
E le poche volte che ho provato a cuocere una bistecca i vicini hanno chiamato i pompieri per via del fumo, che ho provocato nel palazzo.
Poi c’è il bricolage.
Se c’è da attaccare un quadro mi prendo a martellate da solo.
Se devo bucare una parete col trapano mi ritrovo nel salotto dei vicini di casa.
Non parliamo dei miei maldestri tentativi quando c’è da sturare un water: provoco un maremoto e allago l’appartamento.
Se cerco di aggiustare una presa elettrica faccio saltare la corrente in tutto il quartiere.
E pensare che ero stato sul punto di rifarmi da solo l’impianto elettrico di casa.
Già, prima che i miei, saputolo, fuggissero in una sperduta isola dell’Oceano Indiano.
Un ottimo motivo per cambiare subito idea e chiamare l’elettricista di fiducia, certo!
Da solo non riesco a mettermi un cerotto al dito.
E se prendo in mano un tubetto di attaccatutto resto per tre giorni con il pollice incollato all’indice.
Piuttosto che cambiare una gomma della mia automobile, vendo l’automobile.
Perché potrei restare lì, a combattere col crick, per intere settimane.
Impazzisco quando c’è da registrare qualcosa in Tv usando il timer.
Se decido di registrare un film mi ritrovo sul nastro un documentario sulla vita delle renne nella Lapponia orientale!
A Pasqua sono andato a trovare mia suocera a Collevecchio.
Ho fatto tutto quello che c’era da fare: zappare, potare, ripulire, non dovevo avere rimorsi di essere accusato di stare seduto con le mani in mano.
Senza scompormi, vi avviso che mi sono tagliato un dito.
Ho acceso il fuoco nella sala da pranzo: è stato purtroppo necessario l’intervento della Protezione Civile.
Ho sbagliato, a quanto pare.
E a mia moglie che mi inseguiva facendo dondolare pericolosamente l’accetta che teneva in mano, fischiettando allegramente le ho fatto presente che doveva, invece, premiare il mio piccolo sfoggio di zelo.
Anche se, tuttavia, non è passato inosservato e ha fatto qualche danno.
Vero, posso però dire che mi sento più a mio agio con penne e matite.
In fin dei conti, nessuno è perfetto!
Ho due figli.
Gabriele, detto Gabry.
Alessandro, detto Alex.
Gabriele, il mio primogenito, è nato a Roma, all'Ospedale San Giacomo, alle 20 e 30 di sabato 18 ottobre 1986.
Mentre nasceva, la TV stava trasmettendo la sigla di apertura della trasmissione”Fantastico 7” con Pippo Baudo, Lorella Cuccarini, Alessandra Martines, il Trio Lopez-Marchesini-Solenghi e Nino Frassica. La sigla era “Tutto matto” cantata da Lorella Cuccarini.
Gabriele non ha paura di dire ciò che pensa. Lui esprime sempre le sue idee. Però non è uno sconsiderato. Sostiene che a meno che un individuo non sia particolarmente versato nell’arte della retorica, le parole che pronuncia in un luogo pubblico ben presto volano fuori dal suo controllo, come foglie al vento. Una verità innocente può essere stravolta in una menzogna fatale. Ecco perché non parla di politica fuori di casa. O con estranei poco affidabili.
Alessandro, il mio secondogenito, è nato a Ostia, all'Ospedale Grassi, alle 4 del mattino di mercoledì 9 novembre 1994.
Mentre nasceva, la radio stava trasmettendo lo splendido brano di Willie Nelson "Georgia in my mind".
Sono cose che succedono.
Di rado, certo, una volta nella vita, forse due, ma posso assicurarvi che succedono perché è successo a me.
Non ci potevo credere neppure io, eppure ero lì: la mattina del nove novembre all’ospedale Grassi di Ostia, una buona struttura idonea a favorire un trattamento più umano del paziente.
Era il 1994. Il calendario della Chiesa Cattolica Romana, festeggiava Sant’Oreste di Tiana medico morto nel 304 martire in Cappadocia, durante la persecuzione di Diocleziano.
Torturato e martoriato con i chiodi perché non rispettava i principi deontologici della corporazione dei medici pagani, che nella sostanza praticavano la stregoneria facendosi pagare lautamente dai loro pazienti.
Ero appena uscito dall’Ospedale.
Stavo rientrando a casa.
L’autoradio mi stava facendo ascoltare Willie Nelson che cantava “Georgia on My Mind”, la canzone ufficiale dello stato degli Stati Uniti della Georgia.
Erano le 5 di un mattino piovoso.
Due ore prima era nato Alessandro.

Ostia.
Guardo il tramonto.
Sono avvolto dalla bellezza di quegli attimi.
La mia mente è altrove,
viaggia in un mondo fantastico.

