Pornografia pesante
Inviato: 19/04/2012, 11:48
PORNOGRAFIA PESANTE
Ciao, mi chiamo Mario.
Mario Pulimanti.
Negli ultimi tempi fluttuo in un mare di dolori fantasma e sensazioni fasulle, create dal cervello per tormentarmi e confondermi.
Sento il solletico di una mosca anche se non c’è nessuna mosca.
Sono sempre più distratto.
Non avverto nulla e mi rendo conto in ritardo al bar che una tazza di caffè bollente mi si è rovesciata addosso e mi sta ustionando.
Sarà perché ho 56 anni?
Comincio a analizzare ogni mio pensiero, cercando qualcosa di anormale o di alterato.
Mi costringo a star sveglio di notte perché ho paura dei miei sogni.
I sogni sembrano reali e non lo sono, e mi rendo conto che sono molto vicini alla pazzia.
E poi, a casa sono un disastro.
Così come, sul versante femminile, esistono le mani di fata, su quello maschile esistono gli uomini veri, quelli da amaro Montenegro, capaci di salvare cavalli ma anche di aggiustare oggetti, di riparare guasti domestici, di lavare i piatti e di cucinare.
Io, ahimé, come molti altri uomini, non appartengono a questa categoria.
In realtà so fare tante altre cose.
Leggo moltissimi libri e me li ricordo.
Credo di cavarmela con la scrittura e malgrado quello che dicono certi miei colleghi, penso di lavorare con impegno e con discreta abilità.
Faccio delle belle fotografie.
E poi quando c’è da bere e da mangiare sono un vero professionista!
Ma, come dice mia moglie Simonetta, in tutto il resto, o quasi, sono un disastro.
E quando dico disastro non esagero.
Perché la mia vita è punteggiata, quotidianamente, da sconfitte imbarazzanti.
Prendiamo la botanica.
Vi dico subito che Simonetta ha il pollice verde.
Ogni pianta che lei mette in casa diventa un baobab.
Io, invece, sono una catastrofe vivente.
Ogni pianta che metto in ufficio muore dopo pochissimi giorni.
Sono l’Attila delle azalee, dei ficus e degli oleandri.
Passiamo alla cucina.
Per sintetizzare il mio rapporto con i fornelli sarò esplicito: non so cucinare nemmeno un uovo al tegamino.
Quando prendo in mano una padella divento Fantozzi.
Confondo il sale con lo zucchero.
Mi brucio le mani quando scolo l’acqua della pasta.
E le poche volte che ho provato a cuocere una bistecca i vicini hanno chiamato i pompieri per via del fumo, che ho provocato nel palazzo.
Poi c’è il bricolage.
Se c’è da attaccare un quadro mi prendo a martellate da solo.
Se devo bucare una parete col trapano mi ritrovo nel salotto dei vicini di casa.
Non parliamo dei miei maldestri tentativi quando c’è da sturare un water: provoco un maremoto e allago l’appartamento.
Se cerco di aggiustare una presa elettrica faccio saltare la corrente in tutto il quartiere.
E pensare che ero stato sul punto di rifarmi da solo l’impianto elettrico di casa.
Già, prima che i miei, saputolo, fuggissero in una sperduta isola dell’Oceano Indiano.
Un ottimo motivo per cambiare subito idea e chiamare l’elettricista di fiducia, certo!
Da solo non riesco a mettermi un cerotto al dito.
E se prendo in mano un tubetto di attaccatutto resto per tre giorni con il pollice incollato all’indice.
Piuttosto che cambiare una gomma della mia automobile, vendo l’automobile.
Perché potrei restare lì, a combattere col crick, per intere settimane.
Impazzisco quando c’è da registrare qualcosa in Tv usando il timer.
Se decido di registrare un film mi ritrovo sul nastro un documentario sulla vita delle renne nella Lapponia orientale!
