Esercizio numero tre

Sezione nella quale si svolgono gli esercizi previsti da questa iniziativa.
Gaetano Intile
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Esercizio numero tre

Messaggio da Gaetano Intile »

1) Composizione di un racconto in cui vi sia un'unica sequenza dialogica.
Non è così facile come credete. Lunghezza a piacere.
2) Composizione di un racconto in cui vi sia una sola sequenza riflessiva.
Anche qui non è così facile come pare. Lunghezza a piacere.
Buon lavoro
Robennskii
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Re: Esercizio numero tre

Messaggio da Robennskii »

Dialogico

-Che io sia una persona particolarmente in gamba non potrai certo negarlo.
-E se avessi qualcosa da ridire?
-Significherebbe che hai problemi seri.
-Non mi sembra, questo tuo, un gioco leale.
-Ascolta: sono stanco di filosofie, sofismi, elucubrazioni. Per una volta, voglio. Soltanto, voglio.
-D'accordo. Mi puoi dire, dunque, quale sarebbe il mio ruolo in questa discussione?
-Riflettere, mio caro specchio. Riflettere.
Ultima modifica di Robennskii il 25/03/2023, 12:46, modificato 1 volta in totale.
Robennskii
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Re: Esercizio numero tre

Messaggio da Robennskii »

Riflessivo


Più la guardavo, più mi convincevo che fosse brutta.

Lei parlava e io non ascoltavo: tutto me stesso era impegnato a negare l'evidenza. Il cuore, il respiro, i pensieri che vorticavano paurosamente. Confutavo, con la maestria di un veterano perdente, ogni emozione positiva che quella donna riusciva a suscitare in me. Perché una cosa mi stava di fronte ben chiara: di sofferenza ne avevo già avuto abbastanza.

In amor vince chi fugge... e io fuggii.
Gaetano Intile
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Re: Esercizio numero tre

Messaggio da Gaetano Intile »

Ciao, Roberto.
Mi pare che ti sia fatto vivo solo tu.
Le due sequenze sono corrette e hai abbozzato un racconto con entrambe. Non male.
Dunque ogni racconto può dividersi in sequenze. E le sequenze sono, in via generale, la narrativa, la descrittiva, la dialogica, l'argomentativa e la riflessiva.
La funzione principale delle sequenze, a mio avviso, oltre quella che è loro propria, narrare descrivere argomentare dialogare, è d'imprimere un ritmo diverso alla narrazione velocizzando o anestetizzando il racconto.
Ad esempio, prendo l'incipit de Il Castello di Kakfa.

