Esercizio numero quattro
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- Macchina da scrivere
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Esercizio numero quattro
Chi se la sente di scrivere un racconto, lunghezza a piacimento, in cui siano presenti le sei (o almeno cinque) principali figure delle schema narrativo?
Antefatto, Situazione iniziale/equilibrio, Rottura dell'Equilibrio, Peripezie, Climax, Scioglimento/Soluzione/Recupero dell'Equilibrio.
Nel comporre il racconto dovreste anche indicare quale figura dello schema state affrontando (da punto a punto), in modo da avere la percezione esatta del luogo in cui vi trovate sulla mappa (ammesso che lo schema narrativo sia una mappa della narrazione).
Non c'è fretta, non siamo a scuola.
Lo schema offre ordine nel caos. Sapere dove ci troviamo, da dove veniamo e dove andiamo, serve a introiettare i meccanismi della narrazione.
Con lo schema narrativo abbiamo esaurito la prima parte dell'Officina, la più semplice in realtà e forse l'assaggio sul Tempo, che vi invito a leggere, lo dimostra.
Buon divertimento.
Dimenticavo. Ci provo anch'io a scrivere un racconto, poi me lo vendo nelle gare.
Antefatto, Situazione iniziale/equilibrio, Rottura dell'Equilibrio, Peripezie, Climax, Scioglimento/Soluzione/Recupero dell'Equilibrio.
Nel comporre il racconto dovreste anche indicare quale figura dello schema state affrontando (da punto a punto), in modo da avere la percezione esatta del luogo in cui vi trovate sulla mappa (ammesso che lo schema narrativo sia una mappa della narrazione).
Non c'è fretta, non siamo a scuola.
Lo schema offre ordine nel caos. Sapere dove ci troviamo, da dove veniamo e dove andiamo, serve a introiettare i meccanismi della narrazione.
Con lo schema narrativo abbiamo esaurito la prima parte dell'Officina, la più semplice in realtà e forse l'assaggio sul Tempo, che vi invito a leggere, lo dimostra.
Buon divertimento.
Dimenticavo. Ci provo anch'io a scrivere un racconto, poi me lo vendo nelle gare.
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- Macchina da scrivere
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Re: Esercizio numero quattro
Segue racconto sviluppato per l'occasione.
Nota tecnica, il cambio di tempo tra antefatto e situazione iniziale è voluto, si tratta di un esperimento per rafforzare lo stacco. Spero sia efficace.
TITOLO: Lungomare
Antefatto
Il mare aveva sempre significato tutto per lei. Sin da bambina lo osservava, incantata dai riflessi o rapita, all'improvviso, dallo sciabordio incessante mentre correva spensierata sulla spiaggia. Lo sentiva vicino come un padre, quello che lei non aveva mai conosciuto. E sapeva, in cuor suo, che lui doveva essere come quel magico specchio blu: grande e generoso.
Situazione iniziale/Equilibrio
Susy guarda fuori, oltre la vetrata, con gli stessi occhi di allora. Non rimpiange di aver acquistato, nonostante la distanza dalla città, un appartamento sul lungomare. Nessuno potrebbe convincerla del contrario, men che meno ora. Perché non c’è una sola virgola fuori posto in quell’attimo perfetto: lei, il suo tè fumante, il grigio oceano.
Rottura equilibrio
Lo squillo del telefono fende l’aria come una sciabola.
-Ciao mamma … … sì ok, perché ? … … Stai esagerando… … ma no, non c’è niente di diverso nella mia voce… … innamorata? Che sciocca che sei … … forse devi solo abituarti a questa distanza: ho una casa, un lavoro. Non sono più una bambina.
Susy aggancia e torna alla finestra, le parole di sua madre ancora in circolo. Scuote la testa sorridendo, mentre ammira i rabbiosi spruzzi di schiuma levarsi nell'aria con il loro caratteristico fragore: la poesia del mare d'inverno.
- Ciao Susy.
Un rigurgito dal profondo.
- Papi!
Riesce a scorgerlo nel riflesso del vetro, in piedi, immobile alle sue spalle.
- Sono ancora il tuo piccolo, grande segreto?
- Lo sai che non ti tradirei mai.
La voce di lui vibra e la fa vibrare.
- Posso considerarmi un padre fortunato. Non avrei mai voluto abbandonarvi; soprattutto, abbandonare te. Eppure, sin dall’inizio, hai saputo dove trovarmi.
Susy china il capo, persa in uno di quei sorrisi silenziosi che riempiono tutte le cavità del cuore.
- E tu non hai mai smesso di parlarmi. Vieni!
Peripezie
Escono insieme dall’ascensore, lei davanti, lui accanto ma un passo indietro. Luisa, la rigida guardiana dello stabile, sta spazzando le scale.
- Susy, tutto ok?
- Sì, Luisa. Mai stata meglio.
La donna resta ferma, con la scopa ritta e l’aria un po’ sorpresa. I due proseguono indifferenti fino all’uscita in strada.
- Credi mi abbia visto?
- No, papi. In tutti questi anni non è mai successo con nessuno. Credimi: me ne sarei accorta facilmente.
Dopo qualche istante sono sulla spiaggia. Si tolgono le scarpe e proseguono verso la riva, nel freddo pomeriggio già raggiunto dalle ombre della sera. Siedono infine sulla sabbia, di fronte a un mare che non vuole saperne di restare in silenzio. Le onde si alzano imponenti come mai.
Climax/Spannung
- Che bello qui, Susy.
- Sì. È la mia vera casa. Mamma lo ha sempre saputo... soltanto di fronte a questa distesa blu mi sento felice. Vicino a te.
Lui si volta e scruta l’orizzonte. Poi d’improvviso, come colto da un pensiero che viene da lontano, torna su di lei.
- Non ti sei mai torturata alla ricerca di un perché, né hai trasformato la tua vita in un’angoscia insopportabile. Questo mi tocca nel profondo.
Gli occhi di Susy si velano di lacrime.
- La mamma mi ha tanto parlato di te. Ora che sono grande, capisco cosa ho sempre visto nel suo sguardo. Tu lo sai come si chiama, papi.
Lui abbassa gli occhi, commosso.
- Vi avrei dato tutto me stesso, figlia mia. Ma la vita mi ha voltato le spalle, veloce come un battito di ciglia. Quella curva, la pioggia, il guardrail. L’ultimo pensiero che ricordo, prima dell’impatto con l’acqua, è quello della mamma con il pancione.
Susy piange ora. Le sue lacrime somigliano alle onde che bagnano la riva.
Scioglimento/Soluzione
- Sai papi, dopotutto sono serena. Appena ho raggiunto l’età per capire, la mamma mi ha raccontato tutto. È stato triste, sì, ma nel più profondo ho sempre saputo, anche prima di conoscere l’accaduto, che ti avrei trovato qui. Non mi sbagliavo: il mare ti ha tenuto per sé. Ora però bando alla tristezza... oggi è un giorno speciale. Io e te finalmente insieme. Tu ed io insieme, per davvero.
Lui fa per parlare ma Susy gli copre le labbra con una mano, sussurrando:
- La mamma capirà.
Nota tecnica, il cambio di tempo tra antefatto e situazione iniziale è voluto, si tratta di un esperimento per rafforzare lo stacco. Spero sia efficace.
TITOLO: Lungomare
Antefatto
Il mare aveva sempre significato tutto per lei. Sin da bambina lo osservava, incantata dai riflessi o rapita, all'improvviso, dallo sciabordio incessante mentre correva spensierata sulla spiaggia. Lo sentiva vicino come un padre, quello che lei non aveva mai conosciuto. E sapeva, in cuor suo, che lui doveva essere come quel magico specchio blu: grande e generoso.
Situazione iniziale/Equilibrio
Susy guarda fuori, oltre la vetrata, con gli stessi occhi di allora. Non rimpiange di aver acquistato, nonostante la distanza dalla città, un appartamento sul lungomare. Nessuno potrebbe convincerla del contrario, men che meno ora. Perché non c’è una sola virgola fuori posto in quell’attimo perfetto: lei, il suo tè fumante, il grigio oceano.
Rottura equilibrio
Lo squillo del telefono fende l’aria come una sciabola.
