“Addio arcobaleno, ciao” (riflessioni di Mario Pulimanti)

gli articoli di riflessione e attualità di M. Pulimanti
Rispondi
Avatar utente
Mario Pulimanti
Scrittore
Scrittore
Messaggi: 849
Iscritto il: 12/04/2006, 16:50
Località: Lido di Ostia -Roma

“Addio arcobaleno, ciao” (riflessioni di Mario Pulimanti)

Messaggio da Mario Pulimanti »

“Addio arcobaleno, ciao” (riflessioni di Mario Pulimanti)

Stasera di pensieri ce n’è un’insalata.
Un uomo patetico.
Ecco cosa sono.
Non sono tipo da restare a lungo di cattivo umore.
Non mi lamenterò.
I giorni delle lamentele sono finiti, ormai.
Sono nato a casa.
Al Testaccio, in via Bodoni 45.
Allora, si nasceva a casa.
E’ nata lì anche mia sorella, Antonella Maria.
Mio fratello Stefano è nato invece alla Garbatella.
Sempre a casa.
A Via Enrico Cravero 20
Ci eravamo trasferiti lì da poco.
Simonetta è nata invece a Collevecchio.
A via Cavone 1.
Come la sorella, Antonella.
Sì, avete capito bene: ho una sorella che si chiama Antonella e pure una cognata con lo stesso nome.
Viceversa, i mie due figli sono nati in ospedale.
Gabriele, il mio primogenito, è nato all’ospedale San Giacomo, alle 20 e 30 di sabato 18 ottobre 1986.
Mentre nasceva, la TV stava trasmettendo la sigla di apertura della trasmissione”Fantastico 7” con Pippo Baudo, Lorella Cuccarini, Alessandra Martines, il trio Lopez-Marchesini-Solenghi e Nino Frassica.
La sigla era “Tutto matto” cantata da Lorella Cuccarini.
Alessandro, il mio secondogenito, è nato all’ospedale Grassi di Ostia, alle 4 del mattino di mercoledì 9 novembre 1994.
Mentre nasceva, la radio stava trasmettendo lo splendido brano di Willie Nelson “Georgia in my mind”.
Lavoro al Ministero dell’Agricoltura.
Da 34 anni.
I primi 14 anni in Direzione, al personale.
Poi, per 18 anni sono stato all’Ufficio legislativo del Gabinetto del Ministro.
Giorni del miele e dello zenzero.
E poi due anni fa è arrivato il giorno della locusta e sono tornato in Direzione.
Pane amaro.
Indignazione.
Non riesco ad agire perché per tutto il tempo, nonostante gli scoppi d’indignazione, penso di commettere un terribile errore, una sequela di terribili errori.
Le cose non possono stare come io sono sempre più certo che stiano.
“Che cosa sto facendo?” mi chiedo sgomento mentre ritraggo il pugno che ha appena sfiorato la parete, contrito.
Chiaramente non sono saggio come Marco Aurelio Antonino, imperatore filosofo e valoroso.
Non so tenere una conversazione brillante.
Ma forse un ho pregio ce l’ho: sono abituato a contare solo su di me senza aspettarmi mai favori piovuti dal cielo, come mi aveva insegnato Nonna Jole.
Non posso dimenticarmi il suo volto saggio e profumato, gli occhi celesti e i capelli grigi raccolti dietro la testa.
Brrr.
Mi sento gelare a questi ricordi.
Lasciamo stare.
Simonetta è una donna che si preoccupa di tutto.
La lista delle cose di cui si preoccupa in ogni dato momento è interminabile: il benessere dei figli, per esempio, o l’inadeguatezza del nostro stipendio, o la macchia d’umidità sopra la finestra, o lo scricchiolio delle sue giunture ogni volta che si alza la mattina, o il libro che da tempo nostro figlio Gabriele deve restituire alla biblioteca comunale e non riesce più a trovare, o il riscaldamento del pianeta.
Ma in questo momento particolare ci sono due cose che le danno ulteriori motivi di preoccupazione: la minacciosa certezza dell’avanzare del tempo (Tempus fugit!) nonché lo stato della salute mentale di suo marito (vale a dire, del sottoscritto).
Mi dice: “Guardati intorno. Ci sono uomini che fanno jogging, che coltivano ortaggi, che vanno in bicicletta, che costruiscono case. La tua specialità è quella di essere negato per qualsiasi lavoro manuale”.
Questo vale anche per l’educazione dei figli.
Mi accusa di essere come Ulisse, l’Odisseo che lascia il figlio appena nato e quando lo riabbraccia ha venti anni e si è fatto uomo: Telemaco.
Difatti, a suo dire, mi sono ritrovato Gabriele ed Alessandro grandi senza aver fatto nulla, perché ha pensato sempre a tutto lei.
Del resto dice che la mia filosofia di vita è l’utilitarismo spinto.
In poche parole sarei un integralista dell’edonismo estremo.
Ognimodo ho due figli svegli.
Beh, per dirla giusta a volte non mi sento del tutto realizzato nella vita professionale e in quella creativa.
Malumori passeggeri.
Gabry dice spesso: “Alex mio fratello. Ed il mio più grande amico”.
Però da piccoli non era proprio così…
Ah, tra Gabriele e Alessandro qualsiasi contatto era fuori discussione finché non raggiungevano la privacy impenetrabile del salotto di casa.