1 • ARRIVO

Era sera tarda quando K. arrivò. Il paese era sprofondato nella neve. Il colle non si vedeva, nebbia e tenebre lo circondavano, non il più debole chiarore rivelava il grande castello. K. sostò a lungo sul ponte di legno che dalla strada maestra conduceva al paese e guardò su nel vuoto apparente. (Inizia con una breve sequenza descrittiva, quindi una sequenza rapida.)
Poi andò a cercare un alloggio per la notte; alla locanda erano ancora svegli, l'oste non aveva stanze libere ma, assai stupito e sconcertato da quel cliente tardivo, offrì di farlo dormire nella sala su un pagliericcio. K. fu d'accordo. Alcuni contadini sedevano ancora davanti alla loro birra, ma egli non volle parlare con nessuno, andò a prendersi da solo il pagliericcio in solaio e si coricò vicino alla stufa. Faceva caldo, i contadini erano silenziosi, egli li osservò ancora un poco con gli occhi stanchi, poi si addormentò. (Continua con una sequenza narrativa, quindi ancora rapida, per afferrare l'attenzione del lettore.)
Ma non passò molto che fu svegliato. Un giovane in abito cittadino con un viso da attore, occhi sottili, sopracciglia folte, stava accanto a lui insieme all'oste. (Descrittiva) I contadini erano ancora lì, alcuni avevano girato la sedia per vedere e udire meglio. Il giovane si scusò molto gentilmente di aver svegliato K., si presentò come figlio del custode del castello, poi disse: (narrativa) «Questo paese appartiene al castello, chi vi abita o pernotta in certo modo abita e pernotta nelcastello. Nessuno può farlo senza il permesso del conte. Ma lei questo permesso non ce l'ha, o almeno non l'ha esibito».K., che si era levato a sedere, si ravviò i capelli, guardò i due dal basso in alto e disse: «In che paese mi sono perso? C'è un castello qui?».
«Certo», disse lentamente il giovane, mentre qualcuno, qua e là, scuoteva la testa all'indirizzo di K., «il castello del conte Westwest».
«E ci vuole il permesso per passare qui la notte?», chiese K. come per convincersi di non aver magari sognato quello che gli era appena stato detto.
«Ci vuole il permesso», fu la risposta, e c'era molta presa in giro nei confronti di K. nel modo in cui il giovane tendendo il braccio chiese all'oste e ai clienti: «O forse non ci vuole il permesso?».
«Quand'è così dovrò procurarmelo», disse K. sbadigliando, e scostò la coperta come per alzarsi.
«Già, ma da chi?», chiese il giovane.
«Dal signor conte», disse K., «non resta altro da fare».
«Adesso, a mezzanotte, andare dal conte a chiedere il permesso?», esclamò il giovane facendo un passo indietro.
«Non si può?», chiese K. con calma. «Allora perché mi ha svegliato?».
Questa volta però il giovane perse il controllo. «Che modi da vagabondo!», esclamò. «Esigo rispetto per le autorità comitali! L'ho svegliata per comunicarle che deve lasciare immediatamente il territorio del conte».
«Finiamola con questa commedia», disse K. con voce stranamente bassa, si coricò e si tirò addosso la coperta. «Lei sta un po' esagerando, giovanotto, e domani riparleremo del suo comportamento. L'oste e quei signori sono testimoni, se di testimoni ho bisogno. Ma sappia intanto che sono l'agrimensore fatto venire dal signor conte. I miei aiutanti mi raggiungeranno domani in carrozza con gli strumenti. Io non ho voluto rinunciare a una passeggiata nella neve, ma purtroppo ho sbagliato strada più volte, e per questo sono arrivato così tardi. Che fosse troppo tardi per presentarmi al castello lo sapevo già da me senza che lei me lo insegnasse. Ecco perché mi sono accontentato di questa sistemazione per la notte, dove lei ha avuto la scortesia - per non dir peggio - di venirmi a disturbare. Con ciò considero esaurite le mie spiegazioni. Buona notte, signori». E K. si voltò verso la stufa. «Agrimensore?», chiese ancora alle sue spalle una voce esitante, poi fu completo silenzio. Ma il giovane si riprese presto e disse all'oste, in tono abbastanza smorzato da parere riguardoso del sonno di K. e abbastanza forte da essere da lui udito: «Mi informerò per telefono». (Una lunga sequenza dialogica, di velocità media e andamento uniforme serve a concentrare l'attenzione del lettore)