Nel frattempo mi abbandono nella mia poltrona preferita, con in mano una tazza di caffè nero bollente.
Chi sarà questa settimana il segno piu’ favorito dalle stelle?
Diamine, il Sagittario!
Il mio segno.
La mia vita non è poi male, alle volte.
Prendo il giornale sportivo e per dieci minuti mi dedico alle rivelazioni sconvolgenti che i cronisti di questa testata sono in qualche modo riusciti a mettere insieme.
Ci sono molti articoli sfiziosi e ne comincio uno sulla segreta destinazione di Lionel Andrés Messi per il prossimo anno. Juve, Chelsea o Manchester City? O rimane al Barcellona?
Ma la storia mi annoia dopo pochi paragrafi.
Ho ragione ad essere arrabbiato.
E’ scritta con i piedi e, cosa più grave, per niente stuzzicante.
Finisce sempre così.
Io in realtà non apprezzo questa specie di semi-verità addomesticata; personalmente voglio cose forti o proprio niente.
Non comprerò più questo giornale.
Però è una decisione che ho già preso molte volte.
E so che domani ci ricadrò come uno stupido, attratto ancora una volta dalle salaci promesse della prima pagina.
Spalanco la bocca: Cristiano Ronaldo al Milan?
Ma per oggi ne ho già avuto abbastanza.
Al punto che degno appena di un’occhiata fuggevole la fotografia di una seducente promessa del cinema che mostra metà dei suoi seni da un milione di euro a un fuoriclasse dell’Inter.
Dopo aver come al solito archiviato la pagina del golf nel cestino della spazzatura, passo al quotidiano normale.
Mi sconvolge la scoperta che quasi sicuramente Renzi diminuirà le tasse.
Bene….Bene….Molto bene…Ottimo….
Nelle pagine economiche si parla della Merkel.
Che palle!
E poi mi considero romano doc, che me ne frega dell’Europa!
Io, nativo dello storico rione del Testaccio con discendenze trasteverine, cresciuto nel quartiere “giardino” della Garbatella e, dopo essermi sposato da 30 anni, residente ad Ostia “il mare di Roma” -e, quindi, profondamente romano e ben lieto di esserlo- posso, a ragione, affermare che noi romani, da più di duemila anni, a torto o a ragione, ci sentiamo superiori a tutti.
E’ un atteggiamento che fa parte della nostra storia, del nostro carattere e del nostro modo fanfarone, ma sincero, di affrontare la vita.
Ce lo vedete un romano fare la fila alla posta di Testaccio come Mr. Jones al post office di Kensington?
Ce lo vedete un romano parcheggiare la sua automobile come un danese a Copenaghen?
O ridere delle insipide barzellette fiamminghe?
E quando va in spiaggia vestirsi come quei tedeschi con sandali e calzini che incontri non solo sul lungomare di Ostia, ma anche, con lo stesso look, nel centro di Roma?
No, non è bastato certamente l’euro a convincerci che un wurstel vale una coscia d’abbacchio né che la pancetta con le uova fritte sia più saporita dei rigatoni con la pajata o della coda alla vaccinara che cucinava mia nonna Jole.
E, fortunatamente, allo stesso modo la pensano anche i miei figli Gabriele e Alessandro e tanti loro amici.
Il romano è un osso duro per l’Europa.
Prima di piegarci ad un nuovo modo di vivere e di pensare passeranno molti anni, forse diverse generazioni.
E, probabilmente non ci riusciranno mai!
Del resto “civis romanus sum!
Alla faccia di Angela Merkel.
Alla faccia del bicarbonato di sodio.
Alla faccia dell’Europa!
L’inserto culturale parla di Carosello.
“Siamo alle solite Calimero, tu non sei nero sei solo sporco, Oplà”.
La pubblicità rappresenta epoche della nostra vita più di altre forme di comunicazione.
Carosello, per esempio, ha segnato un’epoca nei costumi e nelle abitudini sociali degli italiani.
Di fronte agli spot dei nostri giorni, è difficile non provare nostalgia per la genialità o la sobria eleganza di alcuni dei messaggi di Carosello.
Da “la pancia non c’è più” al caffè di Carmencita, da Calimero a “basta la parola”, una galleria dei motti e delle immagini che hanno segnato l’infanzia di molti.
“Laggiù nel Montana fra mandrie e cowoboy c'è sempre qualcuno di troppo fra noi.... e vedendo la carne Montana che stringo alè vengon tutti a mangiare con Gringo”.
Olivella sposina novella, El merendero, Cera liu', Caramelle Ambrosoli, materassi Permaflex, Caffe' Paulista.
Vecchia Romagna con Gino Cervi, Cynar con Calindri..il logorio della vita moderna.
Lagostina, Ava come lava, con quella bocca può dire ciò che vuole ...
"Miguel son sempre mi"...
Ma Carosello, ormai, fa parte della storia del costume prima che di quella della pubblicità.
Il cui principale obiettivo è far conoscere marchi e vendere prodotti.
Perciò, accontentiamoci degli spot moderni.
Noiosi, invasivi.
Scoccianti.
Rivoglio Carosello.
Rivoglio quella televisione.
E,... dopo Carosello tutti a nanna!
Un altro articolo parla di erotismo.
La libido vacilla e il talamo annoia al punto tale che neppure la più sensuale delle guepière riesce a risvegliare gli stanchi sensi.
Certo, non è ancora arrivato il momento di mettere la sensualità in pensione.
Ehilà, basta affinare la fantasia e trovare nuove rotte.
E se il letto annoia, il divano é troppo scontato e la casa non è dotata di un ascensore che prometta una bollente risalita, ecco sbucare dal cilindro la “sexy room” del momento.
La cucina.
Sì, proprio il regno della casalinga, quello fatto di pentole, mestoli e coltellacci.
Tra un minestrone che bolle e un brasato che si rosola la fantasia erotica galoppa, quasi a far invidia a Jack Nicholson e Jessica Lange, magistralmente avvinghiati su un tavolino dopo che lui ha trillato il campanello per ben due volte.
Non è la perversione del momento, ma è la nuova tendenza del sesso domestico.
Nei sogni di noi italiani a quanto pare le lenzuola di seta, gli avvolgenti materassi ad acqua e i celebrati effluvi di N.5 hanno lasciato il posto a tovaglie quadrettate, ampi grembiuli, zaffate di aglio e peperoncino e tavoli sui quali… consumare.
Del resto con il frenetico modificarsi della vita non poteva che cambiare anche l’uso dello strumento che ci appartiene di più: la nostra casa, appunto.
Sfidando le ire dei nutrizionisti ormai si mangia in salotto, davanti a maxi schermi che lasciano i più con la forchetta sospesa tra una soap e una partita.
Le camere da letto sono diventate delle biblioteche, sommerse di riviste, libri, computer portatili e blocchi notes: letti come immense scrivanie dove tra penne e quotidiani anche il più ben disposto degli spiriti cerca un’altra strada.
Non rimane che la cucina: avvolgente, calda, sensuale, ahimè spesso disertata dalla donna che trascorre ormai la maggior parte del proprio tempo fuori casa.
Bisognava pur consegnarle un nuovo ruolo.
E cosa c’è di più nobile di votarla a talamo: luci soffuse, profumi che se non inebriano i sensi senza dubbio stuzzicano l’olfatto e il gusto, qualche fantasia la fanno pur venire.
Diciamolo, gli ingredienti ci sono tutti, basta saperli cogliere: i grandi amatori teorizzano da secoli che il sesso va giocato coinvolgendo tutti i cinque sensi.
E se poi si vuol strafare, si possono allargare gli orizzonti, d’altra parte le moderne soluzioni di design di spazi sui quali accoccolarsi ne offrono più d’uno.
Il tavolo è scontato?
C’è il piano lavoro, ci sono le sedie che diventano sempre più poltrone e meno sedili.
Insomma, aguzziamo l’ingegno.
Un solo piccolo accorgimento.
Occhio ai nuovi spazi, oggi tanto di moda: se le alcove infatti avevano il dono della privacy, la cucina e gli spazi aperti non si sono ancora attrezzati, e con porte inesistenti e ampie vetrate come vuole la moda, è molto facile passare da un momento di intimità ad una pubblica esibizione.
Questo sì che sarebbe fare una frittata!
Leggo poi gli articoli principali e quasi tutte le recensioni letterarie e cinematografiche, tento senza successo di trovare una soluzione ad un enigmatico rebus, mi blocco sul tre verticale del cruciverba della penultima pagina e infine arrivo alla pagina dedicata alla lettere e alla medicina: sempre gli stessi temi, ma con una buona dose di sano buon senso.
Poi il mio sguardo è attratto da una lettera.
Mi raddrizzo sulla poltrona per leggerla e sul mio volto compare un’espressione perplessa.
E’ della direzione generale dei trasporti comunali che risponde a una mia breve missiva sui cronici ritardi della metro di Ostia.
27 giugno, sì mi sembra proprio che sia stata pubblicata quel giorno.
Cavolo, dicono che la metro di Ostia è sempre puntuale e che le corse non vengono mai soppresse.
Emetto un fischio sottovoce e lentamente digerisco la replica del Cotral.
Che bugiardi!
Ora sarà meglio rispondere con una nuova lettera di denuncia, però non mi ricordo bene cosa abbia scritto su quella precedente.
Meglio ricontrollarla.
Mi avvicino a un’alta pila di giornali legati per bene con una cordicella, appoggiata per terra nell’ingresso accanto alla porta.
I boy-scout passano a ritirarla una volta al mese e io, anche se personalmente non sono mai stato un lupetto, entro certi limiti approvo questa organizzazione.
Strappo bruscamente la cordicella e mi metto a frugare tra i giornali.
Venticinque, ventisei, ventotto giugno.
Ma niente ventisette.
Magari l’ho buttato via con una pila precedente.
Maledizione.
Guardo un’altra volta, ma non c’é.
La lettera non l’no nemmeno salvata sul pc.
Decido allora di lasciar perdere e di non replicare, anche se prenderei volentieri a calci nel sedere i gestori della metro del Lido.
Che dite, amici?
Non posso uscirmene con affermazioni del genere senza un minimo di prove!
Sì, avete perfettamente ragione.
Ma quello che mi premerebbe ribadire è l’enorme disagio a cui andiamo quotidianamente incontro noi poveri pendolari della Roma-Lido.
In parole povere, è un sevizio scadente.
Però, che vita la mia.
Ahimè a volte mi viene da abbandonare ogni speranza, sedermi tutto solo in un garage buio, o usare il gas della cucina, o semplicemente tagliarmi la gola e morire.
Improvvisamente mi viene la pelle d’oca.
Sento una strana stretta alla gola e un lungo brivido mi corre lungo la schiena.
Meglio lascia perdere con questi pensieri.
Arriverà la fortuna anche per me.
Lo sento.
E sarà in pigiama di seta, quando arriverà.
Non può che essere così.
Non può che essere così!
Poi mi alzo e vado in cucina.
Appoggio il gomito e guardo fuori dalla finestra.
Mi siedo.
Mmm….alzo la testa e mi appoggio allo schienale della sedia traballante.
Sfoglio una rivista che è sul tavolo.
Un sorriso delicato e sognante si disegna per un attimo sulle mie labbra.
In copertina, Nicole Kidman.
Grande attrice, bionda naturale.
Anche se un po’ piatta di seno.
Ma di una tale sensualità…
Una regina del cinema.
Cinema!
Teatro!

