Ciao Namio, ho buttato giù due righe su questo esercizio, ma il risultato è un ibrido tra i due racconti. Credo di aver fatto un miscuglio, all'inizio non voluto, ma che secondo me funziona. Sto provando a capire su quale delle due si identifica questo racconto, ma non riesco, magari il tuo occhio acuto può darmi una mano.
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Calton era un bimbo prodigio, da quando aveva sei anni la sua mamma ha sempre pensato che fosse un genio. Col passare del tempo questo fardello diveniva sempre più pesante, non dover deludere le aspettative della sua mamma, essere sempre perfetto, sistemato e composto, una trappola da cui non riusciva più a scappare.
Calton ora ha 45 anni, la sua mamma oramai non c’è più, e quella trappola gli sembra così familiare, quasi non vuole sbarazzarsene, è l’unica cosa che la sua mamma ha apprezzato di lui.
Il bullismo subito, le denigrazioni e gli sputi, ora riemergono nella sua mente. Quei ricordi che aveva sotterrato, mai confessati alla madre, ora bussano e lui non ha una grande resistenza al dolore, nonostante avesse represso anche pensieri maligni. Non crede in nulla, neanche nella scienza, da lui tanto amata, benché laureato con lode in bioingegneria.
Suo padre, invece, lo sminuiva sempre, schiacciandolo nel suo angolo. “se ti monti la testa un giorno ti ritroverai solo e povero, non mi sembri questo stinco di genio.” Questa frase lo uccideva ogni volta che il padre la pronunciava, mentre la madre lo guardava e gli faceva l’occhiolino come per indicare di non dargli retta e di seguire i suoi sogni. Gli faceva talmente male che doveva correre in bagno per sopprimere le lacrime, il groppo in gola non gli permetteva neanche di respirare.
Ora, suo padre, dopo la morte della moglie, è solo. Lui lo va a trovare tutti i giorni, gli porta da mangiare, gli paga le bollette, lo aiuto come può, ma lo sguardo è sempre quello di quando era piccolo. Quello sguardo di disprezzo, lo stesso che ebbe il giorno dei funerali della moglie, lo guardava come se lui fosse colpevole della scomparsa.
Quello sguardo lo dilaniava dentro, strappando via ogni piccolo pezzo d’amore che aveva ancora per il padre.
Un giorno, perse il lavoro per via di tagli al budget, e andò alla casa di famiglia per non pensarci, aveva perso la speranza anche in quello, voleva farsi ancora più del male.
Quando arrivò trovò il padre a terra ubriaco zuppo, non era riuscito a rialzarsi dalla veranda.
- Lasciami stare, fallito. Urlò il padre strattonandolo.
Non rispose, era meglio che si zittisse, quel giorno non era buono per dire parole di cui si poteva pentire. Lo prese di peso e lo posò sulla poltrona, gli alzò i piedi e gli tolse la bottiglia di whisky che aveva in mano.
- Ecco, bevi, così almeno dimentichi. Ti dimentichi della mamma, di me e della tua casa. Te lo avevo detto che un giorno saresti rimasto solo.
- Mi sembra che stia parlando di te, papà... io non bevo e non sono solo, ancora.
- Non chiamarmi papà, io neanche volevo averti, è stata tua madre a decidere.
- Certo che sei proprio uno stronzo, lo sai? Da quando sono piccolo che mi tratti così, invece io non ti ho fatto nulla di male. Ma sai che c’è, papà, ora sei tu che sei solo e povero, sei tu che non ti sei montato abbastanza la testa da volere qualcosa di più, aspirare a una vita migliore ed essere un buon padre.
- Come ti permetti, esci subito da questa casa e non tornare mai più. Sono stufo della tua spocchia da intellettuale.
Calton non rispose, andò nella sua stanza, quella dell’infanzia, prese il trattorino che gli fu regalato dal padre, unico regalo della sua vita, e glielo portò. Lo lasciò lì sulla veranda, si sedette accanto al padre e gli disse:
- Per colpa tua, io oggi sono una persona senza speranze, mi hai sempre sminuito, denigrato e preso in giro. Perché?
- La vuoi sapere la verità? Tu non sei mio figlio, tua madre andava al letto con il mio miglior amico all’epoca, io non gli dissi mai nulla, ma tu non sei carne mia. Perciò vai al diavolo, non ti devo niente.
Calton non rispose, si alzò senza fiato, entrò in casa per non guardarlo, era una notizia sconvolgente. Prese il suo zaino e andò via senza neanche farsi vedere.
Calton, ora, vaga per le vie della sua città, confuso, in lacrime, convinto che la sua vita non valesse nulla. “aveva ragione, sono un fallito, un nonnulla.”
Calton, ora, galleggia sul fiume Hudson. La sua carne è leggera, ora, cullata dalle acque, non oppone resistenza alle correnti. Per una volta nella vita non controlla nulla, galleggia e basta.
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Ho letto anche i racconti di Rob e giovanni, devo dire, siamo ad alti livelli. Li ho apprezzati molto. Questa iniziativa ha permesso a tutti noi di migliorare, ne sono felice. Fino a poco tempo fa ero completamente bloccata, quel che scrivevo non andava mai bene, era tutto sbagliato, ma ora, con questi esercizi, sto ritrovando l'ispirazione che tanto mancava. Ri Ri Ri Grazie!
A presto!
Esercizio numero sei
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- Penna stilografica
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Re: Esercizio numero sei
Confermo quanto detto da Maria: qui è sorprendentemente stimolante. E poi c'è Namio che, nel suo connubio di mentore impareggiabile e osso duro, ci spinge a fare meglio...