Esercizio numero quattro

Sezione nella quale si svolgono gli esercizi previsti da questa iniziativa.
Giovanni p
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Re: Esercizio numero quattro

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ESERCIZIO 4



Mara mi passa il caffè, locale è vuoto come sempre a quest’ora.
- Sono tre giorni che nevica, ho le braccia distrutte. Perché il comune non manda la gente a spalare?
Osservo la sua andatura zoppa, effettivamente ha le mani gonfie. Per una donna di un metro e sessanta che non arriverà a pesare cinquanta chili non deve essere il massimo spalare da sola la nevicata di una notte interna che fa muro davanti al suo bar.
- Quelli del comune li mandano tutti in centro e sulla tangenziale. Gli rispondo.
Lei mi guarda torva e risponde:
- Le tasse le pago io su questo cucuzzolo come le pagano gli altri, anche di più se vuoi. Hai un idea di quanto mi costi di Tari questo buco?
Sorrido e annuisco, lei scuote la testa.
- Se vuoi ti posso dare un passaggio a casa.
Ha iniziato a pulire la macchinetta del caffè, non mi guarda nemmeno dice solo:
- Io sul tuo carro armato non ci salgo – poi mi guarda e aggiunge – e poi non devi lavorare?
Butto giù il caffè e lascio i soldi sul bancone, la saluto e me ne vado, lei non mi considera.
Fuori dal bar la tormenta mi aggredisce, la neve sembra sparata da dei cannoni. Mi volto verso il mio Iveco e lascio che la neve mi si attacchi alla barba, la tormenta lo ha quasi sepolto. Sul vetro sono appoggiati circa dieci centimetri di neve candida, la tolgo spingendola via con le mani senza mettermi i guanti. Mentre il vetro riemerge perso a quanto mi sia sempre piaciuto il freddo e questa montagna. Accendo il mio “mostro”, il contachilometri segna trecentomila, mi sento fiero. Pochi giorni fa in centro ho visto dei ragazzi bestemmiare sulle loro Mercedes nuove di zecca, la batteria di quegli aggeggi non ha retto il freddo e non sono ripartite lasciando loro e le loro belle in minigonna a battere i denti davanti ai ristoranti dove per qualche centinaio di euro hanno assaggiato qualcosa. Il mio Iveco gli è passato davanti fiero, sbuffandogli fumo nero con ironica arroganza. Questa notte, come quella e tutte le altre, il mio mostro si arrampicherà per strade che nessun altro può percorrere. Il motore ruggisce cupo mentre la salita inizia, per fortuna nella cabina fa caldo, anche se devo tenere il finestrino aperto a causa dei fumi che arrivano dalle bocchette. L’odore del diesel non sarebbe nemmeno male, ma quando l’abitacolo diventa saturo la testa inizia a girarmi. Devo starci un'altra ora sul mio Iveco, il tempo della consegna e poi si torna a casa. Il magazzino è dopo la collina e il mio mostro se la mangia un pazzo alla volta. I fari riescono ad illuminare la strada a distanza di trenta metri e il rombo spaventa tutti i lupi, gli orsi e i cinghiali con potenziali tendenze suicide. I tornanti spariscono uno dietro altro dai miei specchietti laterali, che tanto “etti” non sono. Adesso il motore fa tremare tutto, inizia la salita più ripida, l’ultima della notte. Il cruscotto vibra e soffre mentre il motore fa a botte con la strada, come sempre devo scalare e cambiare per fiato e toglierlo al mostro che gorgoglia. Quel pezzo di strada era il mio terrore nelle mie prima notti da principiante. Se il motore mi avesse abbandonato sarebbero stati guai, ci ho messo molto tempo a fidarmi, a non sudare freddo cercando di stare tranquillo. Mentre la pendenza aumenta penso a Mara, alle sue spalle minute, alla sua coda che dondola mentre spazza per il bar. Sarebbe bello se mi considerasse, se accettasse di salirci sul mio camion puzzolente di diesel. L’ho sognata spesso ultimamente, a volte nuda a volte vestita con l’uniforme del bar che mi sorride.
Il volto Mara sparisce mentre la strada diventa buia, il mio mostro ha tossito con una violenza mai sentita prima, ora sento solo il silenzio. Rimango fermo per qualche secondo poi strangolo il freno a mano. Il mio Iveco si è spento ed è tutta colpa mia. Mi sono distratto e ho lasciato andare troppo la frizione, adesso sono fermo al buio con la salita ancora da fare. Riaccendo subito il quadro che per fortuna mi restituisce un po’ di luce, accendo ma il mostro ora dorme stremato. Iniziò a sudare freddo, ripeto l'operazione tre volte ma niente. Mi prenderei a schiaffi da solo, che cazzo ho combinato...