Come, c'era anche un telefono in quella locanda di paese? Il particolare stupì K. che però si era aspettato l'insieme. Erano organizzati proprio bene. L'apparecchio risultò installato quasi sopra la sua testa, assonnato com'era egli non l'aveva notato. Se ora il giovane doveva telefonare, con tutta la buona volontà non poteva evitare di disturbare il sonno di K., si trattava solo di vedere se K. gli avrebbe consentito di telefonare: K. decise di lasciarlo fare. Ma allora non aveva alcun senso fingere di dormire, perciò si rimise in posizione supina. Vide i contadini fare timidamente capannello e consultarsi, l'arrivo di un agrimensore non era cosa da poco. (Alla fine una sequenza riflessiva, più lenta ottima per far tirare il fiato al lettore e iniziare a considerare la situazione)
La porta della cucina si era aperta, l'ostruiva la figura possente dell'ostessa; l'oste le si avvicinò in punta dei piedi per informarla di quanto accadeva. (Descrittiva e poi di nuovo narrativa) Poi cominciò la conversazione al telefono. Il custode dormiva ma c'era un sottocustode, uno dei sottocustodi, un certo signor Fritz. Il giovane, che si presentò come Schwarzer, raccontò di come avesse trovato K., un uomo sulla trentina, conciato come un pezzente, tranquillamente addormentato su un pagliericcio, con un piccolissimo zaino per cuscino e un nodoso bastone a portata di mano. Naturalmente gli era parso sospetto, e poiché era evidente che l'oste aveva trascurato il suo dovere, si era incaricato lui, Schwarzer, di andare in fondo alla cosa. K. si era molto seccato. Svegliato, interrogato, debitamente minacciato di espulsione dalla contea, K. aveva preso male la cosa, e forse a ragione, come si era infine capito, poiché affermava di essere un agrimensore fatto venire dal signor conte. Naturalmente il dovere esigeva che si verificasse, non fosse che per la forma, la fondatezza di quell'affermazione, pertanto Schwarzer pregava il signor Fritz d'informarsi presso l'ufficio centrale se veramente era atteso un tale agrimensore e di telefonare subito la risposta.
Poi ci fu un silenzio, all'altro capo Fritz era andato a informarsi e qui si aspettava la risposta. K. rimase com'era, non si voltò neppure, non si mostrò affatto curioso, guardava dinnanzi a sé. Il racconto di Schwarzer, nella sua mescolanza di malignità e cautela, gli dava un'idea della formazione in certo modo diplomatica di cui lassù al castello disponevano anche personaggi minori come Schwarzer. E lavoravano sodo, anche; l'ufficio centrale aveva un turno di notte. E questo evidentemente rispondeva con rapidità, poiché Fritz già richiamava. Ciò che riferì fu però molto breve, visto che Schwarzer buttò subito giù il ricevitore, furibondo: «L'avevo detto io!», esclamò. «Altro che agrimensore! Un volgare impostore, un vagabondo, magari anche di peggio». Per un istante K. pensò che tutti, Schwarzer, i contadini, l'oste e l'ostessa si sarebbero precipitati su di lui. Per schivare almeno il primo assalto si rannicchiò tutto sotto le coperte. A quel punto il telefono squillò di nuovo, e particolarmente forte, così sembrò a K. Pian piano egli rimise fuori la testa. Sebbene fosse improbabile che la chiamata riguardasse ancora K., tutti si bloccarono e Schwarzer tornò all'apparecchio. Ascoltò una spiegazione piuttosto lunga, poi disse sottovoce: «Un errore, quindi? Molto seccante per me. Ha telefonato il capufficio in persona? Strano, strano. Come lo spiego adesso al signor agrimensore?».
K. tese l'orecchio. Dunque il castello lo aveva nominato agrimensore. Da una parte questo era un male per lui, perché dimostrava che al castello sapevano di lui tutto il necessario, che avevano soppesato il rapporto di forze e che accettavano la lotta sorridendo. Ma dall'altra era anche un bene perché a suo avviso provava che lo sottovalutavano e che egli avrebbe avuto più libertà di quanto gli fosse stato lecito sperare a tutta prima. E se con questo riconoscimento della sua qualifica di agrimensore - che certo li poneva moralmente al di sopra di lui - credevano di poterlo mantenere in uno stato di continuo timore, si sbagliavano; un lieve brivido lo percorse, ma fu tutto.

