Gabriele Pulimanti & Francesca Rea: ah… l’amore! L’amore qua

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Mario Pulimanti
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Gabriele Pulimanti & Francesca Rea: ah… l’amore! L’amore qua

Messaggio da Mario Pulimanti »

Gabriele Pulimanti & Francesca Rea: ah… l’amore! L’amore quando c’è!

E’ lunedì.
E’ il primo luglio.
Del 2013.
Ieri sera siamo andata a festeggiare i 50 anni di Rita al Tibidabo Beach di Ostia.
Rita Miani, nata il trentesimo giorno del mese di giugno, sotto il segno del Cancro.
30 giugno, come Lea Massari, Silvio Orlando, Tony Musante e Mario Carotenuto.
Rita Miani: mamma di Francesca nonché moglie di Marco Rea.
La loro Ottica la potete trovare a Via Capitan Casella 31/A.
Ottica Rea, ovviamente.
Francesca, la fidanzata di Gabriele.
Gabriele, detto Gabry.
Il mio primogenito.
E di Simonetta D’Ippoliti.
Moglie. Mia.
E madre. Sua.
Ora sono in macchina.
Sto tornando da Fiumicino.
Fiumicino Aeroporto.
Via della Scafa, direzione Ostia.
L’unica macchina silenziosa in tutta l’ingorgo.
Devo essere il solo guidatore che si astenga dal mantenere una pressione costante sul clacson.
Non è che gli altri ci guadagnino chi sa che a strombazzare.
Non gli vedo spuntare le ali, ai loro catorci.
Né che le macchine da cui sono circondati si ritirino come le acque del Mar Rosso davanti a Mosè e agli ebrei inseguiti dal farabutto, o quel che era.
Fermi sono e fermi rimangono.
Esattamente come il sottoscritto.
Per questo mi posso permettere il giochino con le dita che mi aveva insegnata nonna Leonella.
Non è che ci sia un gran che da fare, a stare chiusi in una macchina ferma senza nemmeno una copia della Enciclopedia Treccani sottomano.
Finito di giocare con le chiavi, mi metto a studiare oziosamente le facce visibili al volante delle macchine che assediano la mia decrepita Ford Fiesta.
Sono tutti incastrati per bene all’incrocio tra Via della Scafa e il Ponte della Scafa, che è il ponte che passa sopra il fiume Tevere e che divide i comuni di Roma (Ostia) e Fiumicino.
Anch’io, come altri guidatori, ho i finestrini aperti per vedere meglio la situazione dell’ingorgo.
Cavolo, il traffico in questa strada è diventato letteralmente impossibile da anni e anni, e comincia già dallo scalo aeroportuale.
Uno scenario di automezzi fermi o che camminano a passo d'uomo.
Intanto, mi crogiolo in un umore meditaticcio.
L’autoradio mi sta facendo ascoltare “Over the Rainbow” (anche nota con il titolo “Somewhere Over the Rainbow”).
Il titolo significa letteralmente "Oltre ll’arcobaleno".
La versione originale è cantata da Judy Garland per il film “Il mago di Oz”, del 1939.
Quella che sto ora ascoltando è la famosa versione del cantante hawaiano Israel “IZ” Kamakawiwo’ole, soprannominato “Gigante buono”.
Morto nel 1997 all'età di 38 anni.
Nell'ultima parte della sua vita IZ divenne obeso e arrivò anche a pesare 340 Kg.
Versione stupenda.
Voce meravigliosa.
E' una delle poche canzoni che riesce a farti venire i brividi.
Una ballata dolcissima con la quale Iz ti culla delicatamente.