Ostia.
Mi fermo in attesa di una profumata brezza di mare.
Delicata sul mio viso bagnato.
Di lacrime.
Ora ricordo: prendo il cellulare e telefono al teatro di Ostia Antica che, come di consueto, ospita la stagione estiva in quello che è il teatro sotto le stelle nell’incantevole scenario degli scavi archeologici.
Il direttore artistico della rassegna, Pietro Longhi, ha approntato un cartellone di primo piano con spettacoli ed interpreti di grande livello, a cominciare da quello che il 19 luglio vede protagonista il direttore artistico del teatro Nino Manfredi, Felice Della Corte.
Felice Della Corte sarà sul palcoscenico del teatro di Ostia Antica assieme a Pietro Longhi; porteranno in scena “I fratelli” di Publio Terenzio Afro con la regia di Silvio Giordani.
Tra gli interpreti anche Filippo Valastro.
Da non perdere!
Prenoto quindi un posto per sabato 19 luglio.
Ma che cavolo!
Ora mi sento in pace con me stesso e con tutto il mondo.
Vado in cucina.
Mi siedo a riflettere davanti a un bicchiere d’acqua.
Prendo del ghiaccio per raffreddarla, altrimenti mi sembrerebbe tiepida come urina di cane.
Pochi passi e sono nell’altra stanza.
Sul tavolo c’è una rivista di Alessandro, “Storia Illustrata”. La sfoglio, distrattamente.
Cavolo, la storia del Minotauro, del labirinto e del filo di Arianna.
Secondo il mito, il Minotauro venne concepito da Pasifae, moglie di Minosse re di Creta, che per accoppiarsi con il toro di cui si era invaghita entrò nel simulacro di una vacca, costruito appositamente per lei dall’architetto Dedalo.
Rinchiuso nella camera segreta di un impenetrabile labirinto, il frutto di quella unione bestiale –un mostro dal corpo umano sormontato da una testa di toro- pretendeva ogni nove anni in sacrificio sette fanciulli e sette fanciulle greci.
A ucciderlo fu infine Teseo, che uscì indenne dal labirinto grazie al filo di cui lo aveva provvisto Arianna, la figlia del re che dell’eroe si era perdutamente innamorata.
Già, l’amore!
Bella storia!
Esco in balcone.
Gli attori ci sono tutti, penso.
La commedia può cominciare.
Sto prendendo coscienza della vulnerabilità e della fragilità dell’essere umano al cospetto di una natura rigogliosa e brulicante di insidie.
Sottili stupori.
Normalmente sono risoluto a vedere il bicchiere mezzo pieno anche quando altri lo avrebbero trovato quasi vuoto.
A volte, però, il Fato capriccioso si diverte a far cadere sull’ottimismo la mannaia pesante di un colpo inatteso.
Soprattutto se c’è qualcuno che mi trama contro alle spalle.
Maledetto lestofante! grido furioso.
Puah, niente attenuanti.
Stavolta ti spello.
Ti metto in croce.
Ti inchiodo al remo.
Ti faccio a fette.
Ti affondo nelle miniere di sale.
Ti getto in pasto ai coccodrilli.
Ti lapido.
Proprio così!
Poi esco di casa
Entro nel mio bar preferito.
Il Bar Magnanti di Piazza Scipione Africano.
Quello di Gioacchino
Fabione sta sorseggiano l’ottimo caffè di Carmelo.
Cavolo, un metro e sessanta per 110 chili!
E’ in compagnia di una bella ragazza, di almeno trent’anni più giovane di lui.
Sorridendo, mi presenta Alina, rivelando una bocca piena di denti di un bianco lucente.
“E’ una ragazza rumena, di Bucarest” mi dice, stringendosi sulle spalle sproporzionatamente larghe.
Reprimo un forte desiderio di piazzare un pugno su quella faccia ghignante.
Salutati Fabione e Alina, entro nello stabilimento “Anema e core”.
Immergendomi nel profumo del vento mi siedo sul mio solito lettino.
Telefono a un amico.
Nessuna risposta.
Forse sta facendo un riposino post coitum.
Intorno a me, indolenti nuvole grigie sembrano galleggiare nell’aria, sospinte dal vento umido, leggero.
“No, Mario” mi dice il vento. “No, ascolta: non puoi cambiare la realtà”.
Sorrido: “Non temere, vento. Non ci sono problemi. Come vedi, non devi preoccuparti di nulla”.
Sono stanco di vivere nell’incertezza.
Decido saggiamente che è preferibile rallentare il passo, piuttosto che importunare chi mi condanna.
Detesto caldamente le polemiche.
Evito di fornire troppe spiegazioni.
Senza ostilità, me ne vado.
Nella luce luccicante diffusa dal mare.
Dimenticando ogni cosa.
Lentamente.
E adesso?
Nessun pensiero, se non quello di stare lì, attendere.
Smetterò di sbirciare l’orologio.
Non zoppicherò.
E, poiché di fantasia ne ho, mentre prendo a calci la realtà, comincio immediatamente a immaginare come potrebbe essere una vacanza a Collevecchio.
O vivere sopra l’arcobaleno.
Over the rainbow.
Toh, guarda chi c’è proprio lì davanti a me.
Sandro con la moglie.
Sandro, un uomo potente, a differenza di me…
Il classico uomo, di quelli che ti sembra strano che siano stati anche loro bambini.
Ti dava l’idea di esserci sempre stato, di essere stato sempre così.
Anch’io, che l’ho conosciuto, mi ricordo che a tredici anni era più o meno come quando ne aveva quaranta.
Alto, secco, con un ghigno da faina e gli scrupoli morali di un colone delle delle SS.
Se io non lo faccio a te, prima o poi te me lo fai a me.
Era questo il suo motto.
Uno così deve mettere su famiglia per forza.
E una bella famiglia.
Si è sposato giovane con una ragazza timida.
Una di quelle bambine brave che quando sono piccole fanno quello che dice il papà, e quando crescono fanno quel che dice il marito.
Umile, discreta, al suo posto.
E brutta.
Brutta come una giornata senza pane.
Li saluto e continuo a passeggiare.
La vita, si sa, è fatta di aspettative.
Si può essere felici nella vita?
A volte sì.
Stare in compagnia è meglio che stare da soli.
Grazie al cazzo, direte voi!
Ohi, ohi, immerso nei miei pensieri non mi accorgo di essere andato addosso a un ragazzotto.
Ci sono persone con cui si può essere scontrosi impunemente, e persone con cui bisogna avere delle cautele.
“Senta, signore, giochiamo a capirsi. ……faccia un po’ di attenzione…!”
Se, per esempio, siete un cinquantaseienne, fuori forma e con un ginocchio indolenzito, e la persona con cui dovete discutere è un ragazzotto cubiforme con il naso rotto, le orecchie a cavolfiore e un avambraccio tatuato con una svastica, un pochino di prudenza non fa male..
“Guardi, scusi, non l’avevo vista…”
E batto in ritirata.
All’improvviso decido di andare a trovare Federico.
Abita in via Domenico Baffigo.
Zona Ostia ponente.
Mi reco prima alla succursale della Banca Antonveneta, situata lì vicino, e mi soffermo come tutte le settimane davanti al tabellone su cui sono esposte le quote della Borsa del giorno, qualsiasi sia, perché ogni settimana compaiono sempre le stesse.
Questo, secondo me, presagisce tre cose: il tracollo della Borsa, la caduta del Governo Renzi o la morte dell’impiegato che si occupa del tabellone.
Ciononostante, prendo nota con la massima cura e mi soffermo a riflettere neanche dovessi fare un importante investimento.
Infine mi dirigo a passi brevi verso la zona del porto, dove abita il mio amico.
L’ambiente così variegato mi stordisce più del solito.
Ci sono curiosi, gente a passeggio, barbieri disoccupati, promotori finanziari che frugano nei cestini dei rifiuti e persino qualche puttanella che arriva, piena di legittima speranza, dalla periferia di Acilia.
Ci sono anche naturalmente, turisti giapponesi, a dimostrazione che Ostia ha un avvenire. Disturbato da tanta confusione sento quel che sento sempre in questa zona: che inizia a perdere pezzetti di me.
Penso di scendere fino a Viale del Sommergibile, dove i marciapiedi sono ampi e permettono di osservare la gente, ma sono spaventato dalla folla che posso trovare in questo centro del mondo, sicché mi infilo in un bar e chiedo un caffè ristretto.
E’ un bar molto piccolo, appena un segmento della portineria dell’immobile.
Bevo il mio caffè, commento con il proprietario gli interessi bassissimi del denaro investito in obbligazioni e esco per comprare il quotidiano in un’edicola che occupa una parte della portineria di un altro condominio.
Esco dal bar e giungo in Via Marino Fasan.
