ma che guaio che é, questo amore

gli articoli di riflessione e attualità di M. Pulimanti
Rispondi
Avatar utente
Mario Pulimanti
Scrittore
Scrittore
Messaggi: 849
Iscritto il: 12/04/2006, 16:50
Località: Lido di Ostia -Roma

ma che guaio che é, questo amore

Messaggio da Mario Pulimanti »

Ma che guaio che è, questo amore.


Lavoro troppo, sono sottopagato e socialmente disadattato.
E sono un paranoico ipocondriaco.
Se per caso sento un dolorino al braccio, penso di essere sull’orlo dell’infarto anche se il braccio è quello destro.
Certi disturbi comportamentali non spariscono così, in un amen.
L’amore è un guaio.
Un guaio, sì.
Uno magari trova un equilibrio, una quiete.
Si convince di avere raggiunto un minimo di serenità, che è un traguardo importante.
Poi arriva l’amore, con il suo fantasma di felicità e ti fa sembrare tutto grigio, inutile.
Quello che hai diventa poco, una piccola, inutile meschinità.
La musica, le canzoni, le poesie, il mare, il cielo, il vino, il cibo e l’aria.
Tutto perde senso.
E’ per questo che l’amore è un guaio, un guaio grosso.
Perché quando ce l’hai, lo puoi perdere.
L’amore è un sentimento vigliacco.
E’ come un liquido: pensi di tenerlo in mano e quello ti scivola attraverso el dita.
L’amore è sempre disperato, però ha sempre qualche speranza.
L’amore non si rassegna.
Il tormento non esiste senza l’amore.
L’amore è l’altra faccia.
E’ un grido disperato che ti fa dormire male.
Di notte, o si dorme e si sogna o si è svegli e si sogna ugualmente.
E’ di notte che ci mettiamo di fronte a noi stessi, è di notte che non ci sono scuse.
L’amore è un guaio; eppure c’è di peggio.
Il tradimento è peggio dell’amore.
Improvvisamente un rumore mi allontana da queste meditazioni.
Riesco a recuperare i popcorn dal forno a microonde un attimo prima che si trasformino in un’arma di distruzione di massa, com’è successo la settimana prima. Bevo un sorso di passito.
Vino da meditazione.
Mi avvicino la mia piccola pila di quotidiani e settimanali, dando un’occhiata alla foto di Nicole Kidman.
Ho comprato un pollo in rosticceria.
Ma quando lo guardo, il mio stomaco si rivolta.
Lo metto in frigo per domani, preparando al suo posto un gin tonic bello carico.
Prendo fiato e ne mando giù un sorso.
Mah.
Forse per oggi può bastare
Il mio stomaco non gradisce nemmeno quello, ma il cocktail mi aiuta a eliminare un po’ di tensione.
E infatti quando lo termino mi metto a sbadigliare.
Incoraggiato da questo fausto presagio, mi dirigo in camera da letto.
Mi spoglio, lasciando cadere i vestiti dove capita.
Poi mi infilo sotto le coperte e spengo la luce.
Sospiro, rassegnato a un’altra notte insonne.
Intanto penso.
Ricordi, sensazioni, cose così…
Non so perché.
Collevecchio.
Ripenso a un giorno di primavera.
Mi trovo nell’impossibilità di distinguere la fantasia dalla realtà.
Oltre il Parco della Rimembranza, ai margini del cimitero, il mare delle vette d’albero che ondulavano al vento.
La fragile luminosità pomeridiana s’incupiva e rischiarava sugli occhi di mia madre secondo il passaggio delle nuvole.
E poi, oltre la linea dei campi, il rumore dei trattori che transitavano cigolando a brevi intervalli.
Un altro debolissimo ricordo mi attraversa la memoria, un esile guizzo reminiscente…
Erano i tempi di Jimi Hendrix e Janis Joplin.
Non vedevo l’ora di andare all’università; per quanto mi riguardava, era lì che la vita diventava davvero emozionante, a differenza del noioso e vecchio liceo.
Sacro Cuore dai salesiani, al ginnasio e Socrate, al liceo.
In questi posti mi trattavano ancora come un ragazzino e nessuno si interessava a quello che pensavo del mondo.
All’università sono diventato un vero studente.
