Dialogo

Discutiamo qui dell'Analisi del discorso di un racconto.
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Gaetano Intile
Macchina da scrivere
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Iscritto il: 16/12/2022, 16:29

Dialogo

Messaggio da Gaetano Intile »

Cos’è un dialogo, se non una discussione tra due o più persone?
E dunque, cosa esiste di più facile da riportare se non un dialogo?
Ma, come sempre, non tutto è facile come sembra e la verità va svelata, spesso non si trova dove si può pensare che sia.
Scrivere dialoghi in un testo narrativo richiede di attenersi alla realtà, è vero, ma non fino in fondo.
In altre parole, i dialoghi devono essere verosimili ma non veri.
Ciò che i personaggi dicono non deve risultare né forzato o surreale né, allo stesso tempo, superfluo o noioso da leggere.
Ciò si sposa coi principi fondanti della narrativa moderna, che suggerisce di considerare il realismo come mezzo, non come fine.
A differenza della narrativa verista di fine Ottocento e inizio Novecento l’obiettivo della narrativa moderna non sembra quello ricreare e illustrare le condizioni di vita delle classi subalterne a fini didascalici, ma piuttosto quello di coinvolgere ed emozionare i lettori, forse senza altra ragione se non quella di vendere più copie possibili.
Nondimeno, i dialoghi devono funzionare e per prima cosa bisogna sincerarsi che i personaggi parlino col registro adatto. Capita spesso, nei testi di autori emergenti (e anche affermati…), di leggere frasi che non potrebbero mai uscire dalla bocca di chi le ha proferite. Il registro è fondamentale, poiché caratterizza il personaggio e deve essere coerente con l’immagine che viene data ad esso.
Facciamo un esempio. Giovanni è un manovale con la quinta elementare e un rilevante difetto di pronuncia. Sa a malapena leggere e scrivere.
Un giorno, Giovanni esce di casa e va in pescheria.
«Umile pescivendolo, mi favorisca un bouquet di pesci da brodo s’il vous plait. Vorrei acquistarlo senza tema» dice.
«Ecco a lei».
«La ringrazio, messere e a ben rivederci. Gentili e distinti saluti alla signora» risponde il pescivendolo.
Giovanni è un manovale che ha frequentato meno della scuola dell’obbligo e vive ai nostri giorni. Come potrebbe mai esprimersi come un linguaggio tanto antiquato e affettato? Ci troviamo di fronte a un classico caso di dialogo fuori registro. Al contrario, Giovanni si sarebbe dovuto esprimere rozzamente e con qualche difetto di pronuncia, a causa del suo difetto.
E qui passiamo al secondo punto. È necessario che i personaggi adottino il registro adeguato, ma senza esagerare.
Un giorno, Giovanni esce di casa e va dal pescivendolo. «Fignore, dammi un ghilo di farde».
«Prego?»
«Farde» strilla Giovanni, spruzzando il banco di saliva. «Un ghilo di sarde, capiffi?»
Pensate a un intero racconto, per non dire un romanzo, con Giovanni come protagonista, magari narrato in una prima persona che si esprime in questo modo. Sarebbe davvero impossibile da leggere. Per venire incontro ai lettori, è necessario trovare un compromesso.
E ancora… Se il protagonista del nostro romanzo fosse un mafioso dell’entroterra siciliano, versosimilmente i dialoghi si tra lui e i suoi interlocutori si svolgerebbero in siciliano. Chi potrebbe mai leggerli, eccetto quelli che conoscono l’idioma isolano?
Per fortuna, per adottare il giusto registro e caratterizzare il personaggio, sarà sufficiente tratteggiare i dialoghi con degli acquerelli scelti. Una frase in siciliano qui, una là, facilmente traducibili o ben conosciute magari.
Lo stesso si può dire di tutte quelle peculiarità del linguaggio (quirk) utili a distinguere un personaggio. Mi riferisco a determinate formule o interiezioni, a problemi di dizione, alla zeppola, alla erre moscia, alla balbuzie e così via.
Va da sé che, per scrivere un dialogo col tono e il registro adatto, si deve conoscere in modo preciso sia il contesto che il personaggio.