La pendenza è quasi del quindici per cento e il vano è pieno, oltretutto fa un freddo micidiale. Per fortuna il freno a mano tiene, scendo e controllo che le ruote non arretrino. La neve e il vento mi vengono addosso come una folla, ma per fortuna vedo che le ruote rimaste dove si sono fermate. Il vento mi brucia la faccia, risalgo velocemente ma so benissimo che anche dentro l'abitacolo fra poco farà un freddo cane, ma non ho il tempo di pensarci. Apro il cruscotto e tiro fuori il triangolo e il giubbotto catarifrangente, se mi faccio beccare senza addio patente. Mi sento un idiota mentre posiziono il triangolo, o almeno ci provo, dato che il vento lo tira giù anche se lo blocco con le basi. Riesco a sistemarlo, ma è inutile ai fini della sicurezza, la neve fra poco lo avrà sepolto. Inizia a farmi freddo ma non voglio pensarci, anche perché mi basta vedere il mio camion inclinato su questa maledetta salita per scordarmi di tutto il resto. Risalgo e sento che l’aria nell’abitacolo è pulita, ma purtroppo anche gelida. La tormenta non si calma il parabrezza si sta riempendo di neve e sento che la testa di gira. Provo a telefonare al magazzino, mi stanno aspettando, ma tanto so già che non c’è segnale e infatti il cellulare mi dà ragione. Il freddo inizia a farsi sentire, senza neanche accorgermene sto tremando. Tutto intorno c’è solo il bosco ma poi un botto interrompe sia i pensieri che il tremore. Qualcosa di grosso ha colpito il tetto del camion, esco di nuovo ma non vedo nulla, la neve mi entra negli occhi. Passo dal lato sinistro a quello destro del mio mostro e vedo che il ramo di un albero si è rotto ed è finito sopra il tetto. Il ramo è grosso, probabilmente il botto è stato attutito dalla neve che sta creando una montagna bianca sul mio Iveco. Con tutte le mie forze cerco di trascinare via il ramo che sarà lungo almeno un paio di metri, ma in questa situazione è un lavoraccio. Il ramo sembra incastrato, quando improvvisamente vedo il camion pattinare all’indietro. Il ramo scende da solo e nel farlo mi fa cadere, per poco non mi rompo il braccio sinistro, per fortuna il camion scende per poco più di un metro. Il tremito mi aggredisce, ma non solo per il freddo, se il mio mostro decidesse di scivolare troverebbe presto un tornante e finirebbe fra gli abeti. Il mio mostro è la mia unica fonte di sostentamento, non so fare altro che guidarlo nella vita. Mi scappa pure da pisciare e sto tremando come una foglia sia per il freddo che la paura. Guardo il mio Iveco messo di sbieco in strada, sembra un cadavere coperto di neve. Il triangolo è finito sotto le ruote, non perdo neppure tempo a cercarlo anche perché devo pisciare e trovare una soluzione. Le scarpe si stanno bagnando, il freddo non mi arriva più solo sulla faccia e le mani, ma adesso sale anche dai piedi. Dondolando mi avvicino al margine del bosco, qui c’è meno vento posso pisciare in pace. Il buio è totale, sento solo le gocce di urina precipitare sulla neve. I miei occhi si perdono nel buio del bosco, la testa mi gira sempre di più e le gambe tremano. Finisco ed esco per tornare sulla strada, ma inciampo. Affondo nel candore gelido, riesco persino a sudare freddo. Il respiro si fa pesante, il panico mi sta per prendere. Addento un boccone di neve e per fortuna è una buona idea, un dolore acuto parte dai miei denti trapanati di fresco, il dolore mi sveglia. Mi tiro su ed in ginocchio raccimulo altra neve da inghiottire, mi alzo in piedi e arranco verso il camion. Arrivato mi stampo sullo sportello che riesco a malapena ad aprire, salgo sul sedile e lascio il freno a mano. Sento il camion indietreggiare, le mie braccia devono domane quella bestia senza servosterzo, ma il piano funziona prima che me ne accorga. Ho spostato il mostro nel senso contrario di marcia, adesso torno indietro. I freni non funzionano, ma c’è talmente tanta neve che riesco a viaggiare a passo d’uomo. Sono sfinito, ma la testa funziona bene. Dopo poca strada caccio un urlo di gioia, le luci del bar di Mara sono accese. Lascio che il mostro entri nel piazzale, poi finalmente tiro il freno a mano e lo lascio slittare dove non dia noia. La porta si apre dopo molte manate date con cautela, ho le mani gelate e un urto troppo violento aprirebbe ferite bastarde. Mara mi vede corre verso la porta e dopo avermi tirato dentro dice:

- Solo un coglione come te lavorerebbe in una notte come questa!
Io annuisco, lei si avvia verso il bancone.
- Hanno chiuso pure il magazzino, scommetto che hai ancora quella patacca di telefono e te ne sei accorto quando sei arrivato lì. Il magazziniere ha chiamato qua per avvisarti, me te avevi il cellulare staccato. Mi dice lei mentre sculetta verso la macchina del caffè.
- Comunque sei una fava, io non sarei mai partita con una bufera del genere, anzi come vedi sono rimasta qua, non ho voglia di rimanere bloccata con questo tempo.
Mi siedo cercando di non tremare, ma sono sfinito e la testa ha ripreso a girarmi anche se adesso sento caldo. Mara continua a parlare, ma io non la sento, la vedo mentre prepara un caffè, doppio in tazza grande come piace a me. Il caffè mi rianima, ma vedo Mara che mi fissa preoccupata e dice:
- Ma sei completamente zuppo!
Io annuisco con la tazzina incollata alla bocca.
- Pezzo di coglione! – sbraita dando un pugno sul bancone – Non mi dirai che ti è partita una catena?
Annuisco di nuovo.
- Te e quel cazzo di ferro vecchio! Con quello che lavori e guadagni almeno le catene ricomprale!
Poi si avvicina e mi toglie il giubbotto.
- Spogliati e vedi di non fare il timido, in queste condizioni non puoi stare. Ti asciughi e la notte la passi qua con me, contento?
Fisso i suoi occhi arcigni, ma bellissimi, annuisco di nuovo.
Gaetano Intile
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Re: Esercizio numero quattro