Qui ci sono due grandi zone: quella inferiore, del parcheggio, in cui dormono le auto; e quella superiore, delle panchine della piazza, in cui dormono i pensionati.
I pensionati non hanno nulla da fare tranne alimentare la speranza segreta che muoia prima il tizio seduto di fianco.
Federico abita nella zona più centrale di Nuova Ostia, in un palazzo super sfruttato facente parte delle case ex-Armellini, costruite con pessimo materiale e da sempre note per questa caratteristica in cui ci sono due pensioni, lo studio di un dentista, lo studio di un amministratore, quello di un avvocato, il tempio di una lettrice di tarocchi, una casa di appuntamenti, l’atelier di un sarto di paramenti sacri e lo scantinato del veggente Morgan.
Il piano terra, anch’esso ampiamente utilizzato, lo occupano un orologiaio, una caffetteria, un bingo, un ufficio di collocamento e un gioielliere confidente dei Carabinieri.
La porta è semi aperta.
Busso.
Nessuna risposta.
Timidamente, entro nella casa dove Federico vive con la giovanissima e splendida seconda moglie ucraina.
Vedo spuntare da un lato del letto un paio di gambe snelle e lunghe, un pezzetto di gonna dai colori sgargianti, il rettangolo di un pube nudo e un paio di mutandine buttate sul comodino.
Le due gambe di donna si dirigono verso di me: lunghe, sensuali, carnose.
Al di sopra delle gambe, c’è qualcos’altro: un volto ovale scuro, tostato dal sole e avvolto in una capigliatura bionda.
La proprietaria delle gambe e del volto si presenta: dice di chiamarsi Valiusha, moglie di Federico. Lui non c’é.
Gli ha telefonato la sorella per un motivo urgente ed è dovuto andare subito da lei, a Fregene.
Valiusha é pettinata all’ucraina: una superficie liscia e severa raccolta in uno chignon, come quello delle dame vittoriane.
Non deve superare i trenta anni.
E’ seminuda.
Indossa una finissima camicia da notte, ma solo fino al pube: sotto l’orlo spuntano le pieghe dell’inguine, insinuatrici di cellulite e di altre sostanze poco raccomandabili.
L’ho sorpresa in pieno sonno.
Chiede se voglio un caffè, retrocedendo di un passo.
Le dico che vado di fretta.
Lei si appoggia di schiena alla parete, ansima, piega una gamba nuda, mostra la curva del culo nudo, esibisce i danni che ha lasciato la buona tavola.
Mentre mi saluta, per un attimo mostra inavvertitamente il suo culo di marzapane e il suo pube di seta.
Esco, avendo ancora negli occhi la sua retroguardia lunare, la vita stretta e giovane e le gambe, sicuramente guardate di sottecchi da eserciti di uomini, assessori e preti.
Valiusha, complimenti: un culo perfetto e abbondante è un miracolo.
Solo una donna su cento ce l’ha.
Sono di nuovo in strada.
Nuova Ostia: un mondo pieno di vita, di sacrificio, di peccato e di speranza.
Intorno a me, turisti pidocchiosi, poeti in vendita al miglior offerente, sindacalisti intenti a redigere un manifesto in cui chiedono la giornata lavorativa di due ore.
Qui circoli culturali e sezioni politiche coesistono fianco a fianco con i negozietti a gestione familiare in cui si possono cambiare assegni,pagare bollette e comprare parrucche, artigianato africano, liquori e mobilio vario.
Molti degli edifici più vecchi sono deserti e parecchi sono recintati o sigillati da porte metalliche coperte di graffiti.
Dietro le strade più affollate, elettrodomestici a pezzi aspettano che qualcuno venga a razziarli e la spazzatura si ammonticchia agli angoli delle case e davanti ai marciapiedi.
Erbacce e giardini di fortuna invadono i lotti abbandonati.
Le affissioni reclamizzano gli spettacoli dei teatri di Ostia, il Pegaso, il Fara Nume, Affabulazione, il Dafne, il Teatro del Lido, ma anche il più importante Teatro Nino Manfredi, mentre centinaia di manifestini coprono pareti e staccionate, annunciando spettacoli e show di qualche compagnia locale di attori semisconosciuti.
Tornando indietro, verso Via della Corazzata, lo scenario cambia: gli edifici deserti sono stati abbattuti o ristrutturati, i cartelloni fuori dai cantieri mostrano quali residenze idilliache presto rimpiazzeranno le costruzioni preesistenti.
Difatti la zona appena limitrofa a Corso Duca di Genova è bella e alberata, con marciapiedi puliti. Le file di vecchi edifici sono in buone condizioni.
Prima di arrivare sotto il mio portone c’è un palazzo di arenaria, con la facciata ricca di decorazioni scolpite nella pietra ed il ferro battuto di un nero lucente sotto il sole della tarda mattinata.
E più avanti due splendide palazzine risalenti agli anni sessanta.
Mi fermo vicino a quella di destra, davanti alla fermata dello 01.
Ecco, questa è casa mia.
Cavolo, proprio sotto casa mia mi imbatto in Francesco e Renato.
Francesco é stato lasciato da Dana.
Giovane e russa.
E vegetariana.
Cerco di fargli coraggio.
“Che si ficcasse in culo” risponde.
Vuol fra credere che per lui sia una storia passata.
“Fanculo ai cattivi ricordi” grugnisce.
Ma io sono sicuro che è ancora innamorato di lei.
E sono sicuro che stia soffrendo.
E soffrirà ancora di più domani: il ricordo col tempo fa male.
Molto male.
“Ultimamente la vedevo poco” continua “E quando la vedevo si comportava come tutte le ragazze di oggi: mi mandava a quel paese”.
“Lascialo perdere” brontola Renato.
Novantenne bolognese.
Amante dei sigari toscani.
Comandante della Brigata partigiana Stella Rossa “Lupo”.
Renato ride con la sua risata sana e profonda, che ha attraversato anni difficili, tempi della guerra, di picconi e di pale, di spazzoloni e di fame, di quando si è giovani, si ha solo un’ora libera e nulla da mettere sotto i denti, e allora si ride così.
“Non penso che Francesco stia bene” dico.
“Ma che importa? Era difettosa: non portava nemmeno il reggicalze.
Però aveva bel culo” dice il vecchio partigiano.
“Sei cinico, Renato. E pure irriverente”
“Ma no! Ogni volta che muore un mio amico vado al funerale”.
Il sigaro è arrivato a metà.
Francesco intanto lo guarda con uno sguardo poco soddisfatto, come si guarda la fidanzata di cui si conosce già più di metà corpo.
“Insomma smettetela di parlare di Dana: brutta troia”
“Non è necessario che la insulti. Sta calmo. Non ti agitare. Pensa invece al governo Renzi. Le sue parole contengono elementi allucinogeni, affinché la gente creda alle cifre ufficiali sull’aumento del costo della vita” risponde Renato.
“Ma che sciocchezze stai dicendo” dice Francesco.
“Invece io penso che Renato abbia ragione. Questo governo ha deluso anche me” faccio io.
“Bravo Mario” risponde il vecchio comandante “E poi dovete sapere che la vita bisogna guidarla, non farsi guidare da lei”.
“Certo” risponde Francesco “Però c’è ancora qualcosa che continua a puzzare. Forse è la storia della mia vita che puzza. Puzza di Merda”.
“Smettila, Francesco. Dovevi sapere che non puoi ingannare una vegetariana: prima o poi mangia la foglia…. andiamo invece a farci una bella bevuta al bar di Gioacchino”.
Mentre entriamo, mi rivolgo a Francesco “Devo imparare a ricordarmi dei funerali, per quando ci sarà il suo”.
Torno a casa.
Arrivo al portone.
Entro.
Salgo le scale.
Incontro Alex.
Vicino a lui, una giovane coppia di condomini.
Lei, color coscia di ninfa emozionata, teneramente abbracciata a lui, il cui viso paffuto fa pensare a un cherubino trombettiere.
“Tu sei il mio destino. Ed io il tuo” si sussurrano.
Li saluto.
Poi Alex ed io entriamo a casa. Chiudo bene la porta d’ingresso.
Alex dice: “Insomma, papà, mi spieghi perché, se mi prendo una cotta per una ragazza divento più scemo di un pollo e meno intraprendente di una vongola?”.
“In che senso?”, rispondo incredulo.
“Ti sto dicendo che la ragazza che amo diventa la ragazza a cui non mi avvicino, a cui non rivolgo più la parola, di fronte alla quale distolgo lo sguardo. In fondo non è diverso dal comportamento che avresti verso una ragazza di cui non ti importa niente”.
“Come sarebbe?”
“Sei un idiota papà”.