— Come scrivere un dialogo vincente, il conflitto
Scrivere un dialogo verosimile non è sufficiente a renderlo efficace se non trasmette nulla al lettore o se lo annoia.
Nella vita reale noi parliamo del tempo, o della salute o del nulla, e la maggior parte delle volte e magari ci divertiamo pure.
In un testo narrativo invece ciò che non è necessario, ciò che non contribuisce all’architettura di una storia, va tagliato.
Ciascuna battuta deve avere un fine. In caso contrario appesantirà la narrazione. Deciso il fine, sarà facile rendere coinvolgente lo scambio in esame e il dialogo sarà un vantaggio e non un male necessario.
Ci sono testi narrativi che si reggono solo sui dialoghi. Un buon dialogo può tenere incollato il lettore e spingerlo ad andare avanti con entusiasmo, un cattivo dialogo può far chiudere le pagine per sempre.
Un consiglio per scrivere dialoghi coinvolgenti si trova nel manuale Come scrivere un romanzo dannatamente buono di James N. Frey, ossia la teoria del conflitto.
Un dialogo privo di conflitto è meno stimolante del suo opposto, a parità di funzione narrativa. Ecco perché Frey suggerisce di considerare i dialoghi come veri e propri scontri tra i personaggi, impliciti o espliciti che siano.
Del resto, la narrativa in generale si basa sul conflitto e sulla drammatizzazione.
James Scott Bell, nell’ottimo How to Write Dazzling Dialogue: The Fastest Way to Improve Any Manuscript (e influenzato da Writing Fiction that Sells di Jack Bickham), suggerisce un trucco per introdurre il conflitto nei dialoghi. Ossia lo schema Genitore, Adulto, Bambino), tre ruoli diversi in cui far operare i personaggi.
Il Genitore detiene l’autorità e può imporla con la forza. Ha sempre l’ultima parola. L’Adulto è la persona razionale, equilibrata e obiettiva. Il Bambino è emotivo, irrazionale, egoista, innocente eccetera. Se i personaggi si relazionano secondo tali ruoli, il conflitto sarà automatico. È il caso, per fare un esempio, del tipico trittico “poliziotto buono”, “poliziotto cattivo” e criminale che si legge nei gialli e nei thriller. Il poliziotto buono è l’Adulto; quello cattivo è il Genitore; il criminale è il Bambino.
I personaggi possono cambiare ruolo a piacimento in una discussione, per cercare di ottenere ciò che vogliono. L’unico problema sorge quando sono due gli Adulti a confrontarsi; meglio evitarlo e, se ciò fosse impossibile, generare della tensione in qualche altro modo.
Chiaro che , per il massimo risultato, si debba agire a monte e a priori, cioè durante la creazione dei personaggi stessi. Ognuno di essi deve essere sufficientemente diverso dall’altro, o come faranno a distinguersi e aggredirsi? Anzi, vogliamo che ciascun personaggio risulti irritante per almeno altri due.

— Il Movente e la Voce del Personaggio
Ciascun dialogo deve essere ben preparato, deve presentare solo informazioni necessarie; deve caratterizzare i personaggi, deve introdurre il conflitto, deve far avanzare la trama e così via. Ma ciascun personaggio, deve anche possedere un movente, uno scopo. Infatti il protagonista di una storia ha di solito un desiderio ben preciso e un disagio per la situazione attuale (lo statu quo). Per scrivere dialoghi significativi bisogna pensare agli stessi come se fossero un’estensione dell’azione. Si agisce per ottenere qualcosa, per soddisfare i propri obiettivi e così via.
L’errore più comune quando si scrivono dialoghi infatti, è che personaggi diversi si esprimano in modo simile. Se si desidera che tutti i personaggi abbiano una loro voce e non suonino uguali al lettore ci si dovrebbe preoccupare di due aspetti: la caratterizzazione psicologica e il modus dicendi.

— Infodump: la rovina di ogni Dialogo
Dialoghi verosimili e non veri dunque. Tuttavia, c’è un modo per distruggere la verosimiglianza in poche, semplici, battute anche rispettando gli avvertimenti riportati precedentemente.
Tale errore è l’infodumping, anche detto forced exposition, ossia la ridondante proposta di informazioni al lettore.