Insomma, le sequenze si alternano fornendo, è vero, significato alla narrazione, ma anche ritmo. Se si vuole, sono l'equivalente della punteggiatura in un ordine di grandezza superiore a quello della semplice proposizione.
Sarebbe utile costruire un incipit, quindi non un racconto, con tutte le sequenze possibili.
Che ne dite? Ci provo io per primo e posto il contenuto.
Ultima modifica di Gaetano Intile il 27/03/2023, 15:39, modificato 1 volta in totale.
Robennskii
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Re: Esercizio numero tre

Messaggio da Robennskii »

Mi sembra un'ottima idea, Namio. Soprattutto avere un'impronta da parte tua.

A proposito, letto l'incipit del Castello: bellissimo.
Gaetano Intile
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Re: Esercizio numero tre

Messaggio da Gaetano Intile »

Posto il mio incipit, l'incipit del mio Castello (Non è ancora sera), o meglio il secondo incipit, perché ho costruito il romanzo su due incipit paralleli.
Sarebbe utile che provaste ad analizzare le varie sequenze, sottolineando in che modo influenzino l'andamento del racconto, il suo ritmo se vi pare adeguato o migliorabile, se le ritenete efficaci posizionate così come io ho fatto.
È quindi un abbozzo di analisi del testo.
Identici suggerimenti posso provare a offrire per i vostri incipit.
Ci potremo poi concentrare sullo schema narrativo.
2) Kyrie Eleison
L’aria fredda del primo meriggio odorava di terra bagnata, il cielo novembrino s’apriva e chiudeva a tratti, per specchiarsi sulla superficie immobile di un mare color dell’olio.
Da ore il convoglio avanzava indolente lungo le curve boscose della costa, precipitate in mare da altri dirupi scoscesi, e quasi a ogni stazione si fermava ad attendere il transito delle coincidenze in senso inverso, oltre a servire i pochi viaggiatori.
A San Giovanni di Chiomonte, un centinaio di case variopinte abbarbicate a un’erta rocciosa, l’unico passeggero a scendere fu un uomo sulla quarantina.
Il viaggiatore attraversò i binari, le spalle alla lunga distesa di silicio chiaro su cui incessante sciabordava il mare, e si guardò intorno senza scorgere anima viva, all'infuori del capostazione e di un uomo seduto sopra una panchina, sotto una grande palma mezza divorata dal punteruolo rosso.
Si avviò verso l’uscita con un piccolo trolley a passeggio, con un sobbalzar e strisciar a ogni passo sull’asfalto ormai disfatto della banchina, e un borsone a tracolla: ebbe l'impressione d’esser capitato in uno di quei luoghi deserti che si incontrano, a volte, nelle pellicole americane quando, con la solitudine del paesaggio, il regista suggerisce quella personale, intima, del protagonista.
Prima di varcare il cancello macchiato da oleosi ovali di ruggine, sì numerosi da formare un’immaginaria pittura a pois, l’uomo sotto la palma sfilò di malavoglia la sigaretta sospesa tra le labbra e si alzò. «Proprio a lei stavo aspettando» disse al viaggiatore.
La voce si elevò sicura, quanto la figura massiccia interposta di proposito, tra il viaggiatore e l'uscita, a rappresentare un confine, invalicabile.
S’aggiustò il cavallo dei pantaloni con l'aiuto della sinistra, e le labbra si distesero in un sorriso che pareva di benvenuto.
L'uomo, sulla cinquantina e di statura media, aveva un viso largo e squadrato, ampie narici in un naso porcino, la fronte bassa e quasi nascosta dai folti capelli crespi. Indossava pantaloni blu scuro e, sopra la camicia bianca, un maglione almeno d'una taglia in meno, d'un celeste sbiadito, col logo d’una azienda in evidenza sul davanti, così stretto da stimolare l’immagine d’una camicia di forza.
«Veramente io non la conosco» replicò il viaggiatore, stupito invece che stizzito.
Ne approfittò, con la mano libera, per sistemarsi alla bell’e meglio la sgualcita camicia di flanella a righe dentro ai frusti pantaloni di velluto a coste.
«Se è per questo, non c'è bisogno di conoscersi» spiegò l’uomo con il maglione azzurro, mentre il treno sferragliando riprendeva pigra la corsa verso occidente.
