E' tutto finito

gli articoli di riflessione e attualità di M. Pulimanti
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Mario Pulimanti
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E' tutto finito

Messaggio da Mario Pulimanti »

E’ tutto finito


Cavolo, che bel mercoledì: oggi sono in ferie.

Ed è pure primavera.

Però ho i postumi di una sbronza.

Tre ore di sonno, dopo una serata guardando partite di champions legue e bevendo whisky torbato.

Una figata.

Sì, si dice così a Roma, o no?

Sì, pure ad Ostia si dice così.

La brezza proveniente dal mare ha spazzato via l’umidità e ora gonfia le lenzuola del mio letto, facendone un’oasi di frescura.

Sul tavolino accanto al comò, un piatto capace ospita tre kiwi, due banane e una ciotola di fragole, lamponi, mirtilli e ribes.

E una bottiglia di Macallan 25 years Anniversary, whisky di puro malto.

Papà Valeriano lo adorava perché maturato in barili di quercia.
Mi alzo.
Gabriele è andato all’Elsa Morante, la nostra biblioteca lidense, con Roberta.
Simonetta ha portato la mamma dal dentista, il mio amico Juan Carlos Murgia.
Alessandro sta studiando in camera sua.
Entro nel mio studio.
Mi ritrovo alla scrivania, che è sistemata in uno degli angoli della stanza..
Di fronte a me il monitor del computer.
Posso però dire che mi sento più a mio agio con penne e matite che col pc.

In fin dei conti, nessuno è perfetto!
Sono uno scrittore oppure solo uno che scrive?
Forse sono uno che finge ideali inesistenti.
Amo il mio libero arbitrio, il jazz e le mie infinite miserie.
Non sono tipo da ansie, non mi consumo per beffe annunciate.
Ok, veniamo al dunque: accusare la famiglia di non sapere più fare il proprio dovere e incapace di esercitare il proprio ruolo é un alibi per scaricare responsabilità che stanno fuori dalla famiglia.

Del resto in questi anni non è stato fatto molto per consentire ai genitori, che spesso lavorano entrambi al contrario di quanto accadeva un tempo, di fare meglio il proprio mestiere di madri e padri.

Basta vedere le poche scuole d'infanzia aziendali che ancora ci sono in Italia, i costi spesso proibitivi degli asili nido, una scuola spesso intesa come area di parcheggio.

E non sempre per colpa dei genitori.

Mi verso il bicchiere di whisky.

Non tutte le cose che vedo sono spettacolari.
Mi accorgo, infatti, di stare leggendo il giornale con i pugnalini negli occhi, come Zio Paperone nei fumetti.
La notizia infatti parla della violenza domestica, di quella violenza cioè che le donne di qualsiasi età, estrazione culturale e ceto sociale subiscono da parte degli uomini di casa, anche padri o fratelli.
Questa violenza è la prima causa di morte nel mondo per le donne: addirittura più degli incidenti stradali e delle malattie.
E, dato che le violenze si consumano prevalentemente in privato, è difficile che queste vengano denunciate.
Per questo motivo sarebbero opportuno che ci fossero delle campagne di sensibilizzazione al problema e aiuti più concreti verso chi avesse il coraggio di denunciare il proprio aguzzino.
Sia ben chiara una cosa: io sono contro tutte le violenze sulle donne, le quali, rispetto a noi uomini, hanno sempre vissuto situazioni di subordinazione e discriminazione.
Questo non vuol dire però condannare a priori gli uomini e assolvere le donne, ma solamente di prendere atto di ciò che la cronaca ci consegna, dato che in queste dolorose vicende il ruolo di vittima e quello di carnefice sono inequivocabili.
Nel diritto romano la moglie era un vero e proprio possesso del marito.
E le cose non erano cambiate neppure durante il Medioevo, dato anche che in questo periodo il diritto feudale prevedeva che la terra si tramandasse per discendenza maschile.
Ora, anche se nei paesi industrializzati la donna sembra aver definitivamente raggiunto l’uomo nei diritti, non si sono però ancora estinte del tutto forme di violenza fisica, psicologica ed economica.
Certo, l’incapacità di mediare le tensioni all'interno della coppia e in altre situazioni, facendo prevalere, fino alle conseguenze più estreme, il proprio io rispetto a tutto il resto è una caratteristica negativa della nostra società, e accomuna uomini e donne.
Questo atteggiamento deriva difatti da una incapacità di gestire con equilibrio situazioni di rottura e di difficoltà relazionali, e di questa situazione le donne pagano senza dubbio il prezzo più alto.