Messaggio da Gaetano Intile »

Bellissimo, Giovanni. Si fa divorare. Non ho ben capito come ha fatto a tornare indietro il tuo protagonista (mi riferisco all'IVECO), ma va beh, sono contento lo stesso. Anche il finale mi soddisfa, con quella specie di ritorno a casa dell'altro protagonista, quello che lo guida.
Il volto di Mara, hai dimenticato un di. E Iveco va tutto maiuscolo perché è un acronimo (Industrial Vehicles Corporation). Per il resto è un ottimo racconto, ben ingegnato.
Quanta differenza tra questo e i tuoi primi su BA.
Ti riesce di inserire le partizioni dello schema narrativo? Vediamo come te la cavi a sezionare la tua creatura.
Se non ci riesci ci provo io.
Grazie per la lettura.
Gaetano Intile
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Re: Esercizio numero quattro

Messaggio da Gaetano Intile »

A proposito. Come titolo propongo, semplicemente, IVECO.
Robennskii
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Re: Esercizio numero quattro

Messaggio da Robennskii »

Il racconto è semplicemente meraviglioso. Coinvolgente, ironico nella sua drammaticità.
Il finale più bello che si potesse mai immaginare.

Per il mio modesto parere, questo testo va pubblicato: rende onore all'Officina.
Giovanni p
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Re: Esercizio numero quattro

Messaggio da Giovanni p »

Gaetano Intile ha scritto: 16/04/2023, 9:31 Bellissimo, Giovanni. Si fa divorare. Non ho ben capito come ha fatto a tornare indietro il tuo protagonista (mi riferisco all'IVECO), ma va beh, sono contento lo stesso. Anche il finale mi soddisfa, con quella specie di ritorno a casa dell'altro protagonista, quello che lo guida.
Il volto di Mara, hai dimenticato un di. E Iveco va tutto maiuscolo perché è un acronimo (Industrial Vehicles Corporation). Per il resto è un ottimo racconto, ben ingegnato.
Quanta differenza tra questo e i tuoi primi su BA.
Ti riesce di inserire le partizioni dello schema narrativo? Vediamo come te la cavi a sezionare la tua creatura.
Se non ci riesci ci provo io.
Grazie per la lettura.


Buongiorno, Gaetano

ti ringrazio tanto per il commento e per i suggerimenti!

Il protagonista riesce a tornare indietro facendo slittare il camion fino a fare un inversione a U.

Volentieri!
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Re: Esercizio numero quattro

Messaggio da Giovanni p »

Roberto ha scritto: 16/04/2023, 10:24 Il racconto è semplicemente meraviglioso. Coinvolgente, ironico nella sua drammaticità.
Il finale più bello che si potesse mai immaginare.