E l'ukulele come unico strumento, col suo suono particolarissimo, rende indimenticabile una canzone già unica.
Penso ai salesiani del testaccio.
Don Aurelio Galoppo amava citare spesso questo verso del Vangelo di Matteo: “Osservate i gigli del campo. Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano....”
Don Galoppo, amico di nonno Angelino.
Inoltre professore di papà e di zio Romolo.
E poi anche di me.
Penso ai tempi di Jimi Hendrix e Janis Joplin.
Allora non vedevo l’ora di andare all’università.
Per quanto mi riguardava, era lì che la vita diventava davvero emozionante, a differenza del noioso e vecchio liceo: ginnasio dai salesiani al “Sacro Cuore” e negli ultimi due anni al liceo della Garbatella, il “Socrate”.
In questi posti mi trattavano ancora come un ragazzino e nessuno si interessava a quello che pensavo del mondo.
E’ infatti all’università che sono diventato un vero studente.
Alla “Sapienza”.
Partecipavo alle manifestazioni di GS e a cose di quel tipo.
Poi ricordo i mie primi giorni di lavoro.
Neoassunto e infimo nella gerarchia.
Con uno zelo da ultimo arrivato profondevo su quelle antiche pratiche settimane di fatica, e ancora mi stavo arrovellando su quali fossero necessarie e quali superflue quando mi chiamarono dalla direzione e mi dissero che c’era un lavoro importante di un collega in malattia.
Io avrei dovuto sostituirlo, il che comportava la piacevole incombenza di redigere relazioni su prestigiosi istituti di ricerca italiani.
I Ministeri, si sa, sono i luoghi meno discreti dell’universo conosciuto perché sono saturi di microspie.
Niente di tecnologico, per carità.
Sono microspie umane, soggetti geneticamente modificati per acquisire un superudito e una supervista.
E poi, siccome hanno pure la lingua geneticamente modificata, la usano per rendere edotto il resto del mondo delle loro scoperte.
Chi sa dove arriverei con i miei onanismi mentali se il vicino di sinistra non decidesse di dare una svolta a quel nostro pezzo di vita in comune, mettendo in moto il suo MP3, o quel che è, caricato a lupara con il classico shtump-shtump-shtump, il rumore che vendono solo ai proprietari di Suv e di auto prive di vetri ai finestrini.
Glielo forniscono direttamente incorporato nella carrozzeria o nelle marmitte.
Forse il titolare di quel rumore ha scatenato ad alzo zero tutti i cavalli vapore dei suoi woofer e subwoofer con la speranza di annichilire e ridurre in poltiglia il parco macchine altrui.
Al punto che mi confondo e invece di tirare su i vetri e sigillare i finestrini suono il clacson.
L’effetto è inquietante: le macchine davanti a me, di colpo, cominciano a scorrere.
Mi lascio superare dal mio vicino di sinistra, perché voglio darli una bella occhiata in faccia.
Un classico ripieno da Suv.
Il titolare della faccia è un palestrato, un taglia 54 con la testa rasata, occhiali neri avvolgenti, mascellone aggressivo e bomber fornito di cappuccio, che alla bisogna deve tirarsi sulla testa, a scopo profilattico.
Mi sembra che abbia persino un accenno di bava alla bocca.
Invece la bava appartiene al cane recluso nell’apposito box, un rottweiler o chi sa quale altra marca di cane politicamente scorretta, con un tipico sguardo da disturbo bipolare.