Basta: getto il giornale per terra.

Chiudo gli occhi, continuando a bere il mio Macallan.

Pensieri sparsi affollano la mia mente.

Garbatella: casa di mamma.

La Garbatella a me piace così, con le facciate di alcuni palazzi che si sgretolano e sui marciapiedi cadono i gusci degli anni ormai andati.

Apro il cassettino centrale della scrivania.

Da un cofanetto segreto, tiro fuori un album.

L’album dei sogni.

Sento l’odore della mia infanzia, mentre guardo questo album di vecchie foto.

Ci sono mamma e papà, prima che si trasferissero sull’arcobaleno.

Bevo un caffè.

E’ nero e scuro come l’interno di un sarcofago.

Intorno a me, silenzio.

L’unico suono che sento è il pulsare delle mie tempie, il battito del mio cuore.

Sudo mentre sfoglio pagina dopo pagina.

Il sudore mi scorre sulla fronte, sulle tempie, mi entra negli occhi mentre me ne sto seduto, chino sul libro, senza più riuscire a distinguere il sudore dalle lacrime.

All’esame della scuola per mimi, l’allievo fece scena muta.

Su, meno stronzate, facciamo in fretta.

Non ci sono più i bravi illusionisti di un tempo. Sono tutti spariti di scena.

Sono nato in una casa umile di Testaccio.

Adesso è cambiato tutto.

Adesso lì ci vivono poeti che ogni anno vincono premi letterari, artigiani che fabbricano ancora ombrelli e bastoni artigianali di alta fattura: oggetti unici e ricercati diventati famosi per design e qualità e pittori di pesci morti.

Le case del Testaccio sono di moda perché si vede che in esse si trova lo spirito del popolo romano, in attesa che qualcuno lo colga.

Ma ai miei tempi da lì uscivano solo le urla delle partorienti i cui mariti avevano sbagliato numero nel chiamare l’ambulanza.

Gli strilli dei bambini.

Le scoregge dei pensionati.

Le manganellate regolamentari della polizia.

Era un mondo spietato, con le tavole vuote e le condutture intasate.

Che pensieri: sono così sconvolto che sento persino qualcosa di miracoloso, una specie di eccitazione sessuale.

Ma l’unica cosa che riesco a dire è “Tutto questo è assurdo. Sto diventando matto!”

Era un calciatore sciatto e impreciso. Lavorava con i piedi.

Ora capisco. Sto per morire.

Davanti al giudice, i due pianisti trovarono un accordo amichevole.

E’ un modo di dire.

Non credo che abbia particolare importanza.

Ma mi ha scombinato un po’ la vita.

Adoro il mare.

Ostia, al mattino.

Voglio riaprire la finestra dell’arcobaleno.

Datemi le chiavi.

Non mi fate perdere la pazienza!

Diamine, un milione di cose mi impediscono di aprire quella finestra, un milione di cose su cui non si deve ragionare, né calcolare, né fermarsi a vedere.

Solo sentire.

Un milione di cose che non stanno da nessuna parte, ma che sono comunque nell’aria.

Ovunque, tranne che nei tuoi occhi.

Fino a tal punto arriva il tuo disprezzo?

Sì.

E’ successo tutto in fretta: più in fretta di quanto cerchi di ricordare.
Solo in qualche occasione mi è sembrato di perdere l’equilibrio.
Solo in rari istanti ho avuto dei dubbi, mi sono chiesto se la realtà sia davvero come la sto vivendo.
Somiglio sempre più a mio padre.
A volte si fanno delle scelte che non si sanno spiegare, io ho la capacità di cambiare i miei piani, di voler vedere le conseguenze delle cose.
Stefano, mio fratello, definisce questo mio modo di fare dicendo che voglio sempre portare le cose all’estremo.

Ho sempre sentito dire che i soldi sono soldi.

E che molti soldi sono potere.

E che moltissimi soldi siano il massimo.

Sarò sincero.

Intuisco il tuo disprezzo.

Me lo soffi in faccia.