«Quindi io non devo dirle nulla?» Domandò.
Abbandonata la maniglia del trolley iniziò a raspare il largo mento nascosto dalla folta barba grigia, con il pollice e l'indice insieme, come se fosse sopra pensiero.
«Lei mi ha già detto tutto» fece l'autista.
Confortato dalla sua sicurezza militare uscì una chiave dalla tasca dei pantaloni e indicò il grande bus fermo nel piazzale.
«Quello è l’unico mezzo per salire al paese» provò a chiarire al viaggiatore, «e visto che lei è l'unica persona scesa dal treno, io e questo bus» e lo indicò, per poi con la mano seguire i tornanti in lontananza, dipingendo spirali nell’aria ferma della sera, e fermarsi là dove si trovava l'abitato di San Giovanni «proprio a lei stavamo aspettando. A meno che non abbia intenzione di proseguire a piedi, o di aspettare il prossimo treno.»
E provò a incrociare gli occhi del viaggiatore, per cercarvi dentro la risposta che aveva detto di non aspettare.
Il viaggiatore scosse la testa, arricciò le labbra e infine si decise a replicare: «O forse potrei aspettare qualcuno, non crede?»
L'uomo rimase spiazzato dalla possibilità imprevista d'aver preso un granchio, ritrasse la mano che aveva lasciato pencolare a mezz'aria con la sigaretta a fumare tra le dita, balbettò delle scuse e si mosse, con l’intenzione di far dietrofront e tornare alla sua panchina.
«Ma, dopotutto, nessuno verrà a prendermi» si corresse il viaggiatore. «Però non devo andare a San Giovanni, ma a Montefosco» e, con un gesto veloce, si sistemò la pesante montatura colorata scivolata sul dritto del naso fino a fermarsi sulla sua punta aguzza.
Cosicché, quando gli occhiali si trovarono al loro posto, le lenti ne allargarono a dismisura gli occhi castani e sporgenti da miope.
«È il mezzo giusto» si limitò ad aggiungere l'autista, solo per breve tratto immusonito.
E sfoderò un gran sorriso, soddisfatto per in fondo aver avuto ragione.
Senza aggiungere altro s’incamminò verso il pullman, fermo a occupare gran parte del piazzale — stretto tra la montagna e la stazione —, che il debole sole di novembre, quasi a metà della sua breve corsa sulla celeste ellisse dell'eclittica, faticava a rendere lustro per intero.
Il viaggiatore si avviò insieme a lui, seppur un passo indietro.
Aveva il portamento leggermente curvo e le spalle flesse, tuttavia avrebbe sbagliato chi avesse accostato tale pesantezza a un temperamento malinconico.
Basta a volte la sola consapevolezza a piegare una schiena dritta.
«Le valigie dove le metto?» Chiese il viaggiatore, quando fu a un metro dal mezzo, azzurro come il maglione del suo autista, e con una linea bianca ad attraversarlo da capo a coda.
«Le salga con lei» concesse con leggerezza, quasi fosse una Grazia.
Il bus aveva un aspetto antiquato e sembrava anche malmesso, sebbene sul lunotto campeggiasse solenne l'eroica proposta al pubblico acquirente: dalla Sicilia alla Germania in sole 24 ore.
L’autista montò su per primo e, per un attimo, lo sguardo si posò sulla calvizie incipiente dell'altro, ad allargargli la fronte, solcata da tre profonde rughe parallele.
«Non devo andare in Germania» scherzò il viaggiatore, e si sistemò insieme al bagaglio nella prima fila disponibile.
L'autista sorrise. «Allora la lascio nella piazza di Montefosco, così posso tornarmene a casa» fece, ricambiando lo scherzo con una battuta.
Prese posto al volante e chiuse la porta a soffietto, armeggiò con una macchinetta, che pareva uscita da un documentario Luce: ci picchiettò sopra, le dita a pigiare antiquati tasti metallici, di scoloriti gialli e aranci: staccò il biglietto, d'una carta inconsistente simile alla velina, e gli porse il foglietto in cambio d’un paio di monete.
Il viaggiatore ringraziò e, per abitudine, cercò un riscontro del prezzo sul biglietto, girato da parte a parte senza invero notare nulla, sia nel dritto che sul rovescio, a parte un imbarazzante candore uniforme.