-Ciao mamma … … sì ok, perché ? … … Stai esagerando… … ma no, non c’è niente di diverso nella mia voce… … innamorata? Che sciocca che sei … … forse devi solo abituarti a questa distanza: ho una casa, un lavoro. Non sono più una bambina.
Susy aggancia e torna alla finestra, le parole di sua madre ancora in circolo. Scuote la testa sorridendo, mentre ammira i rabbiosi spruzzi di schiuma levarsi nell'aria con il loro caratteristico fragore: la poesia del mare d'inverno.
- Ciao Susy.
Un rigurgito dal profondo.
- Papi!
Riesce a scorgerlo nel riflesso del vetro, in piedi, immobile alle sue spalle.
- Sono ancora il tuo piccolo, grande segreto?
- Lo sai che non ti tradirei mai.
La voce di lui vibra e la fa vibrare.
- Posso considerarmi un padre fortunato. Non avrei mai voluto abbandonarvi; soprattutto, abbandonare te. Eppure, sin dall’inizio, hai saputo dove trovarmi.
Susy china il capo, persa in uno di quei sorrisi silenziosi che riempiono tutte le cavità del cuore.
- E tu non hai mai smesso di parlarmi. Vieni!
Peripezie
Escono insieme dall’ascensore, lei davanti, lui accanto ma un passo indietro. Luisa, la rigida guardiana dello stabile, sta spazzando le scale.
- Susy, tutto ok?
- Sì, Luisa. Mai stata meglio.
La donna resta ferma, con la scopa ritta e l’aria un po’ sorpresa. I due proseguono indifferenti fino all’uscita in strada.
- Credi mi abbia visto?
- No, papi. In tutti questi anni non è mai successo con nessuno. Credimi: me ne sarei accorta facilmente.
Dopo qualche istante sono sulla spiaggia. Si tolgono le scarpe e proseguono verso la riva, nel freddo pomeriggio già raggiunto dalle ombre della sera. Siedono infine sulla sabbia, di fronte a un mare che non vuole saperne di restare in silenzio. Le onde si alzano imponenti come mai.
Climax/Spannung
- Che bello qui, Susy.
- Sì. È la mia vera casa. Mamma lo ha sempre saputo... soltanto di fronte a questa distesa blu mi sento felice. Vicino a te.
Lui si volta e scruta l’orizzonte. Poi d’improvviso, come colto da un pensiero che viene da lontano, torna su di lei.
- Non ti sei mai torturata alla ricerca di un perché, né hai trasformato la tua vita in un’angoscia insopportabile. Questo mi tocca nel profondo.
Gli occhi di Susy si velano di lacrime.
- La mamma mi ha tanto parlato di te. Ora che sono grande, capisco cosa ho sempre visto nel suo sguardo. Tu lo sai come si chiama, papi.
Lui abbassa gli occhi, commosso.
- Vi avrei dato tutto me stesso, figlia mia. Ma la vita mi ha voltato le spalle, veloce come un battito di ciglia. Quella curva, la pioggia, il guardrail. L’ultimo pensiero che ricordo, prima dell’impatto con l’acqua, è quello della mamma con il pancione.
Susy piange ora. Le sue lacrime somigliano alle onde che bagnano la riva.
Scioglimento/Soluzione
- Sai papi, dopotutto sono serena. Appena ho raggiunto l’età per capire, la mamma mi ha raccontato tutto. È stato triste, sì, ma nel più profondo ho sempre saputo, anche prima di conoscere l’accaduto, che ti avrei trovato qui. Non mi sbagliavo: il mare ti ha tenuto per sé. Ora però bando alla tristezza... oggi è un giorno speciale. Io e te finalmente insieme. Tu ed io insieme, per davvero.
Lui fa per parlare ma Susy gli copre le labbra con una mano, sussurrando:
- La mamma capirà.
Ultima modifica di Robennskii il 08/04/2023, 9:14, modificato 4 volte in totale.
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- Macchina da scrivere
- Messaggi: 198
- Iscritto il: 16/12/2022, 16:29
Re: Esercizio numero quattro
Ciao, Roberto.
Sei stato velocissimo, e hai fatto un ottimo lavoro. Il racconto l'hai diviso come volevo. È indicativo anche come, seppur in un racconto breve, sei riuscito a riflettere lo schema proposto con le sei figure.
Significa che è possibile rintracciare questo schema in ogni racconto. E, di conseguenza, costruire racconti con cosapevolezza, seguendo lo schema narrativo.
Il cambio di tempo tra antefatto e situazione iniziale ci sta, ma più che rafforzare lo stacco lo rimarca e mi pare abbia anche la funzione di indurre il lettore a concentrarsi su ciò che è avvenuto prima, che è anche la sequenza introduttiva del racconto.
Ben fatto. Spero che Giovanni e Gabriele seguano, e provo anch'io.
Approfitto per gli auguri di Buona Pasqua.
Sei stato velocissimo, e hai fatto un ottimo lavoro. Il racconto l'hai diviso come volevo. È indicativo anche come, seppur in un racconto breve, sei riuscito a riflettere lo schema proposto con le sei figure.
Significa che è possibile rintracciare questo schema in ogni racconto. E, di conseguenza, costruire racconti con cosapevolezza, seguendo lo schema narrativo.
Il cambio di tempo tra antefatto e situazione iniziale ci sta, ma più che rafforzare lo stacco lo rimarca e mi pare abbia anche la funzione di indurre il lettore a concentrarsi su ciò che è avvenuto prima, che è anche la sequenza introduttiva del racconto.
Ben fatto. Spero che Giovanni e Gabriele seguano, e provo anch'io.
Approfitto per gli auguri di Buona Pasqua.
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- Nuovo arrivato
- Messaggi: 11
- Iscritto il: 01/03/2023, 17:54
Re: Esercizio numero quattro
Auguri anche a voi, appena mi ritaglio uno spazio passate le feste alla prima buona idea per un racconto seguirò sicuramente. Hai scritto un buon racconto Roberto. A presto.
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- Macchina da scrivere
- Messaggi: 165
- Iscritto il: 15/12/2022, 21:05
Re: Esercizio numero quattro
Grazie, auguri anche a te Namio, a Gabriele e a tutti coloro che leggono.
Ora concentriamoci su questi giorni di festa. Che siano sereni e, perché no, forieri di spunti per nuove storie.
Ora concentriamoci su questi giorni di festa. Che siano sereni e, perché no, forieri di spunti per nuove storie.
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- Macchina da scrivere
- Messaggi: 198
- Iscritto il: 16/12/2022, 16:29
Re: Esercizio numero quattro
Sono riuscito a scrivere un racconto nuovo partendo da zero in pochi giorni, per me un vero record.
Ho provato a indicare lo schema narrativo.
Anche in questo racconto sembra aderire allo schema narrativo.
Il dieci dicembre è morto Luigi Pirandello.
A maggio era caduta Addis Abeba, e il nostro amato re aveva coronato il sogno d’esser imperatore, a luglio in Spagna il colpo di stato nazionalista aveva sancito l’inizio della guerra civile, mentre a settembre il congresso di Norimberga s’era pronunciato sulla denuncia del patto di Locarno e la militarizzazione della Renania.
Vedevamo nubi scure, minacciose, addensarsi ovunque, ma semplicemente le ignoravamo, esibivamo ottimismo, nutrivamo una fideistica fiducia nella saggezza del nostro duce.
Ma per me quel 1936 fu l’anno della laurea in medicina, terminato l’internato preparavo gli esami per la specializzazione.
La sera di quel dieci dicembre mi ero rifugiato nella sagrestia della chiesa di San Giuseppe dei Teatini, quel capolavoro rococò quasi invisibile dalla via, poco discosta dal Teatro del Sole, tra via Maqueda e l’antica via Toledo, dove un mio zio fungeva da cappellano maggiore e la sera teneva una sorta di circolo culturale frequentato da preti, per lo più, e da qualche qualificato civile, tra cui il sottoscritto.