Accendo un sigaro d’alta classe.
Lo lascio morire acceso e con dignità.
Quando penso di essere vicino alla verità sento che ogni fibra del mio corpo è vicina al nucleo dell’arcobaleno, alla sua nuda e pura essenza.

Non riesco mai ad arrivare alla fine, non vado mai oltre questo punto.

E i sogni continuano.
Ernesta Aloisi.
Moglie di Antonio Valeriano Pulimanti, poeta collevecchiano.
Ah.
Ok.
Madre di Antonella.
Madre di Stefano.
E madre mia.
E’ morta domenica 29 luglio.
All'Ospedale San Camillo di Roma.
Alle diciotto e trenta di un triste pomeriggio.
Il rito funebre è stato celebrato a Testaccio.
Nella Chiesa di Santa Maria Liberatrice.
Il feretro, al termine del funerale, è stato portato al cimitero storico di Collevecchio, in provincia di Rieti.
Qui mamma è stata seppellita a mezzogiorno del secondo giorno di agosto.
Mi chiedo se sento qualcosa, sollievo, rabbia.
Non credo.
Provo solo dolore.
Questo tipo di cose ti divora dall’interno.
Sono terrorizzato dallo scorrere del tempo, dagli istinti.
Dal fatto di non avere il controllo di essi.
Da ogni piccola scheggia di tempo, la trasformazione di un infinito numero di cellule.
Dall’aria che cambia, il mare di fronte a casa mia che è la stesso ma nello stesso tempo non lo è, da mio fratello Stefano che è invecchiato, io che sono invecchiato, impercettibilmente ma inevitabilmente invecchiato, e dal fatto che, in qualsiasi momento, può crollarmi qualcosa in testa dall’alto, e distruggermi.
La verità può arrivare tramite un dettaglio, il tempo delle rivelazioni può arrivare e cogliermi impreparato, di sorpresa.
Non appena mi sono assicurato che tutto è a posto, che ho io il controllo, questa sensazione lascia il posto a una nuova scheggia, anch’essa insicura, fugace, pericolosa, e come si fa a vivere una vita che appare così effimera, così temporanea?
E costantemente quella sensazione di solitudine, nonostante la famiglia, la condivisione.
Simonetta.
Gabriele.
Alessandro.
Loro sembrano pensare che quello che è successo non abbia toccato solo me, ma anche loro, forse nel tentativo di alleggerirmi il peso.
La morte di mamma, quella perdita che conosco solo io e nessun altro, colora tutti i miei giorni, a parte qualche breve, quasi euforico, istante di oblio.
Ed è di nuovo qui, come un peso.
E’ come se mi avessero diagnosticato una malattia mortale e io tenessi la diagnosi per me, perché non ce la farei a sopportare le espressioni dei loro visi se lo dicessi.
Certo, lo ripeto, dal 29 luglio la mia famiglia mi sta vicino.
Questo mi trasmette una strana sensazione di sicurezza, di innocenza, ma le notti sono terribili.
Mi sveglio con il cuore che batte talmente forte che ho paura che stia per fermarsi, che non ce la faccio più, che morirò.
Sì, spesso la notte mi sveglio senza fiato.
Mi alzo e mi siedo davanti alla tivvù, tiro fuori il vecchio videoregistratore dall’armadio e cerco i filmati registrati dai miei genitori quando eravamo piccoli.
Tengo il volume basso e la luce spenta.
Mia madre e mio padre si passano la telecamera, e la famiglia fa cose da tipica famiglia.
Filmano me e Stefano che giochiamo con il pallone.
Io e Antonella che corriamo al Parco della Rimembranza di Collevecchio.
Io e mio padre che giochiamo a ping-pong, mentre mio fratello impara a camminare.
Mia madre che fa un filmino di prova con mio padre, hanno appena comprato la videocamera.
Cinquant’anni fa.
Sembra così giovane, assomiglia a me.
E io cerco qualcosa, un filo conduttore o un dettaglio nella mia storia, che possa spiegare ciò che è successo, perché è andata così, ma niente.
Non trovo niente.
Niente che possa giustificare la morte di una madre.
Ciò che mi fa paura è il silenzio.
Non poterle più parlare.
Vorrei avere almeno un attimo, mamma, anche solo per dirti ciao.
La morte di mamma mi fa ancora male.
Credo di essere un po’ depresso.
A volte mi viene da piangere nelle situazioni più strane, e vorrei essere in cattiva salute, vorrei stare per morire.
Forse domani, forse non prima di altri cinquant’anni, ma prima o poi il mio corpo cambierà direzione, inizierà l’atterraggio.
A parte qualche mal di testa e il fatto che sono ancora un po’ sovrappeso, fisicamente sto bene.
Non mi sto spellando in maniera preoccupante, non mi sento raschiare quando respiro, i miei organi interni, il fegato, i reni, tutti eseguono le loro funzioni biologiche come dei bravi lavoratori obbedienti.
Mi sembra uno spreco.
Non finirò mai di ringraziare i miei genitori, che mi hanno insegnato fin da piccolo l’importanza di poter essere ciò che si è e di trattare gli altri con rispetto e dignità.
Sono stati fantastici.
Comunque, appena mi muovo un po' ho subito il fiatone.
Cavolo, inizio a invecchiare.
A volte sogno una cassa da morto ad assi povere con dentro un salma.
La mia.
Ma, proprio quando cerco di compatirmi un po’, la memoria mi fa strani scherzi e comincia un viaggio a balzelloni tra episodi della mai vita che io vorrei dimenticare, ma che la memoria, appunto, mi rimbalza indietro, pam, pam, pam, come un muro con un palla da ping pong!
Pam: io dai salesiani del Testaccio.
Pam: io alla Chiesa del Giglio che sposo Simonetta, la sabina.
Pam: io, che cullo Gabry, ascoltando Bob Dylan.
Pam: io, che cullo Alex, ascoltando Bruce Springsteen.
Pam: io che mi laureo.
Pam: io che lavoro alle Poste di Fiumicino.
Pam: io che lavoro al Comune di Roma.
Pam: io che lavoro al Ministero dell’Agricoltura.
Pam: io che piango nonno Angelino, nonna Leonella, nonna Jole. E zia Valeria.
Pam: io che seppellisco papà Valeriano.
Pam: io che seppellisco mamma Ernesta.
Pam: io, over the rainbow.
Mi sembra di muovermi lateralmente, sempre più lontano dalla vita che mi sarebbe piaciuto fare, sospinto -dal destino o dalla incapacità do prendere decisioni giuste, che importa?- su terreni sempre più paludosi nei quali la virtù e le qualità che mi si riconoscono (ritengo di essere un uomo sensibile, discretamente colto, con un certo senso dell’umorismo, fondamentalmente buono) non servono a niente e i difetti di cui mi accuso (so di essere distratto, timoroso, poco determinato, persino ingenuo) finiscono col farmi affondare sempre di più.
Dite che sto parlando a coda di porco, intorcinata, non in forma esplicita?
Vabbè, ok.
Ascolto Bob Dylan, a luci spente.