Ebbe appena il tempo di sistemarsi, e il bus prese ad affannarsi per un'acchianata stretta e ripida alla fine della quale la strada si slargava in un viadotto rettilineo che attraversava le lattiginose acque d'una grande fiumara: San Giovanni, indicava al suo inizio un cartello mezzo a sghimbescio. Dopo un breve tratto sul piano il pesante automezzo riprese a inerpicarsi, poco più che a passo d'uomo, e a virare a destra e a manca sulla provinciale tutta curve, aggrappata alla montagna quanto la fitta vegetazione.
«Le piace ascoltare canti religiosi?» Si permise il viaggiatore, dopo qualche chilometro d'arrampico solitario, mentre, in sottofondo, un coro di voci bianche intonava un Signore pietà, Cristo pietà.
«È l’unica stazione radio che si piglia da queste parti» gli venne subito da rispondere, e lo fece come se fossero delle scuse.
L'uomo attaccò l’ennesimo tornante ruotando la corona del volante, sovrappose respiri affannosi a un incrociare vorticoso di braccia, in un senso e poi, ormai sul rettilineo, nell’altro, fino a quando le ruote non si raddrizzarono del tutto.
«Teleradiosanmichele» aggiunse, quando le razze del volante ritornarono parallele al cruscotto.
Con una vocettina resa sottile dallo sforzo continuò: «L’ha fondata il nostro amato don Lorenzo, l'arciprete Diologuarda, da che saranno... una cinquina d’anni; coi tempi ca passanu! Eh... si ci deve accontentare, e non solo per la pace dell’anima.»
Non riuscì, oppure non volle, trattenere un sarcasmo amaro, in ogni caso troppo spontaneo per essere bugiardo.
Dopo un paio di curve la curiosità lo ridestò: «Lei è forestiero?»
Sembrava una domanda, ma non lo era.
Il viaggiatore mormorò qualcosa, che si perse nello scoppiettare del clacson.
«Ma l’aria del turista non ce l’ha» e abbassò il volume della radio, per riuscire ad ascoltare la risposta.
«No, infatti.»
«E d'altra parte, di turisti non ne vengono assai qua, a Montefosco; anzi, quasi per niente. In novembre poi… Allora saranno affari» provò.
«A Montefosco di persone ne arrivano parecchie? Per affari voglio dire.»
Nello spostare l'accento sulla sillaba tonica di ogni parola non riuscì a nascondere l’inflessione piemontese.
L’autista si voltò e sbuffò, infastidito per l'aria di sufficienza con cui l'altro aveva formulato la domanda.
«Non creda… Ma vengono, vengono sa? Però nessuno che non conosca già. Anche se, a volte...» e s’interruppe, come se, all’improvviso, fosse stato folgorato da un pensiero che all'improvviso sbriddiò l'oscurità.
«No, sono sicuro, a lei mai l’ho vista» si persuase, e tirò fuori il telefonino dal portaoggetti sopra la radio, per iniziare a giocherellarci.
«Vengo per un morto» si decise a spiegare il viaggiatore, e cercò di cogliere l’espressione dell’altro dallo specchietto retrovisore, mentre il bus procedeva, tra un voltare e l’altro, in mezzo a un fitto castagneto dalle fronde coperte da ricci già aperti, tanto numerosi da sembrare uno di quegli stormi infiniti che riposano sui rami prima di riprender il passo.
Montefosco si svelò all'improvviso. Un nido d’aquile, grigio e compatto, adagiato a cavallo d'una sella rocciosa inclinata a settentrione a contemplare la sterminata lastra d'argento vivo del mare, e circondato da ogni dove da un’immensa e arcigna solitudine.
Da lontano pareva che la modernità l'avesse solo sfiorato; al centro dell’abitato, fitto di tetti rossi, si ergeva il castello, salvatosi da interventi molesti, inserito in un contesto coerente dove le costruzioni, persino le più recenti, ritrovavano, nell'apparente disorganicità della pietra grigio bruna delle facciate, o nel carminio variegato dei coppi di coccio dei tetti, una vetusta e uniforme grazia, sublimata verso il cielo dall'amaranto delle guglie arrotondate d'una decina d'antichi campanili.
A guardare Montefosco da quella distanza s’aveva l’idea d'una compiuta armonia e che vi si potesse vivere in una serenità tale da non essere turbata mai, da nessun accidente.