Le nostre conversazioni, in quelle infinite serate al termine dell’autunno, spaziavano dall’esegesi delle Sacre Scritture secondo Agostino al rapporto tra immaginazione e deduzione trascendentale delle categorie in Kant, fino a scivolare prosaicamente sulle opportunità offerte all’Italia dalla conquista dell’Impero e, non so perché, anche quella sera, come ogni sera, sarebbe terminata con una feroce critica di mio zio al Concordato del ‘29.
Conversare con preti vecchi di senno e di esperienza mi faceva bene, e alla fine della giornata ottenevo il risultato di riuscire a liberarmi dei miei affanni.
Zio Nené in passato aveva tanto insistito con mio padre perché seguissi la carriera ecclesiastica. Ma era stato netto a proposito: farà ciò che vuole.
E io l’avevo preso alla lettera: da uomo libero, avevo scelto di curare il corpo piuttosto che l’anima.
Eppure a quelle discussioni tra preti, dove proponevo io l’argomento iniziale come lanciando il pallino sul tavolo da bigliardo, sul sesso degli angeli o sulla crescita del petrosino in inverno, sulle figure retoriche o su quelle grammaticali, sulle varie esegesi degli evangeli non riuscivo a sottrarmi. Forse perché in teologia, come in filosofia, alla fine chi ha ragione è convinto di avere torto e viceversa: e al termine di tanta obliquità tutti i salmi finivano in gloria e ognuno se ne tornava a casa sua soddisfatto di aver avuto torto o ragione, perché in fondo sia l’uno sia l’altra immancabilmente coincidono.
(Antefatto)
E io me ne tornavo a casa quella sera, colmo di parole di commiato dei miei preti per la morte del nostro amato Luigi, si può dire uno di noi, tante erano state le volte in cui lo avevamo chiamato in causa, preso ad esempio, anche solo citato. Erano già quasi le dieci, e mi trascinavo dietro quelle discussioni con Monsignor Agrusa, canonico di Santa Maria la Nuova, la Cattedrale di Palermo. E col suo alito, che sapeva di fumo recente e di passito, mi riversava le sue considerazioni sui personaggi in cerca d’autore.
Imboccavamo la Discesa dei Giudici, lasciata la Martorana a destra e Santa Caterina d’Alessandria a sinistra, e scendevamo a passo lento verso il mare, a quella Piazza Marina dove era stata la vecchia Al Halisa araba. Da lì risalivamo per via Partanna e ci infilavamo per la via del Merlo, un angolo silenzioso e buio della vecchia città aristocratica che andava scomparendo.
E sostavamo, una sosta quasi d’obbligo, davanti all’augusto palazzo di un antico Pari del Regno e Grande di Spagna, il principe di Mirto Francantonio Filangeri Lanza.
Il palazzo era un grande parallelogramma, un isolato di ricordi, antiche grazie, perdute glorie, che andavano indietro nel tempo a quell’Angerio, figlio del Duca di Normandia, fondatore del Regno insieme ai due Altavilla.
Quello spiazzo, dinanzi al portone d’ingresso, era illuminato da un lampione, lesto a proiettare la sua tenue luce sino ai balconi del primo piano.
Mi sentivo triste ma forte in quello scorcio di dicembre, in quel mese che in futuro sarebbe stato notato da qualcuno per la morte di Ricardo Reis. Avevo la testa piena di idee, forza, teorie, di letteratura, pittura, di frammenti di Eraclito, della Patetica di Beethoven, di scienza. Ero consapevole delle possibilità della professione medica, e vedevo il mio futuro dietro l’angolo. Percepivo la frenesia che anticipa, prepara, grandi conquiste.
Eppure quell’angolo della mia Palermo mi offriva un senso di rilassamento.
Da mesi mi fermavo lì a quell’ora.
Alzavo gli occhi al balcone del primo piano e lei compariva puntuale per farsi ammirare: giovane e bella, altera, con un abito svolazzante color crema a motivi floreali.
Se ne stava affacciata ogni sera, alla stessa ora, ad aspettare me.
Era alta e flessuosa, i capelli castani, quasi biondi, acconciati con uno chignon basso dietro la nuca, capelli che parevano di seta.
Ci avvicinammo, io e Monsignor Agrusa, proprio sotto al balcone.
Potevo quasi vedere gli occhi di lei risplendere nell’oscurità, quando distrattamente si accendeva una sigaretta.
«Eh, il mio caro dottorino» mi canzonava allora don Agrusa. «Avete il vostro amore che vi attende ogni sera, e voi che fate? Non c’è dubbio» aggiungeva. «Proprio alla stessa ora. Sarebbe il momento di darsi da fare.»
Gli sorridevo imbarazzato, mormoravo delle scuse.
«Ma cosa va pensando, monsignore. Le sue sono solo fantasie. Sarà perché questo dicembre pare ancora settembre.»
«È bella» mormorava lui, quasi estasiato. E mi sembrò, da un momento all’altro, capace di spogliarsi da quella divisa nera e viola. «Davvero una donna splendida, di sicuro è la figlia del principe, o magari la nipote» sospirò, e volle una delle mie sigarette, forse per smettere di pensarci su.
Annuivo, distratto dai seni ricolmi di lei, liberi di esser ammirati dalle inferriate a petto d’oca dei balconi.
Dopo aver lasciato monsignore, davanti la Congregazione della Fede nei pressi di Santa Teresa alla Kalsa, sentivo gli occhi della mia dama seguirmi, li sentivo sulla pelle, nella mia carne e più tardi, sapevo, li avrei rivisti nei miei sogni.
Eppure non sapevo nulla di lei, se non dove abitasse, e mi ero astenuto dal chiedere in giro, dall’informarmi, quasi che sapere fosse l’unico modo per spezzare l’incanto, e nelle mie fantasie la paragonavo a una madonna fiorentina del Trecento intenta a suonare il salterio per il suo amore, un giovane come me, l’unico autorizzato a sospirare per lei.
(Situazione Iniziale / Equilibrio)
Le sere seguenti, alla fine delle nostre discussioni, non vedevo l’ora di poterla rivedere, anche solo per qualche istante, a distanza, affacciata a quell’augusto balcone.
Dicembre stava per terminare, passato il Santo Natale io e monsignore intraprendevamo la solita passeggiata serale. L’aria era tersa e fredda e al balcone, per la prima volta da settimane, lei non si fece trovare.
Rimasi deluso, quasi fosse un tradimento.
«Andiamo, dottore» mi disse il mio monsignore accondiscendente. «Ogni bel gioco...»
Gli diedi ragione, tra me e me, era quasi una liberazione. Stavamo per riprendere il nostro cammino verso casa quando udimmo le note di un pianoforte provenire da una delle finestre aperte sul balcone.
Riconobbi subito il terzo movimento della Suite Bergamasque di Debussy, il Clair de Lune.
Le note parevano brillare nell’oscurità, all’inizio un pianissimo in un'atmosfera evanescente, passando poi a un tempo rubato dove la melodia si animava crescendo poco a poco; ascoltammo la musica divenire più mossa e, con gli arpeggi di semicrome, giungere a un registro acuto passando, con modalità più intense, a una tonalità di Do diesis minore.
Restammo muti, in silenzio ad ascoltare, e mi si inumidirono gli occhi. Dalla finestra aperta cominciai a distinguere un debole bagliore, come di lume.
Ascoltammo in religioso silenzio riprendere il motivo iniziale, con leggeri arpeggi, in un pianissimo che andava morendo fino alla conclusione finale.
«Abbiamo toccato il cuore pulsante della vita» mi venne da dire, cogli occhi al cielo, quasi in un mormorio.
La risposta che non mi aspettavo fu: «È vero, siamo alle sorgenti della bellezza e del creato» aggiunse il mio monsignore turbato e lo sguardo a terra, come se aspettasse una zampata del demonio aggredirlo dalle profondità.
Non appena la musica cessò lei comparve, bella come non l’avevo vista mai.
Una bellezza impaziente, c’era in lei come un desiderio, una voluttà che non mi sapevo spiegare. Il suo sguardo inquieto passava da noi all’orizzonte stellato, come se non fossimo il soggetto della sua attenzione, come se lei aspettasse qualcun altro provenire da un punto sperduto al di là da cielo.