Mi inganna l’oscurità.

Sono un mercante di libri maledetti.

Fuori dal tempo.

Forse, non ho capito nulla.

Né qui, né altrove.

E morirò.

In terre lontane?

A Collevecchio?

Ad Ostia?

Sicuramente, sotto una cupola stellata.

Alle radici del cuore.

Addio arcobaleno, ciao.

Con un sospiro, mi allungo sulla sedia e rimango ad ascoltare il mare.

Distrattamente, mi cade l’occhio dentro il cassetto a sinistra della scrivania.

Le mani iniziano a tremarmi.

Le lacrime cominciano a pungermi gli occhi.

In mano ho una cartolina del 1950, inviata da Pietralata, raffigurante due lance con bandieruola azzurra, incrociate sotto una granata a fiamma dritta.

Al centro della granata vi è il numero 8 con la scritta: "Impetu hostem perterreo" (terrorizzo i nemici con impeto).

Sul retro della cartolina una frase: “Sono ricco, di una ricchezza rara: ho te”.

Papa, Tenente nel Gruppo Esplorante Divisionale (G.E.D.) "Lancieri di Montebello, l’aveva inviata ad una giovane ragazza di Testaccio, figlia di Jole e di Vittorio.

Eh, sì: proprio mamma, che per lui sarà sempre la sua “Ernestina”.

A quella cartolina mamma ci teneva tantissimo.

La portava sempre con sé.