Da Dune, di Frank Herbert:
Un sogghigno echeggiò accanto al globo. Una voce di basso seguì come il rombo di un tuono: – Eccola, Piter… la più grande trappola per uomini di tutta la storia. E il Duca si getta a capofitto tra le sue fauci! Io, il Barone Vladimir Harkonnen, l’ho preparata: non è magnifica?
– Senza alcun dubbio, Barone – disse l’uomo. La sua voce era quella di un tenore di grazia.
(…)
La mano grassoccia si agitò, indicando i particolari della superficie. – Ti invito a osservare, Piter – tuonò la voce di basso, – a osservare da vicino e anche tu, Feyd-Rautha, mio caro: le deliziose increspature che si trovano qui, fra i sessanta gradi nord e i settanta gradi sud. Questi colori, simili a dolce caramello. Vedete? In nessun punto si scorgono i segni blu dei laghi, dei mari o dei fiumi. E le adorabili calotte polari, così piccole! Chi non riconoscerebbe questo mondo? Arrakis! Veramente unico. Uno scenario superbo per una vittoria unica nel suo genere!
Un sorriso increspò le labbra di Piter. – E pensare, Barone, che l’imperatore Padiscià è convinto di avere offerto al Duca il vostro pianeta della spezia. Che beffa piccante!
– Parole sciocche – tuonò il Barone. – Le dici per confondere il giovane Feyd-Rautha, ma non è necessario confondere mio nipote.
Il dialogo è un gigantesco affresco di infodumping, l’irragionevole abitudine di somministrare deliberatamente informazioni al lettore.
Farlo attraverso la narrazione è già sbagliato, sebbene ancora largamente accettato. Mi riferisco a quei paragrafi descrittivi che scendono dalle stelle e ci dicono dove si trova il protagonista, quanti anni ha o altro. Indipendentemente dal punto di vista impiegato, ciò ammazza il senso di immedesimazione e simultaneità.
Sempre da Dune:
C’erano tante cose da imparare. Arrakis era un posto così diverso da Caladan che la mente di Paul si smarriva al solo pensiero.
Arrakis… Dune… Il Pianeta del Deserto.
Thufir Hawat, Maestro degli Assassini di suo padre, glielo aveva spiegato: i loro mortali nemici, gli Harkonnen, erano rimasti su Arrakis per ottant’anni, governando il pianeta in quasifeudo sotto un contratto CHOAM per l’estrazione della spezia geriatrica, il melange. Ora gli Harkonnen se ne andavano per essere sostituiti dalla Casa degli Atreides in pienofeudo: quel che pareva chiaramente una vittoria del Duca Leto. Tuttavia, aveva detto Hawat, quest’apparenza poteva nascondere pericoli mortali, poiché il Duca Leto era troppo popolare fra le Grandi Case del Landsraad.


Farlo attraverso i dialoghi è ancora peggio. Nessuno pensa sia ammissibile e questo dice molto. Il motivo è ovvio: mettere in bocca ai personaggi parole che non direbbero mai significa uccidere i personaggi stessi. Il lettore si accorge che i personaggi a cui si stava affezionando sono, in realtà, finti, dei pupi nelle mani dell’autore.
Il che è vero, certo, com’è vero che nulla di una storia è reale e sta accadendo in quel momento (o è accaduto). Quando si legge, però, si crea un’illusione, quel patto narrativo tra autore e lettore che produce la sospensione dell’incredulità.

«Non gli si può dar torto» disse Silente con dolcezza. «Per undici anni abbiamo avuto ben poco da festeggiare».
«Lo so, lo so» disse la professoressa McGranitt in tono irritato. «Ma non è una buona ragione per perdere la testa. Stanno commettendo una vera imprudenza, a girare per la strada in pieno giorno senza neanche vestirsi da Babbano e scambiandosi indiscrezioni».
A quel punto, lanciò a Silente un’occhiata obliqua e penetrante, sperando che lui dicesse qualcosa; ma così non fu. Allora continuò: «Sarebbe un bel guaio se, proprio il giorno in cui sembra che Lei-Sa-Chi sia finalmente scomparso, i Babbani dovessero venire a sapere di noi. Ma siamo proprio sicuri che se n’è andato, Silente?»
«Sembra proprio di sì» rispose questi. «Dobbiamo essere molto grati. Le andrebbe un ghiacciolo al limone?»
«Un che?»
«Un ghiacciolo al limone. E un dolce che fanno i Babbani: io ne vado matto».
«No grazie» rispose freddamente la professoressa McGranitt, come a voler dire che non era il momento dei ghiaccioli. «Come dicevo, anche se Lei-Sa-Chi se ne è andato veramente… »
«Mia cara professoressa, una persona di buonsenso come lei potrebbe decidersi a chiamarlo anche per nome!! Tutte queste allusioni a ‘Lei-Sa-Chi’ sono una vera stupidaggine… Sono undici anni che cerco di convincere la gente a chiamarlo col suo vero nome: Voldemort». La professoressa McGranitt trasalì, ma Silente, che stava scartando un ghiacciolo al limone, sembrò non farvi caso. «Crea tanta di quella confusione continuare a dire ‘Lei-Sa-Chi’. Non ho mai capito per quale ragione bisognasse avere tanta paura di pronunciare il nome di Voldemort».
«Io lo so bene» disse la professoressa McGranitt, in tono a metà fra l’esasperato e l’ammirato. «Ma per lei è diverso. Lo sanno tutti che lei è il so-lo di cui Lei-Sa… oh, d’accordo: Voldemort… aveva paura».
«Lei mi lusinga» disse Silente con calma. «Voldemort aveva poteri che io non avrò mai».
«Soltanto perché lei è troppo… troppo nobile per usarli».