Il mattino dopo era l’ultimo giorno dell’anno. Mi svegliai con calma, feci colazione, mia madre e le mie sorelle già indaffarate con i preparativi del cenone di fine anno. Non seppi resistere e mi avviai da casa, dalle parti di via Perez, verso il centro.
(Rottura dell’Equilibrio)
Mi accompagnava Margherita, la mia bastardina selvatica ma affettuosa. Da via Oreto giunsi a piazza Giulio Cesare e da lì imboccai la via Roma verso la città antica.
Deviai per la via di Sant’Anna, dove si apriva la piazza con la splendida chiesa barocca e, quasi di fianco, il Palazzo Bonnet austero di fronte all’immenso barocco della Gancia. Non so perché, invece di procedere per via dell’Alloro, deviai per via Lungarini, che mi avrebbe portato di fianco a Palazzo Mirto.
A circa una cinquantina di metri dalla mia meta Margherita si fermò e iniziò a ringhiare.
La richiamai all’ordine, provai a calmarla con le carezze, ma per poco non mi azzannò la mano pietosa e imprudente.
«Che hai Margherita? Non c’è proprio nessuno qui. Si può sapere cosa ti prende?» La rimproverai.
Ed ecco, alle nostre spalle, comparire lei, vestita, mi parve, come l’avevo vista la sera prima.
A tu per tu riuscivo per la prima volta a indovinare il colore degli occhi, non castani ma scuri quasi a sembrare viola e a far da contrasto con i capelli chiarissimi e l’incarnato pallido.
Mi sorrise, e il suo mi parve il più celestiale degli inviti.
«Finalmente vi vedo» provai a dire, e mi accorsi di aver adoperato un modo di dire sgangherato e inappropriato.
Continuò a sorridere e mi parse di sentire il suo respiro profumato carezzarmi il viso.
Esistevano ancora le dee, mi domandai. Era candida come la neve, ma dai suoi occhi scintillavano fiamme.
Mi prese sottobraccio e mi propose: «Passeggiamo?»
Non ebbi il coraggio di rispondere, ma mi avviai quasi tremante con l’ardire di porgerle il braccio.
La sua voce sembrava avere le medesime tonalità delle note del Chiaro di Luna.
«L’ho ascoltata suonare iersera. Eravate voi» provai a dire, per rompere il ghiaccio.
«È bello vedervi. Eravate nella mia mente stamattina, ed eccovi qua. Non vi pare una strana coincidenza?» Mi disse-
«Anch’io vi pensavo. Per questo sono venuto sin qui. Forse il mio desiderio ha aiutato la fortuna.»
Non rispose nulla ma sorrise ancora. E il suo mi parve il sorriso più delizioso del mondo.
Aveva un cappottino soffice, ma col bavero rialzato. Ogni tanto si voltava verso di me e rideva.
E io, confuso, non capivo se ridesse di me o per la gioia di rivedermi.
«I vostri occhi sono magnifici» le dissi a un tratto, che il coraggio s’era fatto più spesso. «Sembrano delle ametiste. Non ho mai visto occhi più belli» rivelai imbarazzato.
«Vi credo» disse seria. E quella serietà mi tranquillizzò. «Voi mi ricordate tanto una persona.»
«Una persona cara, spero.»
Si fece improvvisamente triste e silenziosa.
«Come vi chiamate?» Provai a recuperare il tono gioviale di prima.
«Non importa. Facciamo così: per voi sarò la dama dagli occhi viola. Che ne dite?»
Arrossii, mi sentii contento, e per un po’ mi venne a mancare il respiro, quasi da credere di poter morire soffocato.
Riprendevo a porle domande, ma più aumentava la sua reticenza più si alimentava la mia curiosità e la mia passione.
Percorrevamo Piazza Marina dalla parte dello Steri e ci trovammo sul corso. Mi condusse per via Partanna fino al prospetto principale di Palazzo Mirto.
Capii.
«Deve proprio abbandonarmi?» Era un’implorazione.
«E allora venite con me» disse, seria come mai fino ad allora era stata.
Sollevò il batacchio per colpire il mascherone del portone d’ingresso.
La porta si aprì come d’incanto, ma entrando non mi accorsi di nessun portiere.
Ci trovammo nella grande corte interna. Il palazzo dal di dentro pareva ancora più maestoso che dal di fuori.
Tremavo di piacere, di stupore, di paura, di felicità, di ansia.
Mi sentivo smarrito.
Fino a quel momento Margherita ci aveva seguiti a distanza. Ma ora, dentro il palazzo, si era avvicinata a me e aveva ripreso a ringhiare, vidi il suo pelo color crema drizzarsi.
«Stai calma, Margherita» provai di nuovo a tranquillizzarla.
«Potete lasciarla qua, non tema per lei» propose la mia dama dagli occhi viola.
«E fissate il guinzaglio a quell’occhiello, se volete.»
Obbedii e poi la seguii lungo la grandiosa scala a forbice splendida nei suoi marmi rosati.
Percepivo il suo profumo, ma non riuscivo a distinguerne le fragranze, non avevo mai sentito prima d’allora un profumo tanto intenso e paradisiaco da darmi l’impressione di provenire da mondi sconosciuti e lontani, un’essenza di boschi perduti, cieli stellati, brividi notturni.
Mi invitò a entrare in una stanza. Era quella, credetti, da cui ogni sera l’avevo vista affacciarsi. In un angolo v’era un gigantesco Fazioli a coda, quello da cui l’avevo ascoltata suonare la sera prima, immaginai.
Era aperto, si poteva intravedere la sua meravigliosa meccanica, il gioco delle corde già ascoltate vibrare, la cassa armonica ben sviluppata, i martelletti colorati di rosso percossi coi tasti dalle lunghe dita di lei.
Ma era l’intera stanza ad essere strabiliante. Sedie dagli alti schienali, consolles, secretaires, specchi, armadi civettuoli, boiserie, seta finissima decorata alle pareti insieme a opere del Tintoretto, di Tiziano, del Parmigianino, in un trionfo di ameni panorami e di madonne soavi.
«Il vostro mondo è un incanto, una favola» le dissi. «Quello è un Bronzino» domandai stupito.
Lei annuì. «È una favola incantata» mi corresse. «Volete che vi suoni qualcosa?»
«Volentieri» ammisi.
E suonò per me i Notturni di Chopin, dall’undicesimo al quattordicesimo, appassionatamente, disperatamente.
Ero commosso, senza parole, senza fiato, non potevo credere stesse succedendo proprio a me.
Le sue dita scivolavano sui tasti incorporee, eppure mi pareva di poter sentire il suo battito, le sue risonanze, percepivo lo spessore dei suoni come se questi propagassero riflessi argentei sull’acqua, poi su monti, poi in cielo, per finire sulla Luna, fino alle stelle.
«Volete darmi un bacio?» Mi disse alla fine.
Mi avvicinai a lei tremante e poggiai le mie labbra sulle sue, senza fretta, lasciando una traccia nell’aria.
Lei mi prese la testa tra le mani e mi baciò avida, a lungo, con forza, con disperazione.
«Tu mi farai impazzire» disse alla fine. «Adesso vai» mi comunicò impaziente, come se si fosse spinta oltre.
Mi avviai verso l’uscita. Nel cortile ripresi Margherita, che pareva essersi calmata.
«Non ci vedremo mai più» mi disse quando fui fuori dal portone.
(Peripezie)
E il mondo sembrò crollarmi addosso, ogni felicità preclusa per sempre.
Ma il mondo non crollò, solo lentamente andò in frantumi.
Conclusi i miei studi, trovai un posto in ospedale, a Catania, abbastanza lontano da dimenticare la mia principessa, la mia dama dagli occhi viola.
Nel 1940 ricevetti la cartolina di precetto, e mi mandarono al fronte, in Africa, come ufficiale medico.
Non ci volle molto a veder sgretolare la nostra fede sotto le bombe degli aerei nemici.
Venni ferito, persi un occhio, catturato dagli inglesi a Tobruk e spedito in uno dei loro campi di prigionia in India.
Tornai a Palermo solo nel dicembre del 1945.
L’antica città aristocratica non esisteva più, era stata squassata dai bombardamenti del maggio-giungo 1943. Quasi tutti i palazzi nobili erano stati distrutti o gravemente danneggiati, ovunque mi voltassi v’erano cumuli di macerie e gente lacera che si vendeva per un tozzo di pane.