Prendo una decisone al volo.

Precetto Ale ed usciamo.

Destinazione: Collevecchio.

Un cimitero che somiglia a un giardino fiorito, talmente bello che, sostiene il custode del camposanto, varrebbe la pena visitarlo.

Così il cimitero di Collevecchio si presenta in questi giorni.

Due donne accovacciate si danno da fare davanti alle tombe.

Io e Ale ci avviciniamo al marmo bianco.

Lei è lì che ci aspetta.

Sulla tomba ci sono alcuni fiori secchi.

Li getto nel cestino, poi Ale si avvicina alla fontanella e riempie il vaso d’acqua fresca per il nostro mazzolino di peonie e ortensie.

Le tonalità sgargianti e solari dell’ortensia.

Il bianco candido della peonia.

Erano i suoi fiori preferiti.

Sistemo i fiori e finalmente guardo la lapide.

Le date le so a memoria, ma le leggo lo stesso.

22 ottobre 1932 – 29 luglio 2012.

Il viso di mamma é impresso nella mia mente peggio del marchio a fuoco sulla pelle di un vitello.

Si dice che di solito col passare del tempo i visi dei nostri cari vadano pian piano a nascondersi nella nebbia dei ricordi.

Che cominciano a confondere i lineamenti, il colore degli occhi e dei capelli, l’altezza e soprattutto il suono della voce.

Cose che a me non succedono.

Mamma non ha perso neanche un neo della pelle nella mia memoria.

L’immagine del suo viso, chiara e vivida, forse sarà l’ultima cosa che vedrò quando toccherà a me.

“Ciao, mamma” dico a bassa voce.

“Hai visto? Siamo venuti a trovarti”.

Mi vedo riflesso nel marmo lucido e pulito.

“Guarda, t’ho portato una cosa…”.

Mi infilo la mano in tasca ed estraggo la cartolina di papà.

La metto sotto il vaso.

Una delle due donne, vestita di nero, si è inginocchiata e si sta facendo il segno della croce.

Anche io mi volto verso la tomba e tolgo una foglia caduta sulla lastra di marmo.

“Buona primavera, mamma” e le mando un bacio.

Mamma Ernesta.

Mi ha sempre difeso come una leonessa difende i suoi cuccioli, anche a costo di subire biasimi e critiche.

Ci fermiamo a pranzare ad un ristorante vicino al santuario di Vescovio.

Tornando a casa, Ale accende la radio.

“…poi mi viene in mente, se mi metto lì a pensare, il bacio di una madre come solo lei sa dare…”

Diamine, non potevano scegliere un altro momento per trasmettere “Come Gioielli” di Eros Ramazzotti!

Debbo ritenermi soddisfatto di avere avuto una mamma come mamma Ernesta.

Lei, che mi ha guarito i graffi e le ferite con una carezza magica.

Lei, un posto caldo dove ho trovato sempre un abbraccio.

Lei, con quell’odore di buono che mi faceva tornare bambino.

Lei, che mi lasciava andare anche se avrebbe voluto tenermi stretto a sé.

Lei, una canzone nella notte.

Lei, una ninna nanna speciale.
Lei, uno sguardo che non aveva bisogno di parole.

Lei, quella che sapeva, sempre, cosa era la cosa migliore per me.

Lei, quella mano che mi ha tenuto mentre traballando imparavo a camminare.

Lei, il bum bum del cuore che sentivo appoggiando la testa sul suo petto.

Lei, mamma, una parola: la prima che ho detto.

Lei, mamma, un sorriso: il primo che ho visto.

Lei, mamma, una voce: la prima che ho udito.

Lei, mamma, un sapore: il primo che ho assaggiato.

Lei, mamma, una culla: la prima che ho avuto.

Lei, mamma, che soffrendo mi ha fatto nascere.

Lei, che mi ha parlato nel cuore della notte.

Quando tutto il mondo era addormentato.

E nessuno, tranne me, udiva le sue parole.

E, tenendomi fra le braccia, mi avvolgeva di un amore che aveva una forza inaudita.

Arrivati ad Ostia Ale mi saluta.

Al Fara Nume il maestro Andrea Serafini sta preparando uno Shakespeare multimediale tra teatro, cinema, musica.

Io, invece, entro nello studio medico.