Per il mio modesto parere, questo testo va pubblicato: rende onore all'Officina.
Grazie mille davvero!
Gaetano Intile
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Re: Esercizio numero quattro

Messaggio da Gaetano Intile »

Giovanni p ha scritto: 14/04/2023, 17:59 ESERCIZIO 4



Mara mi passa il caffè, locale è vuoto come sempre a quest’ora.
- Sono tre giorni che nevica, ho le braccia distrutte. Perché il comune non manda la gente a spalare?
Osservo la sua andatura zoppa, effettivamente ha le mani gonfie. Per una donna di un metro e sessanta che non arriverà a pesare cinquanta chili non deve essere il massimo spalare da sola la nevicata di una notte interna che fa muro davanti al suo bar.
- Quelli del comune li mandano tutti in centro e sulla tangenziale. Gli rispondo.
Lei mi guarda torva e risponde:
- Le tasse le pago io su questo cucuzzolo come le pagano gli altri, anche di più se vuoi. Hai un idea di quanto mi costi di Tari questo buco?
Sorrido e annuisco, lei scuote la testa.
- Se vuoi ti posso dare un passaggio a casa.
Ha iniziato a pulire la macchinetta del caffè, non mi guarda nemmeno dice solo:
- Io sul tuo carro armato non ci salgo – poi mi guarda e aggiunge – e poi non devi lavorare?
Butto giù il caffè e lascio i soldi sul bancone, la saluto e me ne vado, lei non mi considera.
(Situazione Iniziale / Equilibrio)

Fuori dal bar la tormenta mi aggredisce, la neve sembra sparata da dei cannoni. Mi volto verso il mio Iveco e lascio che la neve mi si attacchi alla barba, la tormenta lo ha quasi sepolto. Sul vetro sono appoggiati circa dieci centimetri di neve candida, la tolgo spingendola via con le mani senza mettermi i guanti. Mentre il vetro riemerge perso a quanto mi sia sempre piaciuto il freddo e questa montagna. Accendo il mio “mostro”, il contachilometri segna trecentomila, mi sento fiero. Pochi giorni fa in centro ho visto dei ragazzi bestemmiare sulle loro Mercedes nuove di zecca, la batteria di quegli aggeggi non ha retto il freddo e non sono ripartite lasciando loro e le loro belle in minigonna a battere i denti davanti ai ristoranti dove per qualche centinaio di euro hanno assaggiato qualcosa. Il mio Iveco gli è passato davanti fiero, sbuffandogli fumo nero con ironica arroganza. Questa notte, come quella e tutte le altre, il mio mostro si arrampicherà per strade che nessun altro può percorrere. Il motore ruggisce cupo mentre la salita inizia, per fortuna nella cabina fa caldo, anche se devo tenere il finestrino aperto a causa dei fumi che arrivano dalle bocchette. L’odore del diesel non sarebbe nemmeno male, ma quando l’abitacolo diventa saturo la testa inizia a girarmi. Devo starci un'altra ora sul mio Iveco, il tempo della consegna e poi si torna a casa. Il magazzino è dopo la collina e il mio mostro se la mangia un pazzo alla volta. I fari riescono ad illuminare la strada a distanza di trenta metri e il rombo spaventa tutti i lupi, gli orsi e i cinghiali con potenziali tendenze suicide. I tornanti spariscono uno dietro altro dai miei specchietti laterali, che tanto “etti” non sono. Adesso il motore fa tremare tutto, inizia la salita più ripida, l’ultima della notte. Il cruscotto vibra e soffre mentre il motore fa a botte con la strada, come sempre devo scalare e cambiare per fiato e toglierlo al mostro che gorgoglia. Quel pezzo di strada era il mio terrore nelle mie prima notti da principiante. Se il motore mi avesse abbandonato sarebbero stati guai, ci ho messo molto tempo a fidarmi, a non sudare freddo cercando di stare tranquillo. Mentre la pendenza aumenta penso a Mara, alle sue spalle minute, alla sua coda che dondola mentre spazza per il bar. Sarebbe bello se mi considerasse, se accettasse di salirci sul mio camion puzzolente di diesel. L’ho sognata spesso ultimamente, a volte nuda a volte vestita con l’uniforme del bar che mi sorride.
(Rottura dell'Equilibrio)