Seppi di Monsignor Agrusa, morto il nove maggio del 1943, nel collasso della sacrestia di San Giuseppe dei Teatini, insieme ad altri nove confratelli e a una quarantina di sfollati.
«Quattromila morti in sole tre ore di bombardamenti» mi disse un collega medico, abbastanza anziano da non essere arruolato. «Ci avresti mai potuto credere? Palermo non esiste più.»
Avevo perso anche i miei genitori e le mie sorelle minori nel crollo del rifugio antiaereo di via Oreto. E io, da quel momento, non avevo creduto più a niente e non ero mai riuscito a piangere neanche la loro morte.
La vita esige d’esser vissuta, mi ripetevo.
C’era fame di medici, anche mezzi orbi come me, presi posto all’ospedale civico e fu lì, dopo qualche settimana, che incontrai un paziente affetto da una serie di patologie tali da richiedere l’attenzione della mia specializzazione.
Stavo provando a tirarmi su, come tutti.
(Climax)
Si chiamava Bernabò Camastra, mastro Bernabò, lo chiamavano tutti in corsia.
Era vecchio, vecchissimo, sfuggito ai bombardamenti per essersi rifugiato a tempo debito in campagna, e, appresi dalla sua voce, era stato Maestro di Casa di Palazzo Mirto.
Mi informò delle vicissitudini del vecchio Filangeri, morto nel ‘41 senza eredi, né vicini né lontani, e come tutto il patrimonio sarebbe dovuto passare allo Stato.
«Ma che fine ha fatto sua figlia, la principessa?» Gli domandai un giorno, alla fine della visita mattutina.
Mastro Bernabò mi osservò stralunato.
«Lei la conosceva, dottore?»
«Sì, l’ho conosciuta brevemente, prima della guerra, subito dopo essermi laureato. Aveva quella magnifica stanza quasi all’angolo con la via del Merlo. Quella col pianoforte a coda. L’ho sentita suonare più volte, un vero angelo.»
«Era bellissima, la principessa» mi confidò mastro Bernabò. «D’una bellezza quasi angelica. Ed era un’ottima pianista. E quella, ricordate bene, era proprio la sua stanza.»
«Cosa le è successo?»
«Oh, è morta. Morta di dolore per il suo grande amore morto in guerra. Era il principe Stefano Lanza di Branciforte. Erano fidanzati e dovevano sposarsi.»
«Oh, mi spiace. Sono desolato davvero. Questa guerra ha seminato solo lutti e distruzione» dissi rammaricato.
Il vecchio Maestro di Casa, dubbioso, iniziò a scrutarmi il viso.
«Però, mi dovete scusare, dottore. Vossìa non pare così grande. Ma lei, quando si è laureato?»
«Nel 1936, a settembre.»
«Nel 1936? Ma io parlavo dell’altra guerra. La principessa è morta di mal d’amore nel 1920. Da allora il principe suo padre ha tenuto la sua stanza sempre chiusa.»
Rabbrividii, mi venne la pelle d’oca. E non seppi cosa rispondergli.
«Mi sarò sbagliato» provai a scusarmi. «Magari la ragazza che ho incontrato io era una nipote. O solo un’ospite del principe.»
Il vecchio mi sorrise. «Non aveva nipoti, né ha ospitato mai nessuno a palazzo dopo la morte della figlia. Era il Clair de Lune, vero?»
Annuii, incerto.
«La sentivo anch’io alle volte, quella melodia, provenire da quelle stanze. E lo raccontavo al principe suo padre. Ma non volle mai darmi retta» si guardò intorno furtivamente, come se temesse di essere sentito. «Suonava per lei, vero?»
Ci riflettei qualche attimo. «Suonava per me» ammisi.
(Scioglimento)
E finalmente ritrovai tutte le lacrime che la guerra m’aveva strappato.
(Ricomposizione dell’Equilibrio)
Ho provato a indicare lo schema narrativo.
Anche in questo racconto sembra aderire allo schema narrativo.
Il dieci dicembre è morto Luigi Pirandello.
A maggio era caduta Addis Abeba, e il nostro amato re aveva coronato il sogno d’esser imperatore, a luglio in Spagna il colpo di stato nazionalista aveva sancito l’inizio della guerra civile, mentre a settembre il congresso di Norimberga s’era pronunciato sulla denuncia del patto di Locarno e la militarizzazione della Renania.
Vedevamo nubi scure, minacciose, addensarsi ovunque, ma semplicemente le ignoravamo, esibivamo ottimismo, nutrivamo una fideistica fiducia nella saggezza del nostro duce.
Ma per me quel 1936 fu l’anno della laurea in medicina, terminato l’internato preparavo gli esami per la specializzazione.
La sera di quel dieci dicembre mi ero rifugiato nella sagrestia della chiesa di San Giuseppe dei Teatini, quel capolavoro rococò quasi invisibile dalla via, poco discosta dal Teatro del Sole, tra via Maqueda e l’antica via Toledo, dove un mio zio fungeva da cappellano maggiore e la sera teneva una sorta di circolo culturale frequentato da preti, per lo più, e da qualche qualificato civile, tra cui il sottoscritto.
Le nostre conversazioni, in quelle infinite serate al termine dell’autunno, spaziavano dall’esegesi delle Sacre Scritture secondo Agostino al rapporto tra immaginazione e deduzione trascendentale delle categorie in Kant, fino a scivolare prosaicamente sulle opportunità offerte all’Italia dalla conquista dell’Impero e, non so perché, anche quella sera, come ogni sera, sarebbe terminata con una feroce critica di mio zio al Concordato del ‘29.
Conversare con preti vecchi di senno e di esperienza mi faceva bene, e alla fine della giornata ottenevo il risultato di riuscire a liberarmi dei miei affanni.
Zio Nené in passato aveva tanto insistito con mio padre perché seguissi la carriera ecclesiastica. Ma era stato netto a proposito: farà ciò che vuole.
E io l’avevo preso alla lettera: da uomo libero, avevo scelto di curare il corpo piuttosto che l’anima.
Eppure a quelle discussioni tra preti, dove proponevo io l’argomento iniziale come lanciando il pallino sul tavolo da bigliardo, sul sesso degli angeli o sulla crescita del petrosino in inverno, sulle figure retoriche o su quelle grammaticali, sulle varie esegesi degli evangeli non riuscivo a sottrarmi. Forse perché in teologia, come in filosofia, alla fine chi ha ragione è convinto di avere torto e viceversa: e al termine di tanta obliquità tutti i salmi finivano in gloria e ognuno se ne tornava a casa sua soddisfatto di aver avuto torto o ragione, perché in fondo sia l’uno sia l’altra immancabilmente coincidono.
(Antefatto)
E io me ne tornavo a casa quella sera, colmo di parole di commiato dei miei preti per la morte del nostro amato Luigi, si può dire uno di noi, tante erano state le volte in cui lo avevamo chiamato in causa, preso ad esempio, anche solo citato. Erano già quasi le dieci, e mi trascinavo dietro quelle discussioni con Monsignor Agrusa, canonico di Santa Maria la Nuova, la Cattedrale di Palermo. E col suo alito, che sapeva di fumo recente e di passito, mi riversava le sue considerazioni sui personaggi in cerca d’autore.
Imboccavamo la Discesa dei Giudici, lasciata la Martorana a destra e Santa Caterina d’Alessandria a sinistra, e scendevamo a passo lento verso il mare, a quella Piazza Marina dove era stata la vecchia Al Halisa araba. Da lì risalivamo per via Partanna e ci infilavamo per la via del Merlo, un angolo silenzioso e buio della vecchia città aristocratica che andava scomparendo.
E sostavamo, una sosta quasi d’obbligo, davanti all’augusto palazzo di un antico Pari del Regno e Grande di Spagna, il principe di Mirto Francantonio Filangeri Lanza.
Il palazzo era un grande parallelogramma, un isolato di ricordi, antiche grazie, perdute glorie, che andavano indietro nel tempo a quell’Angerio, figlio del Duca di Normandia, fondatore del Regno insieme ai due Altavilla.