A Pasqua sono andato a trovare mia suocera a Collevecchio, un paesino di campagna.
Ho fatto tutto quello che c’era da fare: zappare, potare, ripulire, non dovevo avere rimorsi di essere accusato di stare seduto con le mani in mano.
Senza scompormi, vi avviso che mi sono tagliato un dito.
Ho acceso il fuoco nella sala da pranzo: è stato purtroppo necessario l’intervento della Protezione Civile.
Ho sbagliato, a quanto pare.
E a mia moglie che mi inseguiva facendo dondolare pericolosamente l’accetta che teneva in mano, fischiettando allegramente le ho fatto presente che doveva, invece, premiare il mio piccolo sfoggio di zelo.
Anche se, tuttavia, non è passato inosservato e ha fatto qualche danno.
Vero, posso però dire che mi sento più a mio agio con penne e matite.
In fin dei conti, nessuno è perfetto!
Arrivo a Ostia.
Entro in una libreria.
Acquisto “La regina di Pomerania e altre storie di Vigàta” di Andrea Camilleri e “Le Beatrici” di Stefano Benni.
Poi,incuriosito dalla copertina acquisto anche un racconto pornografico di Tinto Brass “Elogio della donna erotica” .
Prendo il bus.
Arrivo al portone.
Entro.
Salgo le scale.
Incontro Alex.
Vicino a lui, una coppia di condomini.
Li saluto.
Poi Alex ed io entriamo a casa.
Chiudo bene la porta d’ingresso.
“Che cos’hanno quei due che non va?” chiede Alex.
“Niente di nuovo, no?” dico io.
“Quasi non si rivolgono la parola”.
“Tutte le coppie sposate prima o poi finiscono così”.
“Ma una volta era diverso”.
“Bé, tu non sei di grande aiuto”:
“Neanche tu”.
“Cosa vuoi dire?”.
“Ma sta’ zitto!”.
“Sei un idiota papà”.
In questo periodo le conversazioni tra di noi di rado durano più a lungo.
Sarà per colpa dell’età dello sviluppo…
Faccio una doccia.
Bevo un bicchiere di cognac.
Poi la grande decisione.
Debbo dedicarmi al bricolage domestico.
Mi sento felice, più felice di quanto non mi sia sentito da molti giorni e molte ore.
Non so cosa mi spinga, dopo sei mesi di buoni propositi e tergiversazioni, a riparare il buco sbrindellato sopra la porta della cucina nel punto in cui l’elettricista ha portato i fili per un nuovo allacciamento.
Comunque, va tutto per il verso sbagliato sin dal primo momento.
Lo stucco in polvere, comprato quasi due anni prima, si è indurito come un blocco di cemento e la rudimentale scaletta che ho in casa non è mai stata stabile sulle sue gambe traballanti.
Ma qualunque sia stato il motivo del mio improvviso bisogno di riempire quel maledetto buco, sprofondo in verticale dalla cima della scala, come un paracadutista in caduta libera.
Cado sul piede destro con dolore lancinante, resto a terra per un paio di minuti con un senso di nausea, asciugandomi il sudore freddo che mi si forma sulla fronte, e finalmente zoppicando riesco a raggiungere la sala da pranzo dove, con il fiato grosso, mi siedo sul divanetto.
Dopo un po’ il male si attenua e mi sento alquanto rassicurato, ma mezz’ora più tardi compare il gonfiore mentre fitte strazianti e improvvise mi tormentano il collo del piede.
Riuscirò a guidare?
So che è assurdo solo provarci.
Sono le sette di sera di mercoledì 18 aprile.
C’è solo una cosa da fare.
Arrancando e barcollando raggiungo il telefonino e chiamo Gabry.
E, nel giro di mezz’ora, mi ritrovo a sedere sconsolato nella sala d’aspetto del pronto soccorso dell’Ospedale Grassi di Ostia, in attesa dell’esito delle lastre.
Mi sento un po’ depresso.
