Il dono (di: digitoergosum)

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digitoergosum
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Re: Il dono (di: digitoergosum)

Messaggio da digitoergosum »

Ciao a tutti. Più avanti risponderò alle persone (tutte) che mi hanno aiutato a migliorare il testo. Gaetano, Roberto, Carla, Susanna, Luca. Per intanto vi copio incollo come ho modificato il racconto, che ho già inviato al concorso. Inviato perché ho letto solo dopo l'ultimo commento di Gaetano che avrebbe potuto indurmi ad ulteriori modifiche.

Il dono di Blanca

Gatti. C'è chi crede che siano numi senza stirpe, spiriti universali dotati di poteri magici, soprattutto quando hanno il manto fulvo. Se stai per morire ti arrivano accanto, poi se ne vanno, indifferenti, a cercare nuove prede o a rovistare dentro ai cassonetti.
Il randagio aveva il pelo biondo rame e pareva tutto tranne che una divinità. Condivideva coi clochard la strada e le stagioni, nient'altro.
Ma non quella sera d'inverno, quella notte di Vigilia. Calcando la neve fresca, lasciandola di passo in passo dietro di sé, il felino trovò una scatoletta di tonno, ancora unta d’olio: si fermò alla giusta distanza, l’annusò, la leccò, levò in alto il muso e studiò la donna, guardandola risoluto, come chi firma un armistizio con il nemico. Solo dopo s’infilò dentro il cartone.
- Ciao micio. Mi spiace, è finito – e lo accarezzò.
Maria non ricordava di aver consumato quel triste tonno in scatola recuperato chissà dove: probabilmente era stata la sua cena, un’ottima cena, da regina. Pur sorpresa, lasciò entrare l’animale, facendo attenzione a proteggere dagli artigli la sua bambola col vestitino color pesca e macchie d’olio, con le trecce di lana bionda infeltrite e gli occhi di plastica che una volta erano stati azzurri, come quelli di Aurora.
Non le era mai successo, i gatti di strada non sono i compagni più socievoli, vivono ai margini dello spazio vitale dell’uomo, ma questo era particolare: se ne stava sornione a prendersi le carezze e a ricambiare baci col vezzo gattesco di leccare. Del resto, a chi non piacerebbe qualche coccola nel tepore del cartone, quando fuori nevica? Specialmente quando si tratta dello scatolone di un televisore, leggero, profumato di pulito, cellulosa e, stranamente, d’ospedale.
Non le importava molto di quell’invasione randagia, ne coglieva il buono, il tepore animale. Il suo sogno si era avverato: si trovava dove, da molto tempo, desiderava trascorrere la notte di Natale. Sdraiata su una panchina di ferro intarsiato, prossima alla riva del fiume di San Pietroburgo, si guardava intorno come farebbe un pioniere davanti al nuovo mondo. Fiocchi candidi scendevano abbondanti, eppure non faceva freddo. Anzi, di colpo lei sentì caldo, come nelle notti d'agosto sotto l’androne della stazione ferroviaria di Sestri Levante.
La clochard si alzò e sedette, facendo scivolare sul prato la coperta di pluriball. Tolse da un trolley, recuperato anni prima dentro un cassonetto, un piccolo quadro che custodiva gelosamente e lo poggiò con attenzione contro la spalliera della panchina. Poi bevve da un cartone di Tavernello l’ultimo sorso di vino, tolse il berretto blu di lana che le copriva le orecchie, sganciò la spilla da balia con cui teneva chiuso un cappotto senza più bottoni e si sdraiò nuovamente.
Sentendosi di nuovo regina, in quel breve spazio che separava lo scorrere quieto del Neva e il parco dal soffice manto brillante, Maria alzò la testa per assaporare la magnificenza del Palazzo d’Inverno. Era uno scenario molto diverso da quello dei lontani colonnati di San Pietro, dove molte volte aveva trovato ricovero e cibo portatole da prelati silenziosi e discreti. L'imponenza della Basilica romana, esaltata dalla cornice dei massicci fusti di marmo che si allineavano alla vista, era splendida.
San Pietroburgo suscitava però un altro fascino, quello della realizzazione di un sogno agognato. Tanti anni prima aveva visto, dietro la vetrina di un'agenzia di viaggio, l'immagine del Natale nell’ incantevole città russa. Se n’era da subito innamorata: un ambiente dove è inevitabile fantasticare.
Sognare di trovarsi lì con Aurora.
D'improvviso si sentì prendere per mano, una stretta lieve. Si alzò di scatto e fu sorpresa di vedere una bambina con un vestitino color pesca, come quello della sua bambola ma senza macchie d’olio. Forse era proprio Aurora, non la vedeva da almeno trent’anni. Sapeva ciò che di lei gli altri vagabondi dicevano, Maria stessa lo raccontava: in un’altra vita era stata madre di due gemelli, i suoi Bambini Gesù, come amava chiamarli.