Quello spiazzo, dinanzi al portone d’ingresso, era illuminato da un lampione, lesto a proiettare la sua tenue luce sino ai balconi del primo piano.
Mi sentivo triste ma forte in quello scorcio di dicembre, in quel mese che in futuro sarebbe stato notato da qualcuno per la morte di Ricardo Reis. Avevo la testa piena di idee, forza, teorie, di letteratura, pittura, di frammenti di Eraclito, della Patetica di Beethoven, di scienza. Ero consapevole delle possibilità della professione medica, e vedevo il mio futuro dietro l’angolo. Percepivo la frenesia che anticipa, prepara, grandi conquiste.
Eppure quell’angolo della mia Palermo mi offriva un senso di rilassamento.
Da mesi mi fermavo lì a quell’ora.
Alzavo gli occhi al balcone del primo piano e lei compariva puntuale per farsi ammirare: giovane e bella, altera, con un abito svolazzante color crema a motivi floreali.
Se ne stava affacciata ogni sera, alla stessa ora, ad aspettare me.
Era alta e flessuosa, i capelli castani, quasi biondi, acconciati con uno chignon basso dietro la nuca, capelli che parevano di seta.
Ci avvicinammo, io e Monsignor Agrusa, proprio sotto al balcone.
Potevo quasi vedere gli occhi di lei risplendere nell’oscurità, quando distrattamente si accendeva una sigaretta.
«Eh, il mio caro dottorino» mi canzonava allora don Agrusa. «Avete il vostro amore che vi attende ogni sera, e voi che fate? Non c’è dubbio» aggiungeva. «Proprio alla stessa ora. Sarebbe il momento di darsi da fare.»
Gli sorridevo imbarazzato, mormoravo delle scuse.
«Ma cosa va pensando, monsignore. Le sue sono solo fantasie. Sarà perché questo dicembre pare ancora settembre.»
«È bella» mormorava lui, quasi estasiato. E mi sembrò, da un momento all’altro, capace di spogliarsi da quella divisa nera e viola. «Davvero una donna splendida, di sicuro è la figlia del principe, o magari la nipote» sospirò, e volle una delle mie sigarette, forse per smettere di pensarci su.
Annuivo, distratto dai seni ricolmi di lei, liberi di esser ammirati dalle inferriate a petto d’oca dei balconi.
Dopo aver lasciato monsignore, davanti la Congregazione della Fede nei pressi di Santa Teresa alla Kalsa, sentivo gli occhi della mia dama seguirmi, li sentivo sulla pelle, nella mia carne e più tardi, sapevo, li avrei rivisti nei miei sogni.
Eppure non sapevo nulla di lei, se non dove abitasse, e mi ero astenuto dal chiedere in giro, dall’informarmi, quasi che sapere fosse l’unico modo per spezzare l’incanto, e nelle mie fantasie la paragonavo a una madonna fiorentina del Trecento intenta a suonare il salterio per il suo amore, un giovane come me, l’unico autorizzato a sospirare per lei.
(Situazione Iniziale / Equilibrio)
Le sere seguenti, alla fine delle nostre discussioni, non vedevo l’ora di poterla rivedere, anche solo per qualche istante, a distanza, affacciata a quell’augusto balcone.
Dicembre stava per terminare, passato il Santo Natale io e monsignore intraprendevamo la solita passeggiata serale. L’aria era tersa e fredda e al balcone, per la prima volta da settimane, lei non si fece trovare.
Rimasi deluso, quasi fosse un tradimento.
«Andiamo, dottore» mi disse il mio monsignore accondiscendente. «Ogni bel gioco...»
Gli diedi ragione, tra me e me, era quasi una liberazione. Stavamo per riprendere il nostro cammino verso casa quando udimmo le note di un pianoforte provenire da una delle finestre aperte sul balcone.
Riconobbi subito il terzo movimento della Suite Bergamasque di Debussy, il Clair de Lune.
Le note parevano brillare nell’oscurità, all’inizio un pianissimo in un'atmosfera evanescente, passando poi a un tempo rubato dove la melodia si animava crescendo poco a poco; ascoltammo la musica divenire più mossa e, con gli arpeggi di semicrome, giungere a un registro acuto passando, con modalità più intense, a una tonalità di Do diesis minore.
Restammo muti, in silenzio ad ascoltare, e mi si inumidirono gli occhi. Dalla finestra aperta cominciai a distinguere un debole bagliore, come di lume.
Ascoltammo in religioso silenzio riprendere il motivo iniziale, con leggeri arpeggi, in un pianissimo che andava morendo fino alla conclusione finale.
«Abbiamo toccato il cuore pulsante della vita» mi venne da dire, cogli occhi al cielo, quasi in un mormorio.
La risposta che non mi aspettavo fu: «È vero, siamo alle sorgenti della bellezza e del creato» aggiunse il mio monsignore turbato e lo sguardo a terra, come se aspettasse una zampata del demonio aggredirlo dalle profondità.
Non appena la musica cessò lei comparve, bella come non l’avevo vista mai.
Una bellezza impaziente, c’era in lei come un desiderio, una voluttà che non mi sapevo spiegare. Il suo sguardo inquieto passava da noi all’orizzonte stellato, come se non fossimo il soggetto della sua attenzione, come se lei aspettasse qualcun altro provenire da un punto sperduto al di là da cielo.
Il mattino dopo era l’ultimo giorno dell’anno. Mi svegliai con calma, feci colazione, mia madre e le mie sorelle già indaffarate con i preparativi del cenone di fine anno. Non seppi resistere e mi avviai da casa, dalle parti di via Perez, verso il centro.
(Rottura dell’Equilibrio)
Mi accompagnava Margherita, la mia bastardina selvatica ma affettuosa. Da via Oreto giunsi a piazza Giulio Cesare e da lì imboccai la via Roma verso la città antica.
Deviai per la via di Sant’Anna, dove si apriva la piazza con la splendida chiesa barocca e, quasi di fianco, il Palazzo Bonnet austero di fronte all’immenso barocco della Gancia. Non so perché, invece di procedere per via dell’Alloro, deviai per via Lungarini, che mi avrebbe portato di fianco a Palazzo Mirto.
A circa una cinquantina di metri dalla mia meta Margherita si fermò e iniziò a ringhiare.
La richiamai all’ordine, provai a calmarla con le carezze, ma per poco non mi azzannò la mano pietosa e imprudente.
«Che hai Margherita? Non c’è proprio nessuno qui. Si può sapere cosa ti prende?» La rimproverai.
Ed ecco, alle nostre spalle, comparire lei, vestita, mi parve, come l’avevo vista la sera prima.
A tu per tu riuscivo per la prima volta a indovinare il colore degli occhi, non castani ma scuri quasi a sembrare viola e a far da contrasto con i capelli chiarissimi e l’incarnato pallido.
Mi sorrise, e il suo mi parve il più celestiale degli inviti.
«Finalmente vi vedo» provai a dire, e mi accorsi di aver adoperato un modo di dire sgangherato e inappropriato.
Continuò a sorridere e mi parse di sentire il suo respiro profumato carezzarmi il viso.
Esistevano ancora le dee, mi domandai. Era candida come la neve, ma dai suoi occhi scintillavano fiamme.
Mi prese sottobraccio e mi propose: «Passeggiamo?»
Non ebbi il coraggio di rispondere, ma mi avviai quasi tremante con l’ardire di porgerle il braccio.
La sua voce sembrava avere le medesime tonalità delle note del Chiaro di Luna.
«L’ho ascoltata suonare iersera. Eravate voi» provai a dire, per rompere il ghiaccio.
«È bello vedervi. Eravate nella mia mente stamattina, ed eccovi qua. Non vi pare una strana coincidenza?» Mi disse-
«Anch’io vi pensavo. Per questo sono venuto sin qui. Forse il mio desiderio ha aiutato la fortuna.»
Non rispose nulla ma sorrise ancora. E il suo mi parve il sorriso più delizioso del mondo.
Aveva un cappottino soffice, ma col bavero rialzato. Ogni tanto si voltava verso di me e rideva.
E io, confuso, non capivo se ridesse di me o per la gioia di rivedermi.