In questo periodo le conversazioni tra di noi di rado durano più a lungo.
Faccio una doccia.
Bevo un bicchiere di cognac.
Poi la grande decisione.
Debbo dedicarmi al bricolage domestico.
Mi sento felice, più felice di quanto non mi sia sentito da molti giorni e molte ore.
Non so cosa mi spinga, dopo sei mesi di buoni propositi e tergiversazioni, a riparare il buco sbrindellato sopra la porta della cucina nel punto in cui l’elettricista ha portato i fili per un nuovo allacciamento.
Comunque, va tutto per il verso sbagliato sin dal primo momento.
Lo stucco in polvere, comprato quasi due anni prima, si è indurito come un blocco di cemento e la rudimentale scaletta che ho in casa non è mai stata stabile sulle sue gambe traballanti.
Ma qualunque sia stato il motivo del mio improvviso bisogno di riempire quel maledetto buco, sprofondo in verticale dalla cima della scala, come un paracadutista in caduta libera.
Cado sul piede destro con dolore lancinante, resto a terra per un paio di minuti con un senso di nausea, asciugandomi il sudore freddo che mi si forma sulla fronte, e finalmente zoppicando riesco a raggiungere la sala da pranzo dove, con il fiato grosso, mi siedo sul divanetto.
Dopo un po’ il male si attenua e mi sento alquanto rassicurato, ma mezz’ora più tardi compare il gonfiore mentre fitte strazianti e improvvise mi tormentano il collo del piede.
Riuscirò a guidare?
So che è assurdo solo provarci.