Partecipavo alle manifestazioni di GS e a cose di quel tipo.
Ricordo i miei primi giorni di lavoro.
Neoassunto e infimo nella gerarchia.
Con uno zelo da ultimo arrivato profondevo su quelle antiche pratiche settimane di fatica, e ancora mi stavo arrovellando su quali fossero necessarie e quali superflue quando mi chiamarono dalla direzione e mi dissero che c’era un lavoro importante di un collega in malattia.
Io avrei dovuto sostituirlo, il che comportava la piacevole incombenza di redigere relazioni su prestigiosi istituti di ricerca italiani.
No, non devo pensare.
Smetto di farlo.
Devo avere la mente vuota.
E’ quello il trucco.
Se non avessi niente a cui pensare, non ci sarebbe niente che mi tenga sveglio. Immagino un immenso campo di grano, mosso dal vento, circondato da un alto recinto.
Fuori dal recinto ci sono milioni di pensieri: la famiglia, il lavoro, i soldi, eccetera eccetera.
Ma il mio recinto è troppo alto, troppo solido, e io non li lascerei entrare.
Sono proprio sull’orlo del sonno, pronto a caderci dentro senza riserve, quando il telefono squilla.
“Pulimanti.”
“Mario? Vedo che sei ancora sveglio.”
Batto le palpebre per un paio di volte. Per quanto brami il sonno, ci sono cose più importanti.
“Ciao, Ferruccio. Va tutto bene?”
“Va tutto a meraviglia, Mario. Non è che ti ho svegliato vero? So che sei un animale notturno e dopo le ventitré le telefonate costano meno.”
Sbadiglio.
“Sono sveglio. Lo sai che puoi chiamarmi quando vuoi.”
Parliamo del più e del meno.
Parliamo del Milan, la sua squadra del cuore.
Parliamo dell’Atletico de Madrid, la mia squadra del cuore.
Poi riattacca.
Adesso il sonno è lontanissimo.
Ricordo mio padre.
Per poco non mi usciva di bocca una parola che non pronuncio da ventiquattro anni.
La prima in assoluto che ho imparato a formulare, quando ancora non ero nemmeno capace di stare in piedi.
Da quando è morto, nella pasquetta del novantadue, non mi sono più capacitato dal non riuscire più a rivederlo davvero. Papà. Piango, tanto non mi vede nessuno.
Penso a mamma.
Alle diciotto e trenta di un triste pomeriggio di quattro anni fa, domenica 29 luglio 2012, all’Ospedale San Camillo di Roma moriva mia madre.
Ernesta Aloisi.
Moglie di Antonio Valeriano Pulimanti, poeta collevecchiano.
Ah. Ok.
Madre di Antonella.
Madre di Stefano.
E madre mia.
Lei, che mi ha guarito i graffi e le ferite con una carezza magica.
Lei, un posto caldo dove ho trovato sempre un abbraccio.
Lei, con quell’odore di buono che mi faceva tornare bambino.
Lei, che mi lasciava andare anche se avrebbe voluto tenermi stretto a sé.
Lei, una canzone nella notte.
Lei, una ninna nanna speciale.
Lei, uno sguardo che non aveva bisogno di parole.
Lei, quella che sapeva, sempre, cosa era la cosa migliore per me.
Lei, quella mano che mi ha tenuto mentre traballando imparavo a camminare.
Lei, il bum bum del cuore che sentivo appoggiando la testa sul suo petto.
Lei, mamma, una parola: la prima che ho detto.
Lei, mamma, un sorriso: il primo che ho visto.
Lei, mamma, una voce: la prima che ho udito.
Lei, mamma, un sapore: il primo che ho assaggiato.
Lei, mamma, una culla: la prima che ho avuto.
Lei, mamma, che soffrendo mi ha fatto nascere.
Lei, che mi ha parlato nel cuore della notte. Quando tutto il mondo era addormentato. E nessuno, tranne me, udiva le sue parole. E, tenendomi fra le braccia, mi avvolgeva di un amore che aveva una forza inaudita.
Sfoglio un vecchio album di fotografie: qui avevo sei anni. “Vieni!” sembra dirmi, prendendomi la mano per condurmi a casa.
Mi manchi, mamma.
Alle madri non dovrebbe essere permesso morire.