Sta pure piovendo.
Alla fine sono visitato da un medico giovane che contempla le mie lastre con tutto l’interesse di un invitato annoiato che dà un’occhiata fuggevole alle diapositive delle vacanze del suo ospite.
“Niente di rotto”.
Mi prescrive un bendaggio e le stampelle fornite dall’ospedale.
Esprimo la mia gratitudine nei confronti del medico e, vacillando esitante, torno da Gabry che mi aspetta.
“Lei” mi grida il medico da dietro le spalle.
“Lei, Pulimanti. Due giorni niente lavoro. Riposo. Ok?”
“Non si preoccupi, grazie” dico.
“Lei, Pulimanti. Vuoi guarire, eh? Niente lavoro. Due giorni. Riposo. Ok?”
“Ok”. Oh, Signore!
Ritorno a casa.
Dopo che Gabry se ne è andato, resto a sedere con le mani congiunte davanti alla faccia, le punte delle dita che si toccano e gli occhi chiusi, come se pregassi una benevola divinità di gettare una luce sul mio sentiero oscuro.
Ma, sia pur senza volerlo, ho da tempo fatto la tara all’idea che esista un qualsivoglia agente sovrannaturale.
Sto solo pescando con pazienza nelle acque torbide della mia mente.
“Dunque?” dice Simonetta appena mi vede.
“E’ molto, molto doloroso. Per via delle terminazioni nervose o qualcosa del genere. Ma in fin dei conti è solo una contusione” rispondo io.
“Bè, anche se non te lo meriti, vado a preparare la cena”.
Mica male, tonnarelli al tartufo, accompagnati da un Chiaranda del Merlo, fermentato in rovere ed affinato in bottiglia!
Mangio con gusto.
Simonetta risponde al cellulare.
Poi si gira lentamente sui tacchi e se ne va.
E mentre sto seduto in cucina con lo sguardo fisso sulle piastrelle bianche mi sento travolgere da un sentimento di disprezzo per me stesso, di solitudine e infelicità.
Sta facendo buio quando finalmente esco di casa.
Salgo sulla mia Ford, esco dal cortile, nel quale le pozzanghere sono ormai quasi asciutte, e giro a sinistra per immettermi a Corso Duca di Genova diretto al teatro Manfredi.
Mentre supero la rotatoria vicino alla posta centrale vedo due persone accanto alla strada con il pollice alzato.
Una di loro è una ragazza, una ragazza carina, per quel che posso giudicare.
Forse anche l’altra è una ragazza.
Difficile dirlo.
Le sorpasso.
Costeggio Regina Pacis.
Parcheggio la macchina.
Ed entro al teatro.
Come dice Giorgio Albertazzi: “Il cinema è bello, ma se lui è la pelle, il teatro è lo spirito”.
Mio padre, il poeta Antonio Valeriano, usava spesso dirci: “Amo l’arte e il bello in generale.
Amo il mare e il suo profumo. Mi piace osservare le stelle. Adoro la campagna dolce di Collevecchio. Amo il cinema. Ma più di tutto amo il teatro, da quando ho memoria”.
E lui, che aveva iniziato scrivendo opere teatrali, ci confessava che il teatro lo attraeva molto, reputandolo una forma letteraria più completa rispetto al racconto e anche allo stesso romanzo.
A mezzanotte sono di nuovo a casa.
Non c’è ancora nessuno.
Vado a letto.
Non riesco a dormire.
Per tutti gli dei, l’unica soluzione è alzarsi e provare a fare qualcosa per distrarmi.
Non ho intenzione di camminare per casa a questa ora del mattino, così accendo l’abat-jour, prendo il libro di Tinto Brass dal comodino e mi appoggio con la schiena sui cuscini per leggere.
Quando la pallida luce dell’alba comincia a diffondersi su Ostia, il libro ormai mi è caduto sul petto e io sonnecchio tranquillo, immerso in un sonno privo di sogni.
Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)
Ciao, mi chiamo Mario.
Mario Pulimanti.
Negli ultimi tempi fluttuo in un mare di dolori fantasma e sensazioni fasulle, create dal cervello per tormentarmi e confondermi.
Sento il solletico di una mosca anche se non c’è nessuna mosca.
Sono sempre più distratto.
Non avverto nulla e mi rendo conto in ritardo al bar che una tazza di caffè bollente mi si è rovesciata addosso e mi sta ustionando.
Sarà perché ho 56 anni?
Comincio a analizzare ogni mio pensiero, cercando qualcosa di anormale o di alterato.
Mi costringo a star sveglio di notte perché ho paura dei miei sogni.
I sogni sembrano reali e non lo sono, e mi rendo conto che sono molto vicini alla pazzia.
E poi, a casa sono un disastro.
Così come, sul versante femminile, esistono le mani di fata, su quello maschile esistono gli uomini veri, quelli da amaro Montenegro, capaci di salvare cavalli ma anche di aggiustare oggetti, di riparare guasti domestici, di lavare i piatti e di cucinare.
Io, ahimé, come molti altri uomini, non appartengono a questa categoria.
In realtà so fare tante altre cose.
Leggo moltissimi libri e me li ricordo.
Credo di cavarmela con la scrittura e malgrado quello che dicono certi miei colleghi, penso di lavorare con impegno e con discreta abilità.
Faccio delle belle fotografie.
E poi quando c’è da bere e da mangiare sono un vero professionista!
Ma, come dice mia moglie Simonetta, in tutto il resto, o quasi, sono un disastro.
E quando dico disastro non esagero.
Perché la mia vita è punteggiata, quotidianamente, da sconfitte imbarazzanti.
Prendiamo la botanica.
Vi dico subito che Simonetta ha il pollice verde.
Ogni pianta che lei mette in casa diventa un baobab.
Io, invece, sono una catastrofe vivente.
Ogni pianta che metto in ufficio muore dopo pochissimi giorni.
Sono l’Attila delle azalee, dei ficus e degli oleandri.
Passiamo alla cucina.
Per sintetizzare il mio rapporto con i fornelli sarò esplicito: non so cucinare nemmeno un uovo al tegamino.
Quando prendo in mano una padella divento Fantozzi.
Confondo il sale con lo zucchero.
Mi brucio le mani quando scolo l’acqua della pasta.
E le poche volte che ho provato a cuocere una bistecca i vicini hanno chiamato i pompieri per via del fumo, che ho provocato nel palazzo.
Poi c’è il bricolage.
Se c’è da attaccare un quadro mi prendo a martellate da solo.
Se devo bucare una parete col trapano mi ritrovo nel salotto dei vicini di casa.
Non parliamo dei miei maldestri tentativi quando c’è da sturare un water: provoco un maremoto e allago l’appartamento.
Se cerco di aggiustare una presa elettrica faccio saltare la corrente in tutto il quartiere.
E pensare che ero stato sul punto di rifarmi da solo l’impianto elettrico di casa.
Già, prima che i miei, saputolo, fuggissero in una sperduta isola dell’Oceano Indiano.
Un ottimo motivo per cambiare subito idea e chiamare l’elettricista di fiducia, certo!
Da solo non riesco a mettermi un cerotto al dito.
E se prendo in mano un tubetto di attaccatutto resto per tre giorni con il pollice incollato all’indice.
Piuttosto che cambiare una gomma della mia automobile, vendo l’automobile.
Perché potrei restare lì, a combattere col crick, per intere settimane.
Impazzisco quando c’è da registrare qualcosa in Tv usando il timer.
Se decido di registrare un film mi ritrovo sul nastro un documentario sulla vita delle renne nella Lapponia orientale!
A Pasqua sono andato a trovare mia suocera a Collevecchio, un paesino di campagna.