Sono le sette di sera di giovedì 10 luglio.
MMXIV.

C’è solo una cosa da fare.
Arrancando e barcollando raggiungo il telefonino e chiamo Gabry.
E, nel giro di mezz’ora, mi ritrovo a sedere sconsolato nella sala d’aspetto del pronto soccorso dell’Ospedale Grassi di Ostia, in attesa dell’esito delle lastre.
C’é una atmosfera alla Annibale il Cannibale.
Mi sento un po’ depresso.
Sta pure piovendo.
Mi passa davanti una giovane infermiera.
Penso di trovarmi di fronte a una dea greca che ha lasciato la rigidità del marmo per tentare l’avventura umana.
Vicino a me una mamma preoccupata con un bambino accigliato che legge un libro.
Alzo la testa e gli dico: “Alice nel paese delle meraviglie”. C’è un coniglio che corre sempre, un gatto sornione, un cappellaio matto e una regina cattiva con un esercito di soldati idioti. Chiamalo paese delle meraviglie! Paese da incubo, direi”.
“Andiamocene!”, urla la mamma, interrompendomi stizzita.
Alla fine sono visitato da un medico giovane che contempla le mie lastre con tutto l’interesse di un invitato annoiato che dà un’occhiata fuggevole alle diapositive delle vacanze del suo ospite.
“Niente di rotto”.
Mi prescrive un bendaggio e le stampelle fornite dall’ospedale. Esprimo la mia gratitudine nei confronti del medico e, vacillando esitante, torno da Gabry che mi aspetta.
“Lei” mi grida il medico da dietro le spalle.
“Lei, Pulimanti. Due giorni niente lavoro. Riposo. Ok?”
“Non si preoccupi, grazie” dico.
“Lei, Pulimanti. Vuoi guarire, eh? Niente lavoro. Due giorni. Riposo. Ok?”
“Ok”. Oh, Signore!