Il volto Mara sparisce mentre la strada diventa buia, il mio mostro ha tossito con una violenza mai sentita prima, ora sento solo il silenzio. Rimango fermo per qualche secondo poi strangolo il freno a mano. Il mio Iveco si è spento ed è tutta colpa mia. Mi sono distratto e ho lasciato andare troppo la frizione, adesso sono fermo al buio con la salita ancora da fare. Riaccendo subito il quadro che per fortuna mi restituisce un po’ di luce, accendo ma il mostro ora dorme stremato. Iniziò a sudare freddo, ripeto l'operazione tre volte ma niente. Mi prenderei a schiaffi da solo, che cazzo ho combinato...
La pendenza è quasi del quindici per cento e il vano è pieno, oltretutto fa un freddo micidiale. Per fortuna il freno a mano tiene, scendo e controllo che le ruote non arretrino. La neve e il vento mi vengono addosso come una folla, ma per fortuna vedo che le ruote rimaste dove si sono fermate. Il vento mi brucia la faccia, risalgo velocemente ma so benissimo che anche dentro l'abitacolo fra poco farà un freddo cane, ma non ho il tempo di pensarci. Apro il cruscotto e tiro fuori il triangolo e il giubbotto catarifrangente, se mi faccio beccare senza addio patente. Mi sento un idiota mentre posiziono il triangolo, o almeno ci provo, dato che il vento lo tira giù anche se lo blocco con le basi. Riesco a sistemarlo, ma è inutile ai fini della sicurezza, la neve fra poco lo avrà sepolto. Inizia a farmi freddo ma non voglio pensarci, anche perché mi basta vedere il mio camion inclinato su questa maledetta salita per scordarmi di tutto il resto. Risalgo e sento che l’aria nell’abitacolo è pulita, ma purtroppo anche gelida. La tormenta non si calma il parabrezza si sta riempendo di neve e sento che la testa di gira. Provo a telefonare al magazzino, mi stanno aspettando, ma tanto so già che non c’è segnale e infatti il cellulare mi dà ragione. Il freddo inizia a farsi sentire, senza neanche accorgermene sto tremando. Tutto intorno c’è solo il bosco ma poi un botto interrompe sia i pensieri che il tremore. Qualcosa di grosso ha colpito il tetto del camion, esco di nuovo ma non vedo nulla, la neve mi entra negli occhi. Passo dal lato sinistro a quello destro del mio mostro e vedo che il ramo di un albero si è rotto ed è finito sopra il tetto. Il ramo è grosso, probabilmente il botto è stato attutito dalla neve che sta creando una montagna bianca sul mio Iveco. Con tutte le mie forze cerco di trascinare via il ramo che sarà lungo almeno un paio di metri, ma in questa situazione è un lavoraccio. Il ramo sembra incastrato, quando improvvisamente vedo il camion pattinare all’indietro. Il ramo scende da solo e nel farlo mi fa cadere, per poco non mi rompo il braccio sinistro, per fortuna il camion scende per poco più di un metro. Il tremito mi aggredisce, ma non solo per il freddo, se il mio mostro decidesse di scivolare troverebbe presto un tornante e finirebbe fra gli abeti. Il mio mostro è la mia unica fonte di sostentamento, non so fare altro che guidarlo nella vita. Mi scappa pure da pisciare e sto tremando come una foglia sia per il freddo che la paura. Guardo il mio Iveco messo di sbieco in strada, sembra un cadavere coperto di neve. Il triangolo è finito sotto le ruote, non perdo neppure tempo a cercarlo anche perché devo pisciare e trovare una soluzione. Le scarpe si stanno bagnando, il freddo non mi arriva più solo sulla faccia e le mani, ma adesso sale anche dai piedi. Dondolando mi avvicino al margine del bosco, qui c’è meno vento posso pisciare in pace. Il buio è totale, sento solo le gocce di urina precipitare sulla neve. I miei occhi si perdono nel buio del bosco, la testa mi gira sempre di più e le gambe tremano. Finisco ed esco per tornare sulla strada, ma inciampo. Affondo nel candore gelido, riesco persino a sudare freddo. Il respiro si fa pesante, il panico mi sta per prendere. Addento un boccone di neve e per fortuna è una buona idea, un dolore acuto parte dai miei denti trapanati di fresco, il dolore mi sveglia. Mi tiro su ed in ginocchio raccimulo altra neve da inghiottire, mi alzo in piedi e arranco verso il camion. Arrivato mi stampo sullo sportello che riesco a malapena ad aprire, salgo sul sedile e lascio il freno a mano. Sento il camion indietreggiare, le mie braccia devono domane quella bestia senza servosterzo, ma il piano funziona prima che me ne accorga. Ho spostato il mostro nel senso contrario di marcia, adesso torno indietro. I freni non funzionano, ma c’è talmente tanta neve che riesco a viaggiare a passo d’uomo.
(Peripezie)

Sono sfinito, ma la testa funziona bene. Dopo poca strada caccio un urlo di gioia, le luci del bar di Mara sono accese. Lascio che il mostro entri nel piazzale, poi finalmente tiro il freno a mano e lo lascio slittare dove non dia noia. La porta si apre dopo molte manate date con cautela, ho le mani gelate e un urto troppo violento aprirebbe ferite bastarde. Mara mi vede corre verso la porta e dopo avermi tirato dentro dice:

- Solo un coglione come te lavorerebbe in una notte come questa!
Io annuisco, lei si avvia verso il bancone.
- Hanno chiuso pure il magazzino, scommetto che hai ancora quella patacca di telefono e te ne sei accorto quando sei arrivato lì. Il magazziniere ha chiamato qua per avvisarti, me te avevi il cellulare staccato. Mi dice lei mentre sculetta verso la macchina del caffè.
- Comunque sei una fava, io non sarei mai partita con una bufera del genere, anzi come vedi sono rimasta qua, non ho voglia di rimanere bloccata con questo tempo.
Mi siedo cercando di non tremare, ma sono sfinito e la testa ha ripreso a girarmi anche se adesso sento caldo. Mara continua a parlare, ma io non la sento, la vedo mentre prepara un caffè, doppio in tazza grande come piace a me. Il caffè mi rianima, ma vedo Mara che mi fissa preoccupata e dice:
- Ma sei completamente zuppo!
Io annuisco con la tazzina incollata alla bocca.
- Pezzo di coglione! – sbraita dando un pugno sul bancone – Non mi dirai che ti è partita una catena?
Annuisco di nuovo.
- Te e quel cazzo di ferro vecchio! Con quello che lavori e guadagni almeno le catene ricomprale!
(Climax)