La Rowling è un artista dell’infodumping. Come si può leggere, i due professori parlano di cose che sanno perfettamente per introdurre le informazioni al lettore, compresa la “nobiltà” di Silente e il vero nome di Voldemort. Come se non bastasse, i due si danno del “lei” quando si conoscono da un pezzo. Individuare l’errore è molto facile. Un dialogo è innaturale e affetto da infodumping quando le informazioni sono a beneficio del lettore e non dei personaggi, nonché quando gli stessi dicono cose che già sanno. Evitarlo, purtroppo, non è altrettanto semplice.
I dialoghi sono fondamentali per trasmettere informazioni al lettore. Come assolvere questa funzione senza incorrere nell’infodumping, dunque? È presto detto, se i personaggi parlano in certi termini, deve esserci un motivo. Le informazioni in esame potrebbero essere utili e nuove per i personaggi. Oppure, questi ultimi potrebbero non essere disposti a ricordarle o a parlarne, il che genererebbe tensione. E, in linea di massima, è più facile camuffare le informazioni per il lettore in un dialogo conflittuale.

Lui si acciglia. Riprende il secchio e va a svuotarlo. «Lo so che ognuno reagisce a modo suo, ma… è da un po’ che il tuo vecchio è finito. Devi andare avanti».
«Morto».
«Come?».
«È morto, Leo, non “finito”. Non era una lattina di birra. E poi, se non lo piansi allora non lo piangerò adesso».

L’imbeccata al lettore c’è, ma ha senso anche per i personaggi. Leo è preoccupato per il suo amico che, a sua volta, liquida la questione (e il modo piccato in cui risponde fa intendere che, sotto sotto, prova qualcosa).

— Chi è che Parla? Beat e Dialogue Tag
I dialoghi si fanno, per definizione, in compagnia, perciò saranno due o più personaggi a parlare tra loro. Insorge un nuovo problema: come far capire al lettore quale sia il personaggio che sta parlando? Avrete letto spesso, anzi spessissimo, i vari “disse Giacomo”, “affermò Lorenzo” o “Girolamo disse:”. Ebbene, si tratta dei dialogue tag, la cui funzione è proprio quella di indicare chi stia aprendo bocca. In un dialogo tra due persone lo scambio non può che occorrere tra di esse, per cui non ci sarà bisogno di identificarle a ogni battuta. Per esempio, se è Marco ad aprire bocca, sarà Antonio a rispondere, e poi di nuovo Marco, e Antonio, e Marco… Tuttavia, anche in un dialogo a due può capitare di perdere il filo. Potremmo distrarci un attimo, o confonderci per una frase più lunga del normale. Per tale motivo conviene ricordare, di tanto in tanto, l’ordine delle battute. Più il dialogo si protrae, maggiore è la necessità di punti di riferimento. I dialogue tag si trovano un po’ ovunque, dai romanzi recenti a quelli classici. D’altro canto, oggi esistono alternative di gran lunga più efficaci. Pensateci: è utile specificare, ma la funzione narrativa dei tag è inesistente.
Se Marco sta parlando, sappiamo già che “dice”, “afferma”, “risponde” e così via. È tautologico e non aggiunge né sottrae nulla alla narrazione. Il lettore è abituato a non badarci. Per non parlare di quegli autori che, timorosi delle ripetizioni, si divertono coi sinonimi: “sentenzia”, “declama”, “interroga” ecc. Si potrebbe benissimo evitare.