Il randagio era lì e, grazie al suo istinto sorprendente, sapeva che stava accadendo un fatto eccezionale, unico, più importante delle coccole a cui, suo malgrado, intuiva che avrebbe dovuto rinunciare.
- Aurora, sei tu bambina mia? Cosa ci fai qui? Non è un posto per te - il giaciglio di cartone scivolò a terra.
- Perché no? Se ci stai tu posso starci anche io.
Maria era strana, gli altri dicevano che era matta, ma quelli non capivano nulla. Non era stupida, ne era certa. La vita girovaga le diceva che il bello non può essere contenuto dal “reale”. Quella non poteva essere la sua bambina, non la figlia che lei aveva abbandonato, fuggendo quando, bollata come stramba e pericolosa, era stata imbottita di psicofarmaci. E nel momento del sospetto, la stretta di mano divenne più importante.
- No. Non sono Aurora, mamma. Sono Gesù Bambina, come mi hai sempre sognato e chiamato. Avevi ragione, sai? Gesù aveva una gemella che si chiamava come lui.
Quante cose belle le stavano accadendo! Maria si trovava a San Pietroburgo, non aveva più freddo e scopriva di non essere pazza, come tutti volevano farle credere. Più di tutto, Gesù Bambina esisteva davvero e si trovava lì, in quell'istante, proprio di fronte a lei!
Qualcosa però non le tornò: nelle strade diseredate devi stare in allerta anche quando dormi, perché vengono a rubare sia il poco di tuo, sia quello che hai sottratto a un altro.
- Non puoi essere Gesù Bambina, mi hai chiamato mamma. Tu sei Aurora, anche se non assomigli molto a tuo nonno. Ricordo ancora quando andavo con lui a raccogliere funghi: portava nella tasca destra dei pantaloni una castagna matta come portafortuna e tornavamo sempre con il cestino pieno.
A questo punto Maria si chiese se fosse veramente impazzita o se non stesse sognando.
- E se fosse? Il sogno è quel momento perfetto che condividiamo con Dio. Anche lui ama sognare cose belle.
- Ma tu mi leggi nel pensiero?
- Non pensi che Gesù Bambina possa farlo?
- Si, lo può fare. È la mia Aurora che non verrebbe mai a trovarmi.
La poverina si tolse dalla stretta della bambina, prese in braccio la bambola, si parò con un’espressione altera, dignitosa e cortese, così buffa per una clochard, e le disse:
- Signorina Gesù, la ringrazio per essere venuta a trovarmi. Si può fermare qui con me se lo desidera, ma lei non può essere anche Aurora. La mia piccola non vorrebbe vedermi così. Preferisco continuare a guardare le luminarie del Palazzo d’Inverno.
- Va bene, allora. Hai sempre fatto un po’ di confusione, ma non è poi così importante. Sono Aurora, mamma - e trasse dalla tasca una castagna matta - e ora starò sempre con te, vivremo sempre assieme.
La clochard sentì arrivare il pianto:
- Se fossi Aurora, ne sono certa, non saresti qui, non potresti perdonarmi. Tu non puoi ricordare, io da qualche parte ricordo, e allora bevo vino. Forse, stasera ne ho bevuto troppo.
La bambina era incantevole nel suo vestito di pesca, sulle sue labbra un sorriso grato.
- Ricordo mamma. E so cosa ti fa star male. So che hai voluto proteggermi. Ci sei riuscita.
- Cosa ricordi, amore mio?
- La maternità ti aveva sconvolta, ti sentivi inadeguata, eri tanto, tanto stanca. Ma questo non ci riguardava: noi volevamo le carezze a tutti i costi. Avevamo un anno e ci aggrappavamo alle tue vesti fino a strapparle per giungere al seno. Finché un giorno ci scansasti con un gesto di stizza, facendoci male, molto male. Anzi, no, quest’ultimo fatto non lo ricordo, non ricordarlo nemmeno tu, mamma.
- Amore mio, Aurora, vivevo la colpa di non sentirmi madre protettiva, perché tutte devono essere protettive. Volevo difendervi ma i dottori dicevano che ero pazza e pericolosa per voi. Non mi restava che allontanarmi e allontanarvi. Con tuo fratello non ci sono riuscita: non si è salvato. Ho letto il suo nome su un giornale buttato nei giardini pubblici: c’era droga, violenza, morte tra quelle parole!
- No, mamma. Non hai trovato per caso quel giornale. Te l’ho fatto trovare io, la volta che sono venuto a trovarti di nascosto. Volevo tanto vederti, sei bellissima quando dormi. E te ne ho portato anche un altro, qualche tempo dopo, ricordi? Quello con l’articolo sulla mia prima mostra di quadri, dopo essermi laureata in belle arti. So che ti sei privata anche del mangiare per molto tempo, pur di raggranellare i soldi necessari a comprare questo quadretto.