Poi si avvicina e mi toglie il giubbotto.
- Spogliati e vedi di non fare il timido, in queste condizioni non puoi stare. Ti asciughi e la notte la passi qua con me, contento?
Fisso i suoi occhi arcigni, ma bellissimi, annuisco di nuovo.
(Scioglimento/ Nuovo Equilibrio)
A mio avviso lo schema è questo.
Giovanni p
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Re: Esercizio numero quattro

Messaggio da Giovanni p »

E' la divisione che avrei fatto io, grazie mille. Questa officina è veramente utile ed è bello confrontarsi con voi.
Maria E.
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Re: Esercizio numero quattro

Messaggio da Maria E. »

Mi odierai, Namio, ma stanotte ho avuto ispirazione e non potevo non svolgere questo esercizio. La storia è quella della ciambella, finita e riscritta. Quando avrai modo sarei felice di sapere cosa ne pensi. Il testo è lungo ma, non potevo interrompere il flusso, dovevo andare fino in fondo.
A presto e grazie per tutto quello che fai qui, è onorevole.

La ciambella del giovedì
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---Antefatto---
Quella mattina si svegliò con un senso di pace interiore profonda e in lui nacque una voglia smisurata di una ciambella al pistacchio che comperava sempre ogni giovedì. Il giorno prima però, mentre andava al supermercato, un grande acquazzone lo aveva fermato al sottopassaggio della metro A.
---Situazione iniziale---
-chissà quanto durerà, qui è sempre un problema quando piove - approcciò una signora dietro di lui
-lasciamo perdere signora, l'anno scorso mi sono trovato nella stessa metro ad aspettare e alla fine sono tornato a casa alle dieci tutto zuppo - rispose con tono rassegnato, sapendo dentro di sè che anche quel giorno sarebbe tornato a casa tardi.
-certo, se non puliscono le fogne, questa città prima o poi si allagherà del tutto - ribattè la signora.
Aveva le scatole piene di quelle frasi fatte, trite e ritrite, che lo infastidivano fino all'orripilazione; non rispose alla signora, fece solo un cenno con la testa in segno di approvazione.
Di lì a poco ebbe uno strano senso di calore e dovette uscire di corsa sotto la pioggia per respirare, si rese conto di essere diventato claustrofobico. D' un tratto aveva capito perché ha sempre detestato le piccole stanze, i luoghi affollati. Si poggiò ad un corrimano del passaggio pedonale per riprendersi, ma non riuscì neanche a respirare quando da lontano sentì:
-Nicola! Ciao, stai bene?
La collega invasiva del quarto piano, ufficio contabilità, più di quindici anni fa ebbe una cotta per lui.
-ciao, Alda! Io bene, tu, come stai? - esclamò con falsità Nicola sapendo che la conversazione si sarebbe dilungata a sproposito.
-bene, sapessi cosa mi è succes..
-scusami, cara, sono uscito di fretta e temo di aver lasciato sul fuoco il pentolino del latte, dovevo stare via solo un minuto, devo scappare, ci si vede in ufficio!
---rottura dell’equilibrio---
Alda rimase sconcertata con la mano tesa e guardò Nicola allontanarsi, ma si promise di andarlo a trovare nel suo ufficio; nessuno aveva mai osato scaricare la Alda, colei emanava luce e ottimismo quando passava per i corridoi, coi suoi tacchetti battenti a ritmo sul laminato scivoloso.
Nicola, preso da un senso di colpa, si recò direttamente al lavoro, molto presto quella volta.
Si sedette alla scrivania e tutto cio a cui riusciva a pensare era quella ciambella mancata, quell'appuntamento del giovedì ormai svanito.
Uno squillo di telefono infranse quel silenzio sordo e Nicola dovette riordinare le idee.
---peripezie---
Quel giorno doveva consegnare l'ultimo rapporto sui rendimenti di fine trimestre; non aveva alcuna ispirazione, le formule e i numeri che stava leggendo non avevano senso e quel desiderio di uscire si fece pian piano più incombente.
-Gabriella, per favore portami un bicchiere d'acqua e una zolletta di zucchero. Chiese alla sua assistente all'interfono.
-certo, Nicola. È quasi mezzogiorno, vuoi che ti porti qualcosa da mangiare?
-no, non ti preoccupare, basta l'acqua e lo zucchero.
Gabriella entrò con il suo fare silenzioso, un passo felino quasi impercettibile. Porse il bicchiere e lo guardò bere come se non avesse mai bevuto.
L'acqua scese giù veloce, fredda ma leggermente frizzante come piaceva a Nicola, irrorando in lui un senso di piacere.
Decise di poter continuare il suo lavoro e lasciare i pensieri per la sera, quando poteva essere e decidere quel che voleva.
Le ore passarono e il report era quasi completo, giusto qualche controllo finale su qualche grafico; mentre la stampante era al lavoro Nicola pensava alla figuraccia fatta con Alda. Nonostante il suo carattere, in fin dei conti, non era poi così male come persona. "meglio di tanti altri qui che sono ipocriti e falsi" farfugliò tra sé e sé.
Prese quel fascicolo, lo spillò e lo mise nella cartella da consegnare al dott. Eraldi, il suo supervisore. Un uomo alto e secco, si chiese sempre come facesse a stare in piedi, sembrava come in un attimo il vento lo portasse via. Mentre pensò questo immaginò il dottore volare per il giardino dell'ufficio e si fece una risatina quasi diabolica.
Mentre apriva la porta per uscire si ricordò che doveva spegnere il computer, non poteva lasciarlo acceso fino al giorno dopo, sapeva si sarebbe bloccato; quel catorcio neanche rispondeva più ai comandi, un dinosauro con quattro schede di archiviazione da lui installate arrancava sempre più. Un giorno decise di sbarazzarsene ma doveva prima ricopiare tutto sui floppy e non ne aveva voglia, così rimandava giorno per giorno senza, però, farlo mai.
Lungo il corridoio ormai non si sentiva tanto chiasso, le voci erano più nitide, quelle di chi rimaneva fin tardi al lavoro, come Nicola ogni sera.
Prese l'ascensore e salì all'ultimo piano dal dott. Eraldi intento a consegnare il lavoro e filare via prima delle sette.
Uno scricchiolio preoccupante accese in Nicola un disagio, quella sensazione che gli cingeva la gola. Si guardò attorno e l'abitacolo sembrò più piccolo e angusto, sentiva l'odore della moquette sotto i piedi e, non riuscendo più a muoversi, si poggiò allo specchio con la mano sulla testa per riposare.
Lo scatto delle porte gli portò sollievo e uscì di fretta per riprendere fiato.
Giunto di fronte alla porta bussò lentamente ed entrò salutando il dottore, seduto in fondo alla stanza alle prese con un funzionario.
-prego, entri e si sieda. Arrivo in un istante. Pronunciò gesticolando Eraldi.