Scaccio con decisione quel pensiero dalla mia testa, per evitare di scivolare nella svenevolezza.
Nel frattempo, rientra Gabriele, detto Gabry.
Aspirante Notaio.
Gabriele, il mio primogenito, è nato a Roma all'Ospedale San Giacomo alle 20 e 30 di sabato 18 ottobre 1986.
Mentre nasceva, la TV stava trasmettendo la sigla di apertura della trasmissione “Fantastico 7” con Pippo Baudo, Lorella Cuccarini, Alessandra Martines, il Trio Lopez-Marchesini-Solenghi e Nino Frassica.
La sigla era “Tutto matto” cantata da Lorella Cuccarini.
Gabriele non ha paura di dire ciò che pensa.
Lui esprime sempre le sue idee.
Però non è uno sconsiderato.
Sostiene che a meno che un individuo non sia particolarmente versato nell’arte della retorica, le parole che pronuncia in un luogo pubblico ben presto volano fuori dal suo controllo, come foglie al vento.
Una verità innocente può essere stravolta in una menzogna fatale.
Ecco perché non parla di politica fuori di casa.
O con estranei poco affidabili.
“Dove sei stato” gli chiedo quando entra in soggiorno con i suoi jeans chiari e una maglietta rossa.
Ha gli occhi un po’ stanchi, ma a parte questo sembra che stia bene.
“Che bella accoglienza” replica.
“Vuoi rispondermi?”
“Se proprio lo vuoi sapere, sono stato alla gelateria di Carletto.”
“Dove si trova?”
“Vicino al Borghetto dei Pescatori”.
“E che succede lì?”
“Non succede niente di particolare. Il gelato è ottimo. La gente lo mangia e si diverte”.
Gabriele è innamorato del borghetto ed è intenzionato a trasferirvisi, appena avrà superato il concorso di Notaio.
Del resto questo potrebbe essere proprio il momento giusto: infatti al Borghetto dei Pescatori di Ostia a due passi dal mare è attualmente in costruzione un complesso residenziale che prevede la costruzione di nuove case ecologiche costituite da appartamenti e villini a schiera.
Esco sul balcone.
Di nuovo, pensieri.
Penso che il bricolage non è adatto a me.
Del resto, così come sul versante femminile, esistono le mani di fata, su quello maschile esistono gli uomini veri, quelli da amaro Montenegro, capaci di salvare cavalli ma anche di aggiustare oggetti, di riparare guasti domestici, di lavare i piatti e di cucinare.
Io, ahimé, come molti altri uomini, non appartengono a questa categoria.
In realtà so fare tante altre cose. Leggo moltissimi libri e me li ricordo.
Credo di cavarmela con la scrittura e malgrado quello che dicono certi miei colleghi, penso di lavorare con impegno e con discreta abilità.
Faccio delle belle fotografie.
E poi quando c’è da bere e da mangiare sono un vero professionista!
Ma, come dice mia moglie Simonetta, in tutto il resto, o quasi, sono un disastro.
E quando dico disastro non esagero.
Perché la mia vita è punteggiata, quotidianamente, da sconfitte imbarazzanti.
Prendiamo la botanica.
Vi dico subito che Simonetta ha il pollice verde.
Ogni pianta che lei mette in casa diventa un baobab.
Io, invece, sono una catastrofe vivente.
Ogni pianta che metto in ufficio muore dopo pochissimi giorni. Sono l’Attila delle azalee, dei ficus e degli oleandri.
Passiamo alla cucina.
Per sintetizzare il mio rapporto con i fornelli sarò esplicito: non so cucinare nemmeno un uovo al tegamino.
Quando prendo in mano una padella divento Fantozzi.
Confondo il sale con lo zucchero.
Mi brucio le mani quando scolo l’acqua della pasta.
E le poche volte che ho provato a cuocere una bistecca i vicini hanno chiamato i pompieri per via del fumo, che ho provocato nel palazzo.
Poi c’è il bricolage. Se c’è da attaccare un quadro mi prendo a martellate da solo.
Se devo bucare una parete col trapano mi ritrovo nel salotto dei vicini di casa.
Non parliamo dei miei maldestri tentativi quando c’è da sturare un water: provoco un maremoto e allago l’appartamento.
Se cerco di aggiustare una presa elettrica faccio saltare la corrente in tutto il quartiere.