Ho fatto tutto quello che c’era da fare: zappare, potare, ripulire, non dovevo avere rimorsi di essere accusato di stare seduto con le mani in mano.
Senza scompormi, vi avviso che mi sono tagliato un dito.
Ho acceso il fuoco nella sala da pranzo: è stato purtroppo necessario l’intervento della Protezione Civile.
Ho sbagliato, a quanto pare.
E a mia moglie che mi inseguiva facendo dondolare pericolosamente l’accetta che teneva in mano, fischiettando allegramente le ho fatto presente che doveva, invece, premiare il mio piccolo sfoggio di zelo.
Anche se, tuttavia, non è passato inosservato e ha fatto qualche danno.
Vero, posso però dire che mi sento più a mio agio con penne e matite.
In fin dei conti, nessuno è perfetto!
Arrivo a Ostia.
Entro in una libreria.
Acquisto “La regina di Pomerania e altre storie di Vigàta” di Andrea Camilleri e “Le Beatrici” di Stefano Benni.
Poi,incuriosito dalla copertina acquisto anche un racconto pornografico di Tinto Brass “Elogio della donna erotica” .
Prendo il bus.
Arrivo al portone.
Entro.
Salgo le scale.
Incontro Alex.
Vicino a lui, una coppia di condomini.
Li saluto.
Poi Alex ed io entriamo a casa.
Chiudo bene la porta d’ingresso.
“Che cos’hanno quei due che non va?” chiede Alex.
“Niente di nuovo, no?” dico io.
“Quasi non si rivolgono la parola”.
“Tutte le coppie sposate prima o poi finiscono così”.
“Ma una volta era diverso”.
“Bé, tu non sei di grande aiuto”:
“Neanche tu”.
“Cosa vuoi dire?”.
“Ma sta’ zitto!”.
“Sei un idiota papà”.
In questo periodo le conversazioni tra di noi di rado durano più a lungo.
Sarà per colpa dell’età dello sviluppo…
Faccio una doccia.
Bevo un bicchiere di cognac.
Poi la grande decisione.
Debbo dedicarmi al bricolage domestico.
Mi sento felice, più felice di quanto non mi sia sentito da molti giorni e molte ore.
Non so cosa mi spinga, dopo sei mesi di buoni propositi e tergiversazioni, a riparare il buco sbrindellato sopra la porta della cucina nel punto in cui l’elettricista ha portato i fili per un nuovo allacciamento.
Comunque, va tutto per il verso sbagliato sin dal primo momento.
Lo stucco in polvere, comprato quasi due anni prima, si è indurito come un blocco di cemento e la rudimentale scaletta che ho in casa non è mai stata stabile sulle sue gambe traballanti.
Ma qualunque sia stato il motivo del mio improvviso bisogno di riempire quel maledetto buco, sprofondo in verticale dalla cima della scala, come un paracadutista in caduta libera.
Cado sul piede destro con dolore lancinante, resto a terra per un paio di minuti con un senso di nausea, asciugandomi il sudore freddo che mi si forma sulla fronte, e finalmente zoppicando riesco a raggiungere la sala da pranzo dove, con il fiato grosso, mi siedo sul divanetto.
Dopo un po’ il male si attenua e mi sento alquanto rassicurato, ma mezz’ora più tardi compare il gonfiore mentre fitte strazianti e improvvise mi tormentano il collo del piede.
Riuscirò a guidare?
So che è assurdo solo provarci.
Sono le sette di sera di mercoledì 18 aprile.
C’è solo una cosa da fare.
Arrancando e barcollando raggiungo il telefonino e chiamo Gabry.
E, nel giro di mezz’ora, mi ritrovo a sedere sconsolato nella sala d’aspetto del pronto soccorso dell’Ospedale Grassi di Ostia, in attesa dell’esito delle lastre.
Mi sento un po’ depresso.
Sta pure piovendo.