Si sedette sulla poltrona di fronte la scrivania e si guardò intorno con fare distaccato. Osservò come il dottore avesse una passione smisurata per le monete, tutte incastonate in quadri minuziosamente confezionati e catalogati; più vicino, sullo scrittoio teneva una sola moneta, una 500 lire del 1957 d'argento. Quella con le caravelle di Colombo. Pensò dentro di lui che era scintillante, non se ne vedevano tante in giro.
-anche tu ne sei appassionato?
-non come lei, vedo che è un assiduo collezionista.
-diciamo che ho una modesta conoscenza della moneta, ma vedi caro Nicola, questa moneta? Questa fu per me il primo passo, la mia prima paga. Quel giorno, ancora ricordo, ne fui entusiasta. Un lavoro svolto da me che veniva retribuito, dando un valore intrinseco al mio operato. Ero considerato abile nel farlo, mi ha permesso di poter valere qualcosa. Capisci, Nicola?
Quelle 500 lire, all'epoca, non valevano chissà che ma, avendole tenute per un ricordo personale e intimo, dopo oltre 40 anni, valgono tantissimo; se guardi bene le vele delle navi, noterai che sono controvento.
-che significa? Chiese Nicola con interesse
-significa che quella moneta è il risultato di un errore di conio, rendendola unica nel suo genere.
-chissà quanto varrà
-inestimabile valore affettivo, non c'è cifra eguagliabile. Hai portato il fascicolo?
Nicola rimase un po' di tempo fermo, per poi porgere il fascicolo ed esprimere la sua stima verso l'Eraldi, pensando di averlo da sempre frainteso. L'atteggiamento duro del suo supervisore non era dovuto al suo carattere ma, al suo essere introverso e non adatto ad una socialità moderna, non concepibile dal suo punto di vista.
---climax---
Si salutarono e Nicola uscì dalla stanza pieno di pensieri, quei blocchi di granito che giacevano nella sua mente si sgretolarono di getto, lasciando spazio a nuovi e scintillanti altri blocchi che poteva ricostruire alla luce di quanto udito nella stanza.
Quella volta, per scendere, prese le scale; non poté neanche avvicinarsi all’ascensore, nonostante pensò che fare otto piani a piedi fosse assai scomodo. Volle stare nei suoi pensieri ancora per un po’, il tempo di contare i gradini, riordinare le idee.
Uscì dall’androne dell’ufficio con la sua ventiquattro ore in mano e salì in macchina per tornare a casa. Nel viaggio si rifugiò sempre nei suoi pensieri, il tempo era relativo e non ne sentiva più lo scorrere. Sapeva che qualcosa in lui era cambiato per via dell’Eraldi, aveva scosso tutte le sue certezze sull’uomo e si meravigliò di quanto fosse difficile crederci, eradicare un’idea, rivoluzionarla.
Giunse di fronte la sbarra del garage ma il telecomando non funzionava; dovette scendere dalla macchina e azionare il comando da dentro, pensò che un giorno avrebbe preso un’ascia e spaccato quel maledetto arnese, da quando lo istallarono otto anni fa non funzionò mai pienamente e ne aveva le scatole piene di cose che funzionavano a metà.
Furioso e contrariato salì e si buttò sul divanetto con ancora il tranch addosso; cinque minuti di riposo, un momento per chiudere gli occhi e non pensare a niente. Chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi ma, un tarlo iniziò a rosicchiargli il cervello.
Con vago rantolo si recò in cucina per mangiare qualcosa, non poté più stare sul divano, le gambe avevano iniziato a formicolare.
Mangiò quella tristissima cena fatta di una scatoletta di tonno e dei pomodori che aveva nel frigo, intrisa di maionese; quella delicata della calvè che a lui piaceva oltremodo. Aprì una rosetta e ci schiaffò tutto quel miscuglio ormai indistinto e la divorò in quattro bocconi, dissetandosi con una ichusa non filtrata ghiacciata. Pensò che le meraviglie del mondo, talvolta, risiedessero nelle cose più stupide e ridicole, come bere una birra ghiacciata od osservare dalla finestra una coppia che si lascia andare in diffusioni amorose sulla panchina della fermata del bus.
In una triste serata noiosa decise di lavarsi i denti e mettersi a dormire, non avendo neanche la voglia di vedersi il suo programma del giovedì sera, quella trasmissione politica intenta a fare polemiche sterili per aumentare l’audience, ne aveva le scatole piene anche di quella roba.
La notte scese e la città si silenziò gradualmente, facendolo addormentare in pochi attimi.
L’orologio batteva le cinque e trenta del mattino e Nicola di colpo si svegliò zuppo di sudore e con un gran mal di testa. Sognò quel cornettaro notturno dietro Piazza di Spagna che aveva sempre le ciambelle calde e le farciva a volontà con ogni ben di Dio.
Pensò che oramai non potè più dormire e si vesti di fretta, indosso il tranch quello marrone e brutto come uno straccio; era affezionato a quel tranch, nonostante fosse roso ormai dal tempo, gli fu regalato in giovane età dalla sua mamma, quando dovette andare a discutere la tesi di laurea. Pensò che gli avesse portato fortuna e decise di tenerlo per lungo tempo, talmente tanto che diventò un pezzo di Nicola.
Arrivò dinanzi al cornettaro e chiese tre ciambelle con la crema al pistacchio, doveva riempire quel vuoto che si portò per tutto il di.
Si sedette sulla panchina di marmo davanti la fontana della Barcaccia ammirandone la rara bellezza nel mentre gustava la tanto agognata ciambella.
Da dietro senti una voce familiare, un suono che sentiva tutti i giorni e, mentre si voltò, capi che era il dott. Eraldi.
-cosa ci fa qui dottore a quest’ora?
-potrei farti la stessa domanda. Disse ridendo
-non riuscivo a dormire e, mentre passeggiavo, avevo voglia di una ciambella calda.
-idem, io ci vengo tutti i giovedì a prendermi la mia ciambella alla crema.
---recupero dell’equilibrio---
Nicola era sconcertato, non poteva crederci. Il dottore era lì, i due erano lì, legati da un comune denominatore. Nessuno parlò più, si sedettero sulla panchina, zitti; il sol rumore che si sentiva era il cadere dei granelli di zucchero nella bustina cerata e le loro mascelle che gustavano, avide, quelle piccole meraviglie profumate. Ogni problema svanì, come la notte, con l’alba in divenire e quel freddo affilato che pungeva le guance, ma tutto era relativo.
Rimasero seduti, senza dire più niente, solo canto d’uccellini e qualche clacson mattiniero.
Maria E.
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Iscritto il: 30/05/2023, 14:30

Re: Esercizio numero quattro

Messaggio da Maria E. »

Ho visto qualche imprecisione sulle coniugazioni verbali che correggerò. "effusioni" in luogo di "diffusioni" errore mio!
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