Vi risparmio la continuazione. Il ritmo è volutamente lento, perché?
Giovanni p
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Re: Esercizio numero tre

Messaggio da Giovanni p »

esercizio dialogico


Gerad guardò fuori dalla finestra, faceva un caldo insopportabile e la terra espelleva l’umidità creando nuvole di afa che si incollavano su ogni superficie in vetro della sua magione. La sua fronte si aggrottò, non sarebbe uscito di casa nemmeno quel giorno. Era chiuso in casa ormai da una settimana, per fortuna l’ambiente era enorme, finemente decorato e soprattutto ben sorvegliato dall’esterno. Incollato alla sua poltrona in pelle guardava la brocca di tè verde che sudava gocce simili a rugiada, aveva sete ma la fatica era molta. Per fortuna in suo soccorso venne Ninive, la splendida ragazza che lo assisteva la quale oltre a versargli il tè in un bicchiere coprì la distanza di bene quattro metri per porgerglielo.
Gerard sorrise tenendo le labbra serrate, lei lo illuminò col suo sorriso candido. Prima di andarsene Ninive comunicò a Gerad che il signor Finnik chiedeva di parlare con lui. Gerrad acconsentì sapendo che Finnik era già dentro la sua magione e che non se ne sarebbe mai andato senza prima aver chiesto il suo dotto parere sui recenti fatti quotidiani. Ninive se ne andò facendo sfoggio della sua bellissima schiena nuda, Gerard non perse nessuno dei suoi movimenti, mentre sorseggiava il tè sorrise di se stesso e di come alcune cose non finiscano mai di riempirgli gli occhi.
Dopo aver finito il bicchiere di tè si prese una manciata di secondi per godersi la tranquillità che regnava sapendo che da lì a poco sarebbe finita.

-Gerad! Gerad!

Finnik stava trottando nel corridoio col suo passo esagitato, Gerad non lo vedeva ma lo sapeva.

-Finnik sono nel mio studio…

La porta di spalancò come se fosse stata colpita da un ariete, nella stanza entrò un omino alto un metro e sessanta, pallido, emaciato e tremebondo.

-Finnik la prengo di non agitarsi, fa già un caldo infernale…

-Un caldo infernale- urlò l’omino sputando piccoli puntini di saliva- Lei pensa al caldo?

-Vede Finnik…

-Qua rischiamo tutti l’osso del collo Gerad, lei compreso!

Incollato sulla sua poltrone Gerad sospirò mentre Finnik si asciugava sudore e saliva.

-Qua c’è poco da stare tranquilli Gerad, stanotte ne hanno ammazzati tre! Una cazzo di famiglia! Queste bestie non hanno riguardi neppure per i bambini!

-Finnik sapevamo benissimo…

-No, Gerad, no! – lo interruppe Finnik cercando di dominare il tremore – Noi non sapevamo nulla, noi siamo qua per estrarre manganese e coltivare campi. Questi da quando hanno avuto il bell’esempio di quei pecorai a nord hanno deciso di ammazzarci a tutti come bestie!

-Finnik noi…

-Noi niente! Noi niente Gerad! – urlò smanacciando Finnik – Noi Gerad rischiamo di morirci come cani qua!
-Finnik mi lasci spiegare….

-Questi sono tanti Gerad, sono tanti e sono incazzati! Come faremo?

-Senti Finnik, se mi lasci spiegare bene…altrimenti levati pure dalle scatole io non ho tempo da perdere.

Finnik si blocco smettendo persino di tremare, poi disse smanacciando:
-Sono curioso!

-Sapevamo benissimo, e lo sapevamo prima di arrivare, che qua saremmo stati una minoranza contro moltissimi indigeni. Avevamo dalla nostra i soldi e per fortuna ce li abbiamo ancora. Sapevamo anche che nel nord del continente sarebbe saltata in aria la situazione e che ci sarebbero state delle rivolte, come sapevamo che i rivoltosi del nord pregano lo stesso dio di quelli che abbiamo sotto la nostra influenza, quindi era plausibile che i più giovani di questi avrebbero preso spunto da loro per rivoltarsi contro di noi. D’altronde la religione è anche un mezzo di aggregazione.

-Bene Gerad, qual è la soluzione. Domandò Finnik avvicinandosi a Gerad

-La soluzione è la creatività – rispose Gerad con aria bonaria – come sempre. Noi siamo dei creativi Gerad non scordartelo mai.

-Io…Io sono troppo preoccupato per capire simili fantasie.