Alla fine sono visitato da un medico giovane che contempla le mie lastre con tutto l’interesse di un invitato annoiato che dà un’occhiata fuggevole alle diapositive delle vacanze del suo ospite.
“Niente di rotto”.
Mi prescrive un bendaggio e le stampelle fornite dall’ospedale.
Esprimo la mia gratitudine nei confronti del medico e, vacillando esitante, torno da Gabry che mi aspetta.
“Lei” mi grida il medico da dietro le spalle.
“Lei, Pulimanti. Due giorni niente lavoro. Riposo. Ok?”
“Non si preoccupi, grazie” dico.
“Lei, Pulimanti. Vuoi guarire, eh? Niente lavoro. Due giorni. Riposo. Ok?”
“Ok”. Oh, Signore!
Ritorno a casa.
Dopo che Gabry se ne è andato, resto a sedere con le mani congiunte davanti alla faccia, le punte delle dita che si toccano e gli occhi chiusi, come se pregassi una benevola divinità di gettare una luce sul mio sentiero oscuro.
Ma, sia pur senza volerlo, ho da tempo fatto la tara all’idea che esista un qualsivoglia agente sovrannaturale.
Sto solo pescando con pazienza nelle acque torbide della mia mente.
“Dunque?” dice Simonetta appena mi vede.
“E’ molto, molto doloroso. Per via delle terminazioni nervose o qualcosa del genere. Ma in fin dei conti è solo una contusione” rispondo io.
“Bè, anche se non te lo meriti, vado a preparare la cena”.
Mica male, tonnarelli al tartufo, accompagnati da un Chiaranda del Merlo, fermentato in rovere ed affinato in bottiglia!
Mangio con gusto.
Simonetta risponde al cellulare.
Poi si gira lentamente sui tacchi e se ne va.
E mentre sto seduto in cucina con lo sguardo fisso sulle piastrelle bianche mi sento travolgere da un sentimento di disprezzo per me stesso, di solitudine e infelicità.
Sta facendo buio quando finalmente esco di casa.
Salgo sulla mia Ford, esco dal cortile, nel quale le pozzanghere sono ormai quasi asciutte, e giro a sinistra per immettermi a Corso Duca di Genova diretto al teatro Manfredi.
Mentre supero la rotatoria vicino alla posta centrale vedo due persone accanto alla strada con il pollice alzato.
Una di loro è una ragazza, una ragazza carina, per quel che posso giudicare.
Forse anche l’altra è una ragazza.
Difficile dirlo.
Le sorpasso.
Costeggio Regina Pacis.
Parcheggio la macchina.
Ed entro al teatro.
Come dice Giorgio Albertazzi: “Il cinema è bello, ma se lui è la pelle, il teatro è lo spirito”.
Mio padre, il poeta Antonio Valeriano, usava spesso dirci: “Amo l’arte e il bello in generale.
Amo il mare e il suo profumo. Mi piace osservare le stelle. Adoro la campagna dolce di Collevecchio. Amo il cinema. Ma più di tutto amo il teatro, da quando ho memoria”.
E lui, che aveva iniziato scrivendo opere teatrali, ci confessava che il teatro lo attraeva molto, reputandolo una forma letteraria più completa rispetto al racconto e anche allo stesso romanzo.
A mezzanotte sono di nuovo a casa.
Non c’è ancora nessuno.
Vado a letto.
Non riesco a dormire.
Per tutti gli dei, l’unica soluzione è alzarsi e provare a fare qualcosa per distrarmi.
Non ho intenzione di camminare per casa a questa ora del mattino, così accendo l’abat-jour, prendo il libro di Tinto Brass dal comodino e mi appoggio con la schiena sui cuscini per leggere.
Quando la pallida luce dell’alba comincia a diffondersi su Ostia, il libro ormai mi è caduto sul petto e io sonnecchio tranquillo, immerso in un sonno privo di sogni.
Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)