Comunque, è problematico capire dove finisce il cane e dove comincia il tanghero palestrato.
Lascio sfilare il Suv davanti a me, e per un secondo mi viene la tentazione di mostrare il dito medio alle due malebestie; mi astengo.
Così mi limito a mostrare i denti al cagnaccio, che mi ignora di brutto, perché deve sentirsi rintronato ancora più di me dai colpi di grancassa e di tomtom delle batterie.
Infatti ha il pelo irto.
Mi fa quasi pena.
Per buona misura permetto ad un paio di altre macchine di insinuarsi tra me e il Suv.
Ho deciso di prendermela con comodo, oggi pomeriggio.
Dopo essermi districato dall’ingorgo e dal palestrato con rottweiller, a qualche centinaio di metri da casa comincio a cercare posto per la macchina.
Il vero problema, non è trovarlo, il posto, perché dopo le sei non è molto complicato.
Il vero problema si presenta la mattina dopo, quando ti tocca dare a caccia dei proprietari della macchine che ti impediscono di uscire.
Quindi, bisogna avere la pazienza e la fortuna di pescare un posto difficile da accerchiare.
Trovo un buco decente non lontano da casa mia.
Entro nel bar Morganti.
Quello di Gioacchino.
Carmelo prepara il caffè maledettamente bene.
In quel momento squilla il telefono.
E’ mia sorella.
“Mario, come va?”
“Mi stanno calando gli ormoni, Antoné”.
“Ih, e che problema c’è? Pure a Carmine. Da un pezzo. Ma lui ancora non lo sa”.
Carmine è il suo compagno, nonché il mio unico quasi-cognato, dato che Antonella è mia sorella.
Prima era sposata con Marcello.
Marcello D’Amelio, architetto nonché padre di Serena.
Bevo il caffè ed esco dal bar.
Incontro Luciano Colantoni, presidente del Teatro Nino Manfredi nonché grande amico.
Mi chiede come è andata la giornata.
“Sedute di commissioni per tutto il giorno. Seguite da ingorgo di ottanta minuti, con rumoraccio, cane assassino, e coglione taglia 54”.
Mi guarda interdetto, in attesa di spiegazioni che non arrivano.
Poi alza le spalle e mi saluta.
Mentre cammino verso casa pregusto il film che avrei messo sotto il raggio laser del DVD per dilavare il saporaccio dello shtump-shtump-shtump: “Moulin Rouge” con Nicole Kidman, versandomi convenienti razioni di Scott's Selection Macallan nel mio bicchiere preferito.
Whisky scozzese dal sentore di torba per accentuare un sapore che è caldo e cremoso.
Sto per infilare le chiavi nella toppa, quando mi ricordo dell’ammonimento del dottor Graziosi.
Giulio Graziosi, il mio medico di fiducia, l’altra settimana mi ha detto: “Mario, a causa della tua età…e dei tuoi trigliceridi… si manifesteranno presto vertigini, stanchezza e perdita della libido. Quindi: passeggiate, cibi dietetici, poco sesso e niente alcol”.
E’ tutto finito.
Io sono finito.
Scandaloso.
Al ricordo dell’ammonimento del dottor Graziosi un senso di paura cresce dentro di me.
Terrore esistenziale.
Lo zucchero, l’alcool, il sesso: senza di loro, cos’altro rimane?
Mi sento vecchio, stanco e inutile e persino spaventato.
L’inquietudine aumenta, mentre faccio un rapido dietro-front.
Ok, del resto dicono che camminare molto sia il segreto di un’eterna mezz’età.