«I vostri occhi sono magnifici» le dissi a un tratto, che il coraggio s’era fatto più spesso. «Sembrano delle ametiste. Non ho mai visto occhi più belli» rivelai imbarazzato.
«Vi credo» disse seria. E quella serietà mi tranquillizzò. «Voi mi ricordate tanto una persona.»
«Una persona cara, spero.»
Si fece improvvisamente triste e silenziosa.
«Come vi chiamate?» Provai a recuperare il tono gioviale di prima.
«Non importa. Facciamo così: per voi sarò la dama dagli occhi viola. Che ne dite?»
Arrossii, mi sentii contento, e per un po’ mi venne a mancare il respiro, quasi da credere di poter morire soffocato.
Riprendevo a porle domande, ma più aumentava la sua reticenza più si alimentava la mia curiosità e la mia passione.
Percorrevamo Piazza Marina dalla parte dello Steri e ci trovammo sul corso. Mi condusse per via Partanna fino al prospetto principale di Palazzo Mirto.
Capii.
«Deve proprio abbandonarmi?» Era un’implorazione.
«E allora venite con me» disse, seria come mai fino ad allora era stata.
Sollevò il batacchio per colpire il mascherone del portone d’ingresso.
La porta si aprì come d’incanto, ma entrando non mi accorsi di nessun portiere.
Ci trovammo nella grande corte interna. Il palazzo dal di dentro pareva ancora più maestoso che dal di fuori.
Tremavo di piacere, di stupore, di paura, di felicità, di ansia.
Mi sentivo smarrito.
Fino a quel momento Margherita ci aveva seguiti a distanza. Ma ora, dentro il palazzo, si era avvicinata a me e aveva ripreso a ringhiare, vidi il suo pelo color crema drizzarsi.
«Stai calma, Margherita» provai di nuovo a tranquillizzarla.
«Potete lasciarla qua, non tema per lei» propose la mia dama dagli occhi viola.
«E fissate il guinzaglio a quell’occhiello, se volete.»
Obbedii e poi la seguii lungo la grandiosa scala a forbice splendida nei suoi marmi rosati.
Percepivo il suo profumo, ma non riuscivo a distinguerne le fragranze, non avevo mai sentito prima d’allora un profumo tanto intenso e paradisiaco da darmi l’impressione di provenire da mondi sconosciuti e lontani, un’essenza di boschi perduti, cieli stellati, brividi notturni.
Mi invitò a entrare in una stanza. Era quella, credetti, da cui ogni sera l’avevo vista affacciarsi. In un angolo v’era un gigantesco Fazioli a coda, quello da cui l’avevo ascoltata suonare la sera prima, immaginai.
Era aperto, si poteva intravedere la sua meravigliosa meccanica, il gioco delle corde già ascoltate vibrare, la cassa armonica ben sviluppata, i martelletti colorati di rosso percossi coi tasti dalle lunghe dita di lei.
Ma era l’intera stanza ad essere strabiliante. Sedie dagli alti schienali, consolles, secretaires, specchi, armadi civettuoli, boiserie, seta finissima decorata alle pareti insieme a opere del Tintoretto, di Tiziano, del Parmigianino, in un trionfo di ameni panorami e di madonne soavi.
«Il vostro mondo è un incanto, una favola» le dissi. «Quello è un Bronzino» domandai stupito.
Lei annuì. «È una favola incantata» mi corresse. «Volete che vi suoni qualcosa?»
«Volentieri» ammisi.
E suonò per me i Notturni di Chopin, dall’undicesimo al quattordicesimo, appassionatamente, disperatamente.
Ero commosso, senza parole, senza fiato, non potevo credere stesse succedendo proprio a me.
Le sue dita scivolavano sui tasti incorporee, eppure mi pareva di poter sentire il suo battito, le sue risonanze, percepivo lo spessore dei suoni come se questi propagassero riflessi argentei sull’acqua, poi su monti, poi in cielo, per finire sulla Luna, fino alle stelle.
«Volete darmi un bacio?» Mi disse alla fine.
Mi avvicinai a lei tremante e poggiai le mie labbra sulle sue, senza fretta, lasciando una traccia nell’aria.
Lei mi prese la testa tra le mani e mi baciò avida, a lungo, con forza, con disperazione.
«Tu mi farai impazzire» disse alla fine. «Adesso vai» mi comunicò impaziente, come se si fosse spinta oltre.
Mi avviai verso l’uscita. Nel cortile ripresi Margherita, che pareva essersi calmata.
«Non ci vedremo mai più» mi disse quando fui fuori dal portone.
(Peripezie)
E il mondo sembrò crollarmi addosso, ogni felicità preclusa per sempre.
Ma il mondo non crollò, solo lentamente andò in frantumi.
Conclusi i miei studi, trovai un posto in ospedale, a Catania, abbastanza lontano da dimenticare la mia principessa, la mia dama dagli occhi viola.
Nel 1940 ricevetti la cartolina di precetto, e mi mandarono al fronte, in Africa, come ufficiale medico.
Non ci volle molto a veder sgretolare la nostra fede sotto le bombe degli aerei nemici.
Venni ferito, persi un occhio, catturato dagli inglesi a Tobruk e spedito in uno dei loro campi di prigionia in India.
Tornai a Palermo solo nel dicembre del 1945.
L’antica città aristocratica non esisteva più, era stata squassata dai bombardamenti del maggio-giungo 1943. Quasi tutti i palazzi nobili erano stati distrutti o gravemente danneggiati, ovunque mi voltassi v’erano cumuli di macerie e gente lacera che si vendeva per un tozzo di pane.
Seppi di Monsignor Agrusa, morto il nove maggio del 1943, nel collasso della sacrestia di San Giuseppe dei Teatini, insieme ad altri nove confratelli e a una quarantina di sfollati.
«Quattromila morti in sole tre ore di bombardamenti» mi disse un collega medico, abbastanza anziano da non essere arruolato. «Ci avresti mai potuto credere? Palermo non esiste più.»
Avevo perso anche i miei genitori e le mie sorelle minori nel crollo del rifugio antiaereo di via Oreto. E io, da quel momento, non avevo creduto più a niente e non ero mai riuscito a piangere neanche la loro morte.
La vita esige d’esser vissuta, mi ripetevo.
C’era fame di medici, anche mezzi orbi come me, presi posto all’ospedale civico e fu lì, dopo qualche settimana, che incontrai un paziente affetto da una serie di patologie tali da richiedere l’attenzione della mia specializzazione.
Stavo provando a tirarmi su, come tutti.
(Climax)
Si chiamava Bernabò Camastra, mastro Bernabò, lo chiamavano tutti in corsia.
Era vecchio, vecchissimo, sfuggito ai bombardamenti per essersi rifugiato a tempo debito in campagna, e, appresi dalla sua voce, era stato Maestro di Casa di Palazzo Mirto.
Mi informò delle vicissitudini del vecchio Filangeri, morto nel ‘41 senza eredi, né vicini né lontani, e come tutto il patrimonio sarebbe dovuto passare allo Stato.
«Ma che fine ha fatto sua figlia, la principessa?» Gli domandai un giorno, alla fine della visita mattutina.
Mastro Bernabò mi osservò stralunato.
«Lei la conosceva, dottore?»
«Sì, l’ho conosciuta brevemente, prima della guerra, subito dopo essermi laureato. Aveva quella magnifica stanza quasi all’angolo con la via del Merlo. Quella col pianoforte a coda. L’ho sentita suonare più volte, un vero angelo.»
«Era bellissima, la principessa» mi confidò mastro Bernabò. «D’una bellezza quasi angelica. Ed era un’ottima pianista. E quella, ricordate bene, era proprio la sua stanza.»
«Cosa le è successo?»
«Oh, è morta. Morta di dolore per il suo grande amore morto in guerra. Era il principe Stefano Lanza di Branciforte. Erano fidanzati e dovevano sposarsi.»
«Oh, mi spiace. Sono desolato davvero. Questa guerra ha seminato solo lutti e distruzione» dissi rammaricato.
Il vecchio Maestro di Casa, dubbioso, iniziò a scrutarmi il viso.