E si voltò, riconoscente, a guardare la piccola tela che Maria aveva posato sulla panchina.
- Ho provato, sai, a entrare alla mostra. Avevo messo il cappotto bello, che ancora aveva i bottoni, ma non mi hanno fatta entrare. E poi, non avrei certo potuto farmi riconoscere: mi vergognavo.
- Lo so, mamma.
Sostituì quell’ultimo pensiero scomodo con un nuovo ricordo.
- Come sta Giuseppe, tuo padre?
- Non ha mai smesso di pensarti, ti ama come sempre mamma.
- Ma tu sei Gesù Bambina o Aurora?
La piccola la strinse più forte, la attrasse con tenerezza.
- Adesso dobbiamo andare mamma, è ora. Presto saremo assieme; tu, i tuoi due Gesù e Giuseppe.
Maria sbarrò gli occhi, dimenticò di colpo il Palazzo d’Inverno perché si era finalmente ricongiunta con Aurora, la sua bambina che, solo al suo sguardo, non era mai cresciuta. Si lasciò condurre via felice.
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Blanca, così ordinaria con i capelli raccolti a crocchia e gli occhiali, non aveva una grande considerazione di sé. Il camice, che nascondeva le forme aggraziate, non l’aiutava. Pensava spesso, troppo spesso, a quel ragazzo che l’aveva conquistata dicendole che riusciva ad accarezzarle la mente, che era speciale e rappresentava “qualcosa di più". Lei ci aveva creduto per anni e per anni si era sentita parte di lui, anche quando tiravano la cinghia perché lui aveva perso il lavoro. Pensava ad Antonello, a perché non avesse funzionato. Evidentemente, così se la raccontava, non era così speciale.
Quell'esperienza aveva minato la fiducia in sé stessa. Continuava a chiedersi cosa vi fosse in lei di meritevole, lei che non era neanche capace di tenersi stretta un uomo. Tutti dovrebbero avere un dono che comprovi il senso di un'esistenza. Non ne trovava alcuno in sé stessa: forse non valeva la pena di vivere una vita inutile come la sua. Così pensava quella sera.
- Infermiera, è tornato! – urlò il primario - Siamo in un ospedale. Come è possibile che un gatto se ne vada a spasso per le corsie? Veda di cacciarlo.
Blanca sospirò, colta da una strana morsa al cuore. Aveva studiato filosofia e poi, per rappresaglia nei confronti dei genitori, frequentato un corso per diventare infermiera professionale. Commistione di studi che, quando nei reparti di un nosocomio si viene colti da un attimo di debolezza, induce a tristi riflessioni sulla morte anzitempo. Se il micio compariva, da ultima nella scala gerarchica, le delegavano quel compito indesiderato.
Liberarsi del gatto.
Blanca non l’aveva mai visto in realtà, i dottori la mandavano a cercarlo perché – così dicevano – solo lei “risolveva il problema”. Eppure cercandolo, seguendolo, avvertiva come un richiamo che la faceva giungere puntualmente in prossimità di un morente.
Quella sera le avevano assegnato il turno della Vigilia. La clochard, una donna minuta, senza nome ed età, era in fin di vita. Lo dicevano gli strumenti che la monitoravano. Il fantomatico gatto l’aveva infine condotta da lei. Arrivò al suo letto giusto in tempo. La poverina era stata cosparsa di benzina mentre dormiva sotto al portico di una missione di accoglienza romana, bruciata viva da balordi che non sapevano come passare il tempo. Stava morendo, sedata, drogata: forse sognava qualcosa, gli occhi chiusi mostravano un’intensa attività. L’infermiera sperò che non soffrisse troppo per le gravi e diffuse ustioni. Le stette vicino, come faceva con tutti i moribondi che non avevano persone care al capezzale, tenendole la mano con caritatevole compassione. Le prese il palmo, lo tenne stretto a sé fino a quando, venuto a mancare il polso, la sfortunata senzatetto, con un ultimo sorriso, sbarrò gli occhi, la fissò e disse qualcosa di strano, prima di andarsene per sempre. Probabilmente Blanca aveva capito male, le era parso di sentire la poverina dire:
- Grazie, Gesù Bambina. Grazie Aurora.
Mestamente seguì il protocollo per i casi di decesso e poi tornò ai suoi compiti, con una tristezza grande che le attanagliava il cuore, quello stesso cuore che non riusciva a comprendere quale fosse il senso della propria esistenza.
E la vita continuava a scorrere lenta come il Tevere, come il Neva, mentre soffici fiocchi coprivano le orme di un gatto che, con passo quieto, sapendo che avrebbe trovato lei o un’altra Blanca da qualche parte, si allontanava dall’ospedale verso un nuovo cartone.
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