Il dottore alza lo sguardo dalla sua scrivania.

“Ha i trigliceridi alti. Quante bustine di zucchero consuma a settimana?”

“Cinque”.

E’ una piccola bugia bianca.

Sono arrivato a cinque bustine lunedì, ma poi ho smesso di contare, così sono rimasto a cinque bustine.

“Niente zucchero. Niente alcool. Per un paziente con i suoi valori di trigliceridi, il rischio di attacco al cuore, infarto o trombosi cresce drasticamente”.

Improvvisamente sono tanto, tanto spaventato.

Il cuore batte violentemente.

Sudore sulla fronte.

Il dottore alza lo sguardo.

I suoi occhi sono finestre su un cielo di pieno inverno.

“Lei appartiene a un gruppo statistico con rischio elevato”.

Fuori dallo studio medico il traffico è rumoroso.

Salutandomi, mentre dava un’occhiata all’orologio, il dottore mi ha ricordato che a causa della mia età…e dei miei trigliceridi… si manifesteranno presto vertigini, stanchezza e perdita della libido.

E’ tutto finito.

Io sono finito.

Scandaloso.

Un senso di paura cresce dentro di me.

Terrore esistenziale.

Lo zucchero, l’alcool, il sesso: senza di loro, cos’altro rimane?

Mi sento vecchio, stanco e inutile e persino spaventato.

Il tizio che mi saluta sembra un Testimone di Geova.

Ha i capelli cortissimi, una camicia bianca e una targhetta con il nome.

Non riesco a leggerla.

Entro in un bar.

Mi siedo a un tavolo.

Di fronte a me, un signore.

Anziano.

Ex consigliere circoscrizionale.

Mentre parla in un tono monotono, inevitabilmente mi ritrovo inondato da un oceano di retorica che martella contro scogliere di metafore.

Una buca.

Inciampo.

Torno a casa imprecando contro tutti gli dei.

Ceno.

Poi leggo.

Sul divano.

Prendo in mano il libro che sto leggendo, ma le parole sembrano scivolare via dal foglio.

Guardo oltre il libro, verso il balcone.

Intravedo il mare, sotto ed il cielo, sopra.

Intanto Gabriele mi dice che sta andando con Roberta a Roma.

Quando scompare, mi guardo intorno.

Simonetta sta chattando su facebook.

Resto alquanto perplesso quando sento che molti hanno centinaia di amici su Facebook.

Possono essere considerati dei veri amici, persone disposte a prendersi cura del tuo cane o a riaccompagnarti a casa dall’ospedale, o sono soltanto una massa informe composta da gente che si accontenta di lasciare messaggio carini in bacheca ma che non hanno niente a che fare con al vita di tutti i giorni?

Come si fa ad avere novecento amici?

All'improvviso la mia mascella prende a tremare.

Le labbra fremono.

Il mento si corruga e infine, pur tentando di tenerla chiusa, apro la bocca in uno sbadiglio.

Poi sbatto le palpebre.

Prima ancora di chiudere gli occhi, tuttavia, sprofondo nell'incoscienza.

Il sonno mi avvolge completamente, privo di sogni e punti di riferimento.

Un sonno così somiglia all'eternità, senza nulla che aiuti a misurare il trascorrere del tempo, senza una traccia che indichi la vastità dello spazio, dove un singolo istante non é molto diverso da un miliardo di anni e un atomo é grande quanto l'universo.

Tutte le diversità della vita, il piacere e il dolore, si dissolvono in un'unità primordiale, che abbraccia ogni cosa, persino il nulla.

E' a questo che somiglia la morte?

Poi all'improvviso, mi sveglio.

Non c’è più nessuno: anche Simonetta è andata via.

Guardo a lungo il soffitto.

Non riesco ad alzarmi.

Sulla scrivania è rimasto il vecchio album di fotografie.

Lo riprendo: qui avevo sei anni.

“Vieni!” sembra dirmi, prendendomi la mano per condurmi a casa.

Mi manca il tuo sorriso, mamma.

Improvvisamente mi sento invadere da una torpida sonnolenza.

Quando mi addormento, mentre il giorno si spegne lentamente, sulle pagine lucide dell’album spiccano ancora le tracce delle mie lacrime.



Mario Pulimanti (Lido, di Ostia –Roma)
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