«Però, mi dovete scusare, dottore. Vossìa non pare così grande. Ma lei, quando si è laureato?»
«Nel 1936, a settembre.»
«Nel 1936? Ma io parlavo dell’altra guerra. La principessa è morta di mal d’amore nel 1920. Da allora il principe suo padre ha tenuto la sua stanza sempre chiusa.»
Rabbrividii, mi venne la pelle d’oca. E non seppi cosa rispondergli.
«Mi sarò sbagliato» provai a scusarmi. «Magari la ragazza che ho incontrato io era una nipote. O solo un’ospite del principe.»
Il vecchio mi sorrise. «Non aveva nipoti, né ha ospitato mai nessuno a palazzo dopo la morte della figlia. Era il Clair de Lune, vero?»
Annuii, incerto.
«La sentivo anch’io alle volte, quella melodia, provenire da quelle stanze. E lo raccontavo al principe suo padre. Ma non volle mai darmi retta» si guardò intorno furtivamente, come se temesse di essere sentito. «Suonava per lei, vero?»
Ci riflettei qualche attimo. «Suonava per me» ammisi.
(Scioglimento)
E finalmente ritrovai tutte le lacrime che la guerra m’aveva strappato.
(Ricomposizione dell’Equilibrio)
Ultima modifica di Gaetano Intile il 16/04/2023, 10:19, modificato 2 volte in totale.
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- Macchina da scrivere
- Messaggi: 198
- Iscritto il: 16/12/2022, 16:29
Re: Esercizio numero quattro
Facciamo un piccolo esperimento. Voi che titolo dareste al mio racconto?
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- Macchina da scrivere
- Messaggi: 165
- Iscritto il: 15/12/2022, 21:05
Re: Esercizio numero quattro
Rispondo innanzitutto con una mia proposta per il titolo
"Chiaro di Luna".
Permettimi Namio di esprimere tutto il mio apprezzamento per questa trama che ho letto con avidità, cosa che non mi succedeva da tempo. La guerra, amore e morte, musica. Veramente intenso.
Questo è da pubblicare: non inventiamoci storie (...!)
Nel tecnico mi intriga, in particolare, l'impostazione del discorso diretto che penso di prendere in prestito per un mio prossimo racconto.
Ti rubo anche "iersera". Non dimentichiamo la bellezza di certe parole,
piccole perle che ci regalano emozioni.
Sì, lo schema narrativo sembra rispettato. Quale unica considerazione
personale, mi sembra che, con l'allargamento della trama, la possibilità di
un intreccio tra sezioni sia verosimile e, anzi, probabile.
Provo a spiegarmi meglio. Immagino che in un romanzo lo schema viaggi su una
dimensione "macro". Avremo un antefatto, le peripezie e così via e tutto
ben inquadrabile nei vari settori. Ma l'ampiezza del testo potrebbe far sì
che l'autore torni su sé stesso con un montaggio a "puzzle". Se lo dico ora
è perché in questo racconto, dove già si imposta un'architettura
da romanzo, mi accorgo che il "climax", per fare un esempio, è più diluito.
Per me che sono orientato nettamente sui corti, lo spannung può ridursi a una sola frase.
Il grande romanzo è un fiume lento e, nel suo pacato fluire, ci permette di abbracciare grandi vedute con profondità di dettaglio.
"Chiaro di Luna".
Permettimi Namio di esprimere tutto il mio apprezzamento per questa trama che ho letto con avidità, cosa che non mi succedeva da tempo. La guerra, amore e morte, musica. Veramente intenso.
Questo è da pubblicare: non inventiamoci storie (...!)
Nel tecnico mi intriga, in particolare, l'impostazione del discorso diretto che penso di prendere in prestito per un mio prossimo racconto.
Ti rubo anche "iersera". Non dimentichiamo la bellezza di certe parole,
piccole perle che ci regalano emozioni.
Sì, lo schema narrativo sembra rispettato. Quale unica considerazione
personale, mi sembra che, con l'allargamento della trama, la possibilità di
un intreccio tra sezioni sia verosimile e, anzi, probabile.
Provo a spiegarmi meglio. Immagino che in un romanzo lo schema viaggi su una
dimensione "macro". Avremo un antefatto, le peripezie e così via e tutto
ben inquadrabile nei vari settori. Ma l'ampiezza del testo potrebbe far sì
che l'autore torni su sé stesso con un montaggio a "puzzle". Se lo dico ora
è perché in questo racconto, dove già si imposta un'architettura
da romanzo, mi accorgo che il "climax", per fare un esempio, è più diluito.
Per me che sono orientato nettamente sui corti, lo spannung può ridursi a una sola frase.
Il grande romanzo è un fiume lento e, nel suo pacato fluire, ci permette di abbracciare grandi vedute con profondità di dettaglio.
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- Macchina da scrivere
- Messaggi: 198
- Iscritto il: 16/12/2022, 16:29
Re: Esercizio numero quattro
Ciao, Roberto.Roberto ha scritto: ↑14/04/2023, 8:16 Rispondo innanzitutto con una mia proposta per il titolo
"Chiaro di Luna".
Permettimi Namio di esprimere tutto il mio apprezzamento per questa trama che ho letto con avidità, cosa che non mi succedeva da tempo. La guerra, amore e morte, musica. Veramente intenso.
Questo è da pubblicare: non inventiamoci storie (...!)
Nel tecnico mi intriga, in particolare, l'impostazione del discorso diretto che penso di prendere in prestito per un mio prossimo racconto.
Ti rubo anche "iersera". Non dimentichiamo la bellezza di certe parole,
piccole perle che ci regalano emozioni.
Sì, lo schema narrativo sembra rispettato. Quale unica considerazione
personale, mi sembra che, con l'allargamento della trama, la possibilità di
un intreccio tra sezioni sia verosimile e, anzi, probabile.
Provo a spiegarmi meglio. Immagino che in un romanzo lo schema viaggi su una
dimensione "macro". Avremo un antefatto, le peripezie e così via e tutto
ben inquadrabile nei vari settori. Ma l'ampiezza del testo potrebbe far sì
che l'autore torni su sé stesso con un montaggio a "puzzle". Se lo dico ora
è perché in questo racconto, dove già si imposta un'architettura
da romanzo, mi accorgo che il "climax", per fare un esempio, è più diluito.
Per me che sono orientato nettamente sui corti, lo spannung può ridursi a una sola frase.
Il grande romanzo è un fiume lento e, nel suo pacato fluire, ci permette di abbracciare grandi vedute con profondità di dettaglio.
A Chiar di Luna francamente non avevo pensato. Mi sa che faccio mia la tua proposta.
Quanto alle altre tue questioni. Certo, in un romanzo sia lo schema narrativo che le sequenze esaminate prima sono a un livello macro.
Mi pare di averne anche scritto: in Proust o Dostoievskij il discorso narrativo è organizzato in macrosequenze.
Quanto al puzzle. Hai ragione anche qui, e tutto dipende anche da come viene costruito il tempo della narrazione. Ne abbiamo già parlato e quasi ci siamo. Il tempo, l'uso del tempo, influenza anche lo schema narrativo, lo spezza, di modo che i vari segmenti non siano più lineari come quelli che abbiamo visto.
Dipende dalla capacità tecnica dell'autore di gestire intrecci complessi.
Ti dirò anzi che al posto di questo racconto avrei voluto postarne un altro, scritto tempo fa, e molto più lungo, in cui vi avrei sfidato a rintracciare lo schema, perché la struttura era appositamente non lineare.
Un racconto che non ho potuto postare in gara perché troppo lungo, ma che è l'ideale continuazione di quella serie che avevo iniziato e poi non portato a termine.
Provo a postare un contenuto sull'ordine del racconto per spiegarmi meglio.
Ciao, Roberto, e grazie per l'intervento e il suggerimento.
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Re: Esercizio numero quattro
Buonasera, Gaetano.
Questo è il mio racconto, spero che vada bene e che almeno un po' vi piaccia. Nel fine settimana leggerò anche il tuo con piacere.
Grazie mille a presto.
Questo è il mio racconto, spero che vada bene e che almeno un po' vi piaccia. Nel fine settimana leggerò anche il tuo con piacere.
Grazie mille a presto.