Il tizio che mi saluta sembra un Testimone di Geova.
Ha i capelli cortissimi, una camicia bianca e una targhetta con il nome.
Non riesco a leggerla.
Volto a destra e tiro diritto in direzione mare.

Trascinato dai miei pensieri.

“Mariuccio!”

Mi sento chiamare.

Un troll di montagna.

Quel frammento di umanità napoletana che abita di fronte a me.

Una specie di orco, con le orecchie da pugile e il naso da pugile.

Mi offre una mentina.

Intanto, si lamenta che i dirigenti del Napoli vogliono vendere Cavani.

Supero la rotatoria vicino alla posta centrale vedo due persone accanto alla strada con il pollice alzato.

Una di loro è una ragazza.

Una ragazza carina, per quel che posso giudicare.

Forse anche l’altra è una ragazza.

Difficile dirlo.

Le sorpasso.

Arrivo al pontile di Ostia.

E’ un pomeriggio magnifico, l'aria odora come il reparto profumeria di Panorama.

Adoro Ostia: il blu del mare, il rosa delle bouganvillee, il verde delle palme.

Oggi il grafico del mio umore assomiglia sempre più al profilo frastagliato di una catena montuosa, con vette e valli, picchiate e impennate.

Intorno a me centinaia di persone che cercano di spremere alle ultime ore della giornata il loro inutile succo di gioia razionata.

Intorno a me, donne.

Donne sessualmente insoddisfatte.

Donne maritate e ben scopate dentro e fuori casa.

Molte strillano come una cinghia oliata male.

Intorno a me, uomini.

Incoerenti, lunatici, curiosi, sordomuti.

Mistici.

Mah…non importa che la tua fede discenda da Geremia e da Gesù, da Allah e da Maometto, o da Brama e Buddha, qualcuno ti dirà che sbagli e per questo ti combatterà.

Diamine, il groviglio dei miei pensieri è sempre lì, e ristagna come la fuliggine nei comignoli.

Penso a papà.

Lui, il poeta Antonio Valeriano Pulimanti, ha più volte mostrato il proprio coraggio, ma ancora di più ne ha dimostrato nell’ultima battaglia, quella contro la malattia che nel giorno di pasquetta del novantadue lo ha ucciso, ma non piegato.

Sì, l’ho visto accadere.

E’ l’effetto del cortisone, principalmente.

In questi casi viene somministrato spesso, aiuta il paziente a tenersi su.

E ha anche un effetto tangibile sul morale: uno si sente sicuro di sé.

Allegro e sfrontato, mi capite?

E’ stato di quell’umore lì per qualche settimana.

Poi…

Respiro a fondo.

Poi é cominciata la parte brutta.

I capelli che cadono.

La nausea continua.

La diarrea.

La debolezza che ti parte dalle ossa, come se ti avessero cambiato il materiale di cui è sempre stato fatto il tuo corpo.

E il buonumore che scompare, da un giorno all’altro.

E così arriva quel maledetto giorno di pasquetta del novantadue.

Papà.

Le persone che l’hanno conosciuto affermano che sono il suo ritratto.

Se sono in difficoltà, penso: papà ti prego fai qualcosa.

Lo so che ci sei, da qualche parte.

So che mi vedi.

Ho sempre fatto tesoro dei suoi consigli.

So quando è il tempo di passare all’azione o di starne fuori.

Tuttavia ci sono cose che facciamo perché ne abbiamo voglia e altre che facciamo perché ci tocca.

Questione di sopravvivenza.

Passo la mano sui miei capelli bianchi.

Ho delle priorità e, per quanto mi riguarda, la vanità non ne ha mai fatto parte.

Non sono tipo da vantarmi delle mie doti ben sapendo che la superbia può trasformarle in debolezze.

Mi stringo le mani.

Sembro sul punto di iperventilare.

Falso allarme.

Penso a nonno Angelino.

Parlava poco, ma ogni parola era pesata.

Papà Valeriano glielo rimproverava ma lui lo guardava e diceva: “Ascolta il vento, figlio mio. Il vento parla”.

Sono abituato a contare solo su di me senza aspettarmi mai favori piovuti dal cielo, come mi aveva insegnato nonna Jole.

Iolanda Talocci, detta Jole.

Moglie di Vittorio Aloisi e madre di Romolo, Alberto ed Ernesta.

Nonché suocera di Romolo Aloisi e Maria Adele Cannella.

Vabbé, due Romoli: uno nonno, l’altro nipote.

Non posso dimenticare il volto saggio e profumato di nonna Jole, gli occhi celesti e i capelli grigi raccolti dietro la testa.

Brrr.

Mi sento gelare a questi ricordi.

Penso a Simonetta.

Figlia di Rosato D’Ippoliti -che per molti anni è stato Presidente della Confraternita di San Bernardino- e di Venia Vittori, zia di Alessandro Nesta, il calciatore.