Una tecnica più efficiente ed elegante è quella di definire qualcosa a proposito degli interlocutori e, allo stesso tempo, assolve delle funzioni nella storia. Mi riferisco ai cosiddetti beat (o action tag), cioè alle azioni svolte dai personaggi durante i dialoghi. I pregi, rispetto ai tag semplici,sono molteplici.
Allora?». Marco infilò la pelata nel finestrino dell’auto. «Che fai oggi?».
Antonio allacciò la cintura sul pancione. Accese il motore. «Vado a ballare».
Marco sobbalzò e urtò il tettuccio. «Ahio. Davvero?».
«Sì». Antonio roteò gli occhi. «D’accordo, salta su».
«Yes! Bum, baby!».

Coi beat si possono dunque inserire delle brevi descrizioni tra i dialoghi per renderli più dinamici e per integrarli meglio nella narrazione, tra le altre cose. Un dialogo che si protrae oltre una manciata di battute, infatti, rischia di diventare statico e di far dimenticare al lettore il contesto narrativo in cui si trovano i personaggi.
Grazie ai beat, piazzati sapientemente tra una battuta e l’altra, il lettore viene costantemente rimandato alla scena, che non rischia di rallentare o fermarsi, e ai personaggi. Il lettore, in altre parole, non solo continua a immaginare la scena in svolgimento, ma anche i personaggi che vi dialogano. Del resto,noi tutti ci muoviamo mentre parliamo, facciamo cose, siamo comunque impegnati in altro.
L’importante è ricordarsi di essere chiari e puliti, ovvero di impiegare beat visuali, di immediata comprensione, utili alla scena e con una funzione addizionale. Se ci fate caso, il dialogo di poc’anzi tra Marco e Antonio ci ha rivelato alcuni dettagli fisici e psicologici di entrambi, oltre ad averci catapultati al momento della partenza alla volta del locale. È bene non abusare di beat banali, ma cercare di usarli per ottenere qualcosa, che sia per caratterizzare un personaggio, per dare atmosfera o altro. E siate realistici: se il beat in questione è lungo e non potrebbe accadere tra una battuta e l’altra, andate a capo e relegatelo al capoverso successivo.
Possiamo suddividere, dunque, il testo di un’opera in almeno due elementi distinti: capoversi dialogo e capoversi descrittivi.
Nei primi scrivere i dialoghi stessi, inframezzati da beat e dialogue tag; nei secondi, le descrizioni e i pensieri corposi, che abbisognano del loro spazio e che non possono essere contenuti in uno scambio.
Un’ultima avvertenza, ricordate che i beat rallentano il dialogo. Meglio non strafare, soprattutto nelle scene più concitate. Nonostante l’inferiore utilità, i vari “disse” risultano meno dolorosi per il lettore.

— Come usare la Punteggiatura nei Dialoghi
Quando un personaggio parla deve essere segnalato al lettore.
Esistono svariati modi per farlo: le virgolette alte singole (‘ ‘); le virgolette alte doppie (” “); le virgolette basse doppie, o caporali («»); le lineette enne (– –). Attenzione a non usare i “trattini” (-) o i “trattini lunghi”(—)!
Un simbolo vale l’altro. Le case editrici impiegano diverse norme redazionali; c’è chi usa le caporali, chi le lineette e chi le virgolette alte doppie nei dialoghi. Quelle singole sono meno comuni e, tra le tre di cui sopra, le caporali sono, forse, leggermente più comuni delle altre.
Ciò che conta veramente è essere coerenti nella scelta. Se si opta per le caporali, usate solo le caporali. Lo stesso si può dire della formattazione del testo e della punteggiatura dell’intero testo: ciò che conta è rispettare le regole che si è inizialmente scelte. Il lettore infatti si aspetterà un dialogo quando vengono aperte le caporali, la comparsa di una lineetta prima di una battuta lo destabilizzerà.
Ciò non significa che non possono essere adoperati altri simboli testo. Ci si dovrà limitare a non usarli per aprire o chiudere i dialoghi, ma per segnalare occorrenze diverse. Le virgolette alte doppie, per esempio, vengono anche usate per distinguere i pensieri del protagonista in forma di discorso diretto (il dialogo interiore). Varie case editrici preferiscono il corsivo per tale evenienza, ma ciò non significa che sia una scelta sbagliata a prescindere. Come detto, non potrete mai rispettare le norme redazionali di ogni Casa Editrice. Preoccupatevi solo della coerenza delle vostre norme.
Quanto alla punteggiatura da seguire all’interno di un discorso diretto, qui il discorso si fa complicato. Le case editrici si sbizzarriscono. Le norme redazionali differiscono da casa a casa e non è data una maniera corretta di gestire la punteggiatura nei dialoghi.
L’importante, ancora, è essere costanti. Ad esempio:
«La cena è pronta», disse Marta.
«La cena è pronta» disse Marta.