Il casino era che il grande non amava avere il più piccolo tra i piedi.
Ma giunti a casa….
In quei tempi, col pretesto di disegnare, scrivere e colorare, in realtà si assestavano colpi di matita e pastelli negli occhi, nelle orecchie ed in altre parti del corpo, mentre guardavo impotente Simonetta che, sfigatissima, sembrava avere il sorriso teso e lo sguardo perso di chi non desiderava altro che essere trasportata il più lontano possibile.
Sembra ieri: ed oggi hanno già 27 anni l’uno e 19 l’altro.
Ormai due uomini.
Basta ricordi.
Meglio uscire, faccio un salto a Collevecchio!
Detto fatto.
Toh, guarda chi c’è proprio lì davanti a me.
Sandro con la moglie.
Sandro, un uomo potente, a differenza di me…
Il classico uomo, di quelli che ti sembra strano che siano stati anche loro bambini.
Ti dava l’idea di esserci sempre stato, di essere stato sempre così.
Anch’io, che l’ho conosciuto, mi ricordo che a tredici anni era più o meno come quando ne aveva quaranta.
Alto, secco, con un ghigno da faina e gli scrupoli morali di un colone delle delle SS.
Se io non lo faccio a te, prima o poi te me lo fai a me.
Era questo il suo motto.
Uno così deve mettere su famiglia per forza.
E una bella famiglia.
Si è sposato giovane con una ragazza timida.
Una di quelle bambine brave che quando sono piccole fanno quello che dice il papà, e quando crescono fanno quel che dice il marito.
Umile, discreta, al suo posto.
E brutta.
Brutta come una giornata senza pane.
Li saluto e continuo a passeggiare.
Arrivato alla Buchetta, mi fermo a parlare con Claudio.
E' attonito.
Sbuffa annoiato.
Non vuole più avere legami protratti.
Dice che le donne finiscono sempre per attaccarsi, per sviluppare sentimenti, per precipitare in quella sdolcinatezza affettiva che appiccica, puzza, incatena. “Viva le mogli e le puttane! Sono le uniche donne controllabili”.
All’improvviso, dico “Chi si é fatto da solo é un tossicodipendente solitario o un imprenditore di successo? E se Dio é immortale, perché ha lasciato due testamenti?”
Mi guarda.
Per un attimo rimane in silenzio, poi scoppia a ridere.
Stringo i pugni.
Quindi mi alzo.
Lo guardo sorpreso: sono già sul punto di inalberarmi.
Poi mi rassereno.
Ride.
Mi saluta e ritorna a casa.
La vita, si sa, è fatta di aspettative.
Si può essere felici nella vita?
A volte sì.
Stare in compagnia è meglio che stare da soli.
Grazie al cazzo, direte voi!
Ohi, ohi, immerso nei miei pensieri non mi accorgo di essere andato addosso a un ragazzotto.
Ci sono persone con cui si può essere scontrosi impunemente, e persone con cui bisogna avere delle cautele.
“Senta, signore, giochiamo a capirsi. ……faccia un po’ di attenzione…!”
Se, per esempio, siete un cinquantaseienne, fuori forma e con un ginocchio indolenzito, e la persona con cui dovete discutere è un ragazzotto cubiforme con il naso rotto, le orecchie a cavolfiore e un avambraccio tatuato con una svastica, un pochino di prudenza non fa male..
“Guardi, scusi, non l’avevo vista…”
E batto in ritirata.
Ho un leggero soprassalto, che per un istante mi fa dimenticare dove sto andando: non mi sono accorto di essere molto vicino al Convento.
Dunque in un attimo arrivo al Parco della rimembranza. Intorno a me, fiori.
Il cielo é limpido e il sole splendente.
Mi sembra di muovermi lateralmente, sempre più lontano dalla vita che mi sarebbe piaciuto fare, sospinto -dal destino o dalla incapacità do prendere decisioni giuste, che importa?- su terreni sempre più paludosi nei quali la virtù e le qualità che mi si riconoscono (ritengo di essere un uomo sensibile, discretamente colto, con un certo senso dell’umorismo, fondamentalmente buono) non servono a niente e i difetti di cui mi accuso (so di essere distratto, timoroso, poco determinato, persino ingenuo) finiscono col farmi affondare sempre di più.
Dite che sto parlando a coda di porco, intorcinata, non in forma esplicita?
Vabbè, ok.
Torno ad Ostia.
Mi siedo sul divano, di fronte al mare.
Ascolto Bob Dylan, a luci spente.
Mi inganna l’oscurità.
Sono un mercante di libri maledetti.
Fuori dal tempo.
Forse, non ho capito nulla.
Né qui, né altrove.
E morirò.
In terre lontane?
A Collevecchio?
A Ostia?
Sicuramente, sotto una cupola stellata.
Alle radici del cuore.
Addio arcobaleno, ciao.
Con un sospiro, mi raggomitolo sul divano e, rimanendo ad ascoltare il mare, penso a papà. “…e caddi come corpo morto cade.”
Scoppio a piangere lacrime meritate e, in un certo senso, benefiche.

Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)
Allegati
a1.jpg
Rispondi