Simonetta é una donna che si preoccupa di tutto.

La lista delle cose di cui si preoccupa in ogni dato momento è interminabile: il benessere dei figli, per esempio, o l’inadeguatezza del nostro stipendio, o la macchia d’umidità sopra la finestra, o lo scricchiolio delle sue giunture ogni volta che si alza la mattina, o il libro che da tempo nostro figlio Gabriele deve restituire alla biblioteca comunale e non riesce più a trovare, o il riscaldamento del pianeta.

Ma in questo momento particolare ci sono due cose che le danno ulteriori motivi di preoccupazione: la minacciosa certezza dell’avanzare del tempo (Tempus fugit!) nonché lo stato della salute mentale di suo marito (vale a dire, del sottoscritto).

Mi dice: “Guardati intorno. Ci sono uomini che fanno jogging, che coltivano ortaggi, che vanno in bicicletta, che costruiscono case. La tua specialità è quella di essere negato per qualsiasi lavoro manuale”.

Questo vale anche per l’educazione dei figli.

Mi accusa di essere come Ulisse, l’Odisseo che lascia il figlio appena nato e quando lo riabbraccia ha venti anni e si è fatto uomo: Telemaco.

Difatti, a suo dire, mi sono ritrovato uomo il laureato ventiseienne Gabriele e maggiorenne il diplomato diciottenne Alessandro senza aver fatto nulla, perché ha pensato sempre a tutto lei.

Del resto dice che la mia filosofia di vita è l’utilitarismo spinto.

In poche parole sarei un integralista dell’edonismo estremo.

Ognimodo ho questi due figli svegli.

Beh, per dirla giusta a volte non mi sento del tutto realizzato nella vita professionale e in quella creativa.

Malumori passeggeri.

Penso a mamma.

Ernesta Aloisi.

Di che cosa è morta il 29 luglio dell’anno scorso?

Della stessa cosa di cui muoiono tutti, alla fine: per una serie di circostanze.

Forse aveva una malattia che non poteva essere curata.

Non c’è stato nulla da fare.

Ma adesso è inutile parlarne.

Adesso.

Mmh.

E allora dov’è il problema?

Mi chiedo: che c’è oltre la memoria?

Senza farmi vedere da nessuno, piango.

Penso a Gabriele e al suo concorso per Notaio.

Penso a Alessandro e al suo diploma.

Penso allo stipendio.

Penso a Stefano.

Con orgoglio.

Gli sono infinitamente riconoscente.

Perché mi capisce.

Perché mi aiuta.

Perché c’é.

Non é solo un fratello.

E’ un amico.

Questo uomo é assolutamente fuori dall’ordinario.

Penso al teatro.

La coscienza.

Maledetta coscienza.

Alimentata da un’educazione raffinata.

Fatale.

Penso a un amico.

Prima della morte della moglie, credente doc.

Ma in questi giorni non riesce più a pregare.

Lo zelo della sua religione originaria si è intorpidito, rivestito com’è da strati spessi e duri di sapere, cultura e cinismo.

I paradossi della teologia hanno cessato di sorprenderlo, e il brivido delle controversie mistiche hanno perso il suo fascino.

Ai suoi amici ora dice: “Davide, in un salmo di pentimento, rivolgendosi al Signore, chiede: Lavami, e sarò più bianco della neve. Più bianco della neve, figurarsi! Piuttosto lercio come il fango schizzato delle auto.”

Oltre le apparenze.

Penso a Collevecchio, il paese sabino di papà e di Simonetta.