-Ma non sono fantasie Finnik, questa è realtà e sono alcuni mesi che è in gestazione e io, modestamente, ne detengo la paternità.

-Spiegati Gerad!

-Etnogenesi.

-Etno che?

-Etnogenesi, ovvero creazione di un etnia.

-Eh?!

-Noi sappiamo o almeno abbiamo capito una cosa, questi numerosissimi indigeni arrabbiati e sanguinari non sono uniti fra di loro. Su questo pezzo di terra che occupiamo esistono ben due gruppi, non chiedermi i nomi perché non li so pronunciare. Ad ogni modo ho deciso di puntare sul gruppo che è in minoranza. Da alcuni mesi ho inviato dei missionari allo scopo di convertirli e istruirli ai nostri valori. Le nostre istituzioni faranno il resto dando loro i mezzi per poter sovrastare l’altra etnia. Noi creeremo un etnia che combatterà l’altra credendosi superiore, perché in questo pacchetto c’è anche l’obbiettivo di dare una storia a questa gente, di nobilitarli.
-Nobilitare queste bestie?

-Gli uomini hanno nobilitato bestie per tutto il corso della storia, bestie come cavalli, cani o gatti. Riusciremo a nobilitare pure loro, diremo loro ad esempio che discendono dall’eroe di turno e non glielo diremo e basta, ma gli faremo credere che sia così. Perché loro sono un popolo evoluto, un popolo che merita di governare al nostro fianco su chiunque.

-Quindi – disse Finnik ridendo- faremo credere a questi deficienti trogloditi che noi siamo qua per loro…

-Non proprio Finnik, noi saremo i loro padri, noi li creeremo. Nessuno figlio disubbidisce al padre, neanche se lo sfrutta. Nessun figlio si ribella al padre, neanche se lo picchia. Loro in qualità di nostri figli uccideranno tutti i restanti indigeni e lo faranno credendo di fare la cosa giusta.
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Re: Esercizio numero tre

Messaggio da Giovanni p »

Buona sera, Gaetano.

Scusa il ritardo, dovrei riuscire con la sequenza riflessiva al più presto.
Gaetano Intile
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Re: Esercizio numero tre

Messaggio da Gaetano Intile »

Ciao, Giovanni.
Non siamo a scuola, non ti preoccupare.
Solo, l'esercizio in questione, volevo fosse redatto SOLO con sequenze dialogiche. Prova a modificare questo testo eliminando la voce narrante. Scoprirai che non è così facile, perché dovrai far evincere il narrato dal dialogo. In pratica riscrivendo i dialoghi stessi il più delle volte o addirittura stravolgendo quel che si pensava fosse la storia.
Parlo per esperienza personale.
Robennskii
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Iscritto il: 15/12/2022, 21:05

Re: Esercizio numero tre

Messaggio da Robennskii »

...ogni racconto può dividersi in sequenze. E le sequenze sono, in via generale, la narrativa, la descrittiva, la dialogica, l'argomentativa e la riflessiva

Kyrie Eleison

- inizio con alternanza descrittiva e narrativa (paesaggio + azione) fino alla prima frase in discorso diretto
CAMBIO DI SEQUENZA
- inizio parte centrale, misto dialogico, descrittivo, argomentativo (scambio frasi/descrizione due interlocutori nel contesto/possibilità del "granchio")
-chicca/gioiello dell'incipit, una delle pochissime incursioni, riflessive, della voce narrante: "Basta a volte la consapevolezza a piegare una schiena dritta". Questo è un vero e proprio stop che costringe il lettore a fermarsi. Come del resto "sembrava una domanda ma non lo era"
-il testo prosegue con ancora una sapiente, mi sembra, alternanza di dialogico e narrativo
-lumga sequenza descrittiva finale a rallentare: lo scopo è, per me, fornire elementi utili per il prevedibile, prossimo cambio di scena.

In generale, ho intercettato almeno due periodi che potrebbero essere estrapolati senza che il racconto ne risenta se non, appunto, per il ritmo:
-cosicche, quando gli occhiali...
-l'autista monto su per primo...

Io ci ho provato.
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