Da solo non riesco a mettermi un cerotto al dito.
E se prendo in mano un tubetto di attaccatutto resto per tre giorni con il pollice incollato all’indice. Piuttosto che cambiare una gomma della mia automobile, vendo l’automobile.
Perché potrei restare lì, a combattere col crick, per intere settimane.
Impazzisco quando c’è da registrare qualcosa in Tv.
Se decido di registrare un film mi ritrovo sul decoder un documentario sulla vita delle renne nella Lapponia orientale
Comunque sono un uomo fortunato perché mia moglie, nonostante tutto, è innamorata dei miei difetti e, sempre vigile sul destino dei nostri due figli, Gabriele ed Alessandro, finisce con l’essere lei il vero fulcro della famiglia, anzi ne è l’unica colonna portante.
E, anche se il suo tentativo di trasformare la nostra famiglia in una unità di cui andare socialmente fieri fallisce inevitabilmente, eppure l’amore rimane lo stesso.
Rientro a casa e trovo Alessandro seduto davanti al computer.
Alessandro, il mio secondogenito, è nato a Ostia, all'Ospedale Grassi alle 4 del mattino di mercoledì 9 novembre 1994.
Mentre nasceva, la radio stava trasmettendo lo splendido brano di Willie Nelson "Georgia in my mind".
Sono cose che succedono.
Di rado, certo, una volta nella vita, forse due, ma posso assicurarvi che succedono perché è successo a me.
Non ci potevo credere neppure io, eppure ero lì: la mattina del nove novembre all’ospedale Grassi di Ostia, una buona struttura idonea a favorire un trattamento più umano del paziente.
Era il 1994. Il calendario della Chiesa Cattolica Romana, festeggiava Sant’Oreste di Tiana medico morto nel 304 martire in Cappadocia, durante la persecuzione di Diocleziano.
Torturato e martoriato con i chiodi perché non rispettava i principi deontologici della corporazione dei medici pagani, che nella sostanza praticavano la stregoneria facendosi pagare lautamente dai loro pazienti.
Ero appena uscito dall’Ospedale.
Stavo rientrando a casa.
L’autoradio mi stava facendo ascoltare Willie Nelson che cantava “Georgia on My Mind”, la canzone ufficiale dello stato degli Stati Uniti della Georgia.
Erano le 5 di un mattino piovoso.
Due ore prima era nato Alessandro.
Forte, imbattibile, nulla può ostacolare la sua volontà.
Frequenta il corso di laurea in Lingue, Culture, Letterature e Traduzione.
Con la media del 30 e lode.
Anche a lui chiedo dove è stato.
“Da Anema e Core” risponde.
“Profumi di mare”.
Il ristorante è sulla spiaggia, papà. Si vede il mare. Senti se hai intenzione di assillarmi in questo modo, me ne vado a letto. Devo andare all’Università domani, non te lo ricordi?”
E con questa ultima frase Alex va a passi pesanti nella sua stanza.
Faccio per andargli dietro, ma poi ci ripenso.
Per quanto sia agitato, capisco che non è il caso di intraprendere una lunga discussione con mio figlio. Me la vedrò con lui domani.
Lo sento fare rumore in cucina, tirare l’acqua del bagno e chiudere la porta della sua camera da letto.
Ormai è impossibile tornare a dormire, malgrado la stanchezza.
Se avessi un cane lo porterei a spasso.
Mi alzo.
Mi verso un dito di cognac.
Nella stanza accanto tutto tace.
Forse con Gabry e Alex ho sbagliato. Ricevuto. Sono stato inescusabilmente malaccorto.
Chiaramente.
Vado in bagno.
Decido di uscire, anche se è molto tardi.
Esamino mentalmente il mio guardaroba.
Il vestito migliore è di Armani.
Normalmente non posso permettermi abiti firmati, infatti questo l’ho comprato in un outlet.
Quello di Ponzano Romano.
Il prezzo era comunque alto, nonostante lo sconto, però quando lo indosso mi sento molto più sicuro di me.
Poi ci ripenso, e torno a letto.
Quando finalmente arriva il sonno, arrivano anche gli incubi.
Ma che guaio che è, questo amore.


Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)
:angel13:
Allegati
00.jpg
Rispondi