Entrambe le versioni sono corrette.
Alcune case editrici inseriscono le virgole prima dei dialogue tag, altre no. L’unica regola stabile sembra essere di iniziare ogni battuta all’interno dei caporali con la lettera maiuscola!
Marta scoperchiò la pentola. «La cena è pronta».
Marta scoperchiò la pentola. «La cena è pronta.»

Di nuovo, sono entrambe accettabili. C’è chi inserisce il punto dopo le caporali di chiusura e chi lo mette prima. Chi sceglie la prima opzione, però, dovrà inserire il punto anche in presenza di altri segni di interpunzione.
Col Punto
Senza il Punto

«La cena è pronta!».
«La cena è pronta!»

«È pronta la cena?».
«È pronta la cena?»

«La cena è pronta…».
«La cena è pronta…»

«La cena è pro—».
«La cena è pro—»


Quanto alla lineetta emme (—) (codice Alt + 0151) viene usata per troncare la battuta di un dialogo in seguito a un’interruzione brusca. I puntini sospensivi, invece, implicano una sfumatura lenta.
Circa la formattazione dei dialoghi. È scontato, le battute dei personaggi si devono alternare. Se un personaggio sta parlando, bisogna scrivere le sue battute senza mai andare a capo. Ciò implica continuità e serve a indicare graficamente al lettore che il soggetto dicente non è cambiato. E al contrario, se la parola va a un altro personaggio, si dovrà comunque andare a capo. È un modo per separare le battute ed è un artificio a cui tutti i lettori del mondo sono ormai avvezzi.
Insomma, a ciascun personaggio spetta il suo paragrafo.

— Scrivere un Dialogo col giusto Ritmo
Per scrivere dialoghi efficaci non basta impostare una sequenza di battute. Ogni dialogo, in effetti, dovrebbe presentare una fusione di narrazione e battute per risultare utile, ma anche naturale e contestualizzato. Non sempre, badate. Un dialogo composto da una semplice alternanza di battute è comunque adatto a certe situazioni. È un modo per porre l’attenzione sul discorso stesso e, al contempo, per far progredire la scena più in fretta. Se le linee di dialogo sono brevi, inoltre, a sequenza acquista un ritmo ancora più veloce.
Certo, non è una scelta che può protrarsi oltre una manciata di battute, o finirà per sembrare surreale e avulsa dal resto della narrazione. Al contrario, un dialogo ricco di descrizioni assumerà un ritmo lento e carico di atmosfera, mentre i pensieri conferiranno un carattere introspettivo e intimo al discorso.

— Dialoghi e Descrizioni
Se i dialoghi sono un elemento di relazione che solletica l’empatia del lettore, le descrizioni e i pensieri si occupano invece dell’intimo contatto che abbiamo con l’eroe. Senza descrizioni non c’è un vero legame col protagonista, con la sua intimità, in quanto sono esse a porci nei suoi panni, nella sua solitudine.
Inoltre, se parliamo di una narrazione in prima persona, i dettagli ci dicono del protagonista più delle sue parole, poiché sono filtrati dai suoi sensi e dalla sua mente.
Uno stile troppo descrittivo può risultare stucchevole, denso, nonché banale rispetto alle dinamiche relazionali dei personaggi. Uno stile troppo dialogato, però, rischia di non approfondire la dimensionalità dei personaggi e di non veicolare il sufficiente impatto emotivo alla narrazione.
Certo, i dialoghi scorrono lisci rispetto alle descrizioni il più delle volte, soprattutto se queste ultime sono statiche e non scandite dalle azioni. Tuttavia, come risulterebbe un romanzo quasi solo dialogato come se fosse una lunga chiacchierata tra personaggi? Una persona prolissa appare accattivante all’inizio, per poi risultare pesante e scialba.
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