Ritornando a casa, stavolta incontro Claudio.
Mi presenta Olga, una ragazza moldava.
Sottovoce mi informa che non si tratta di una fidanzata ma solo di un’oasi di affettuosità, tenerezze e sospiri.
“Olga mi ha stregato” dice mentre io annuisco serio. “Non é una donna. E’ la donna, quella da cui veniamo e a cui ritorniamo, la matrice dell’amore, madre e amante insieme, punto di partenza e punto di arrivo”. “Tanto meglio” rispondo con un mezzo sorriso, mentre lo saluto bruscamente.
Dopo che Gabry se ne è andato, resto a sedere con le mani congiunte davanti alla faccia, le punte delle dita che si toccano e gli occhi chiusi, come se pregassi una benevola divinità di gettare una luce sul mio sentiero oscuro.
Ma, sia pur senza volerlo, ho da tempo fatto la tara all’idea che esista un qualsivoglia agente sovrannaturale.
Sto solo pescando con pazienza nelle acque torbide della mia mente.
“Dunque?” dice Simonetta appena mi vede.
“E’ molto, molto doloroso. Per via delle terminazioni nervose o qualcosa del genere. Ma in fin dei conti è solo una contusione” rispondo io.
“Bè, anche se non te lo meriti, vado a preparare la cena”.
Mica male, tonnarelli al tartufo, accompagnati da un Chiaranda del Merlo, fermentato in rovere ed affinato in bottiglia!
Mangio con gusto.
Simonetta risponde al cellulare.
Poi si gira lentamente sui tacchi e se ne va.
E mentre sto seduto in cucina con lo sguardo fisso sulle piastrelle bianche mi sento travolgere da un sentimento di disprezzo per me stesso, di solitudine e infelicità.
Sta facendo buio quando finalmente esco di casa.
Salgo sulla mia Ford, esco dal cortile, nel quale le pozzanghere sono ormai quasi asciutte, e giro a sinistra per immettermi a Corso Duca di Genova diretto al teatro Manfredi.
Mentre supero la rotatoria vicino alla posta centrale vedo due persone accanto alla strada con il pollice alzato.
Una di loro è una ragazza, una ragazza carina, per quel che posso giudicare.
Però é più vicina al look puttana. Forse anche l’altra è una ragazza. Difficile dirlo.
Le sorpasso.
Costeggio Regina Pacis.
Parcheggio la macchina.
Ed entro al teatro.
Come dice Giorgio Albertazzi: “Il cinema è bello, ma se lui è la pelle, il teatro è lo spirito”.
Mio padre, il poeta Antonio Valeriano, usava spesso dirci: “Amo l’arte e il bello in generale. Amo il mare e il suo profumo. Mi piace osservare le stelle. Adoro la campagna dolce di Collevecchio. Amo il cinema. Ma più di tutto amo il teatro, da quando ho memoria”.
E lui, che aveva iniziato scrivendo opere teatrali, ci confessava che il teatro lo attraeva molto, reputandolo una forma letteraria più completa rispetto al racconto e anche allo stesso romanzo.
A mezzanotte sono di nuovo a casa.
Non c’è ancora nessuno.
Telefono a Ferruccio.

“Mario” dice “prendi la storia di quel bravo ragazzo, scapolo, che abbandona il mestiere di falegname per mettersi a battere le strade dicendo alla gente che Dio li ama e che devono amarsi fra loro. Il giovanotto, in più, dà seguito alle sue parole: ti guarisce i lebbrosi, ti restituisce la vista ai ciechi, resuscita il suo amico Lazzaro, impedisce che una poveretta venga lapidata per essersi fatta scopare da un barbuto diverso dal marito eccetera, chi più ne ha più ne metta. Miracoli, massime, buone azioni a valanga, ecco il programma di Gesù. Ebbene, cosa ci ricava alla fine il ragazzo? A trentatré anni lo arrestano perché nessuno lo regge più, gli improvvisano un processo farsa e lo inchiodano su due tavole. Splendida ricompensa! E’ chiaro che da allora la vocazione alla gentilezza non va tanto per la maggiore. Bisogna essere un santo per fare il Gesù, dopo quello che è successo! Con queste parole voglio dimostrare che l’amore è dinamite. Che le persone che parlano d’amore passano per terroristi in una società retta dall’interesse e governata dalla paura. Non viviamo nel mondo delle fate!”
“Davvero, roba da matti!” rispondo.
Smadonno mentalmente, mentre lo saluto.
Vado a letto.
Non riesco a dormire.
Per tutti gli dei, l’unica soluzione è alzarsi e provare a fare qualcosa per distrarmi.
Non ho intenzione di camminare per casa a questa ora del mattino, così accendo l’abat-jour, prendo un libro di Tinto Brass dal comodino e mi appoggio con la schiena sui cuscini per leggere.

Ostia
Cerco la luce.
Indispensabile per poter sorridere di nuovo.

Il nulla mi circonda o è dentro di me?
Un alito di vento mi accarezza il viso, leggero come un sussurro.
Sta accadendo qualcosa…
Un angelo.
Simbolo di libertà.
Lo vedo avanzare come in un sogno.
Bianco, candido, puro.
Talmente splendente da riflettere i raggi del sole.
I suoi movimenti aggraziati non tradiscono la minima incertezza.
Per un attimo vorrei essere come lui.
Ora che lo vedo così da vicino, é più bello di quanto vorrei.
Il suo sguardo è troppo dolce e profondo per non fare male.
Mi lascia senza fiato.
“Era un pò di tempo che ti stavo aspettando” sembra dirmi.
“Dove sei stato tutto questo tempo?”
Taccio.
Non ho parole per rispondere alla sua domanda.
Ma solo un semplice gesto.
Una carezza.
Un gesto che suona come un: “Lo so…mi dispiace averti fatto attendere così a lungo…”
O che forse, non ha altri significati oltre a quello della sua estrema naturalezza.
Il luogo non ha nessuna importanza…non l’ha mai avuta.
Finalmente me ne rendo conto.
Lascio che i pensieri dell’angelo apparso di fronte a me crescano, saturino l’aria.
Li trovo bellissimi.
Armoniosi come uno spartito di note invisibili.
E non posso fare altro che ascoltare.
Quando l’essenza delle cose riesce a sfiorarti, é sufficiente lasciarsi prendere per mano senza voltarsi indietro.
Senza tormentarsi sulla causalità di un incontro.
O di un addio.
Ora ho le chiavi per abbandonarmi alla carezza del vento.
Oltre l’orizzonte.
E non posso smettere di sorridere nel momento in cui vedo mamma con il suo abito di piume illuminata dalla luce della luna.
Debbo ritenermi soddisfatto, rifletto allungando di nuovo le gambe sul letto, di avere avuto una mamma come mamma Ernesta.
Lei, che mi ha guarito i graffi e le ferite con una carezza magica.
Lei, un posto caldo dove ho trovato sempre un abbraccio.
Lei, con quell’odore di buono che mi faceva tornare bambino.
Lei, che mi lasciava andare anche se avrebbe voluto tenermi stretto a sé.
Lei, una canzone nella notte.
Lei, una ninna nanna speciale.
Lei, uno sguardo che non aveva bisogno di parole.
Lei, quella che sapeva, sempre, cosa era la cosa migliore per me.
Lei, quella mano che mi ha tenuto mentre traballando imparavo a camminare.
Lei, il bum bum del cuore che sentivo appoggiando la testa sul suo petto.
Lei, mamma, una parola: la prima che ho detto.
Lei, mamma, un sorriso: il primo che ho visto.
Lei, mamma, una voce: la prima che ho udito.
Lei, mamma, un sapore: il primo che ho assaggiato.
Lei, mamma, una culla: la prima che ho avuto.
Lei, mamma, che soffrendo mi ha fatto nascere.
Lei, che mi ha parlato nel cuore della notte.
Quando tutto il mondo era addormentato.
E nessuno, tranne me, udiva le sue parole.
E, tenendomi fra le braccia, mi avvolgeva di un amore che aveva una forza inaudita.

Sfoglio un vecchio album di fotografie: qui avevo sei anni.

“Vieni!” sembra dirmi, prendendomi la mano per condurmi a casa.

Mi manchi, mamma.

Improvvisamente mi sento invadere da una torpida sonnolenza.

Quando mi addormento, mentre il giorno si spegne lentamente, sulle pagine lucide dell’album spiccano ancora le tracce delle mie lacrime.


Mio caro lettore clandestino, un grazie con l’inchino e il cappello piumato e svolazzante.
Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)
Allegati
lacrime33.jpg
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