La signora Maria mi faceva vedere come si castravano i galli, nell’ottica di preparare i capponi ai quali tirare il collo per Natale, e alla cantilena con la quale accompagnava una sorta di gesto magico, bagnando il becco del povero animale nel catino pieno di acqua e aceto nel quale gli aveva disinfettato al ferita: “ C’era un gatto tutto rosa che cercava la sua sposa, la sua sposa non c’è più ed il gatto adesso è blu”.
Poi un nostro vicino, amico di mio nonno, mi offriva sempre dei dolci appena sfornati dalla moglie.
Era un uomo alto e tarchiato, largo quasi quanto era alto, ma muscoloso e sano.
Indossava spesso uno stretto gilet sulla camicia e un paio di ampi pantaloni.
Forse allora non avrà avuto più di quaranta anni, ma il lavoro dei campi lo aveva invecchiato, come dimostravano le rughe profonde e la pelle ruvida sul suo volto robusto.
Penso a Valter.

Amico.

Da sempre.

Abbiamo studiato sempre insieme.

Al liceo.

All’Università.

Ora è diventato Prefetto.

Sicuro di sé, non ha difficoltà a sostenere lo sguardo di nessuno.

Liliana è l’attraente donna dai capelli biondi che l’ha sposato.

Insieme al marito è stata la mia testimone di nozze.

Il suo sorriso va dall’esuberante al seducente.

Penso a Giorgio.

Amico.

Un bell’uomo dal volto importante.

Non fuma.

Non beve.

Non indulge in lussi di alcun genere.

Penso a Ferruccio.

Marito di Silvia, l’allegra psicologa.

Lui é sempre in eccellente forma fisica.

Ama indossare camicie button-down senza cravatta, jeans e scarpe sportive.
Penso ad un collega.
Un saccente che te lo raccomando, tutto quel che dici sbagli.

Quando gli daranno il Nobel sarà ancora poco.

Penso ad una collega.

Femmina.

Aspetto scialbo, fianchi pesanti, capelli castani, corti, con taglio tutte punte, tipo Peter Pan.

Accidenti!

Quella donna riesce sempre a rendermi più triste di una vedova senza pensione.

Penso a un’altra collega.

Racchia.

Tutta casa, avemaria e padrenostro.

Intanto, sciabolate di luce cade a pioggia sulla terra.

Come lacrime del cielo.

Aculei d’ortica mi dilaniano il torace.

Penso ancora all’ufficio: stamattina è entrata una collega nella mia stanza.

Un donnone di un ufficio del Gabinetto.

Mi ha chiesto lo stato dell’arte di una pratica.

Le ho risposto.

Il donnone ha ciondolato il capo dubbioso.

Poi è uscito maestoso portandosi dietro mezzo quintale di fondoschiena.

Spesso e volentieri mi capita di fare sogni senza capo né coda.

Cosa sogno?

A volte, la Kidman.

Ma non è stato un gran che come sogno, dico poi con faccia di cuoio ad una perplessa Simonetta.

Penso: in Europa gli ospedali vanno a pezzi.

In Cina campagne allo stremo.

In America latina case confiscate.

In Africa corpi di bambini avvelenati con cibi sospetti.

Nei paesi integralisti menti all’ammasso.

In Iran lo spirito vitale del paese straziato, ridotto all’ultimo respiro.

Nei paesi dell’est i posti di lavoro si assottigliano.

Grido.

Grido senza sentire la mia voce.

Schegge di consapevolezza mi lacerano dall’interno, graffiando il torpore stagnante della mia mente.

Sono in trappola.

Completamente in trappola.

E non so come uscirne.

Mi sento come un pesce nella rete di un pescatore esperto che non ha fretta di agguantare la preda.

Sì, sono in trappola.
Più di quanto lo sia mai stato in vita mia.

Sento i pensieri rimbombarmi in testa, tutt’intorno, trasportati da una strana eco che non riesco a riconoscere.

Il nulla mi circonda o è dentro di me?

Un alito di vento mi accarezza il viso, leggero come un sussurro.

Sta accadendo qualcosa…

Un angelo.

Simbolo di libertà.

Lo vedo avanzare come in un sogno.

Bianco.

Candido.

Puro.

Talmente splendente da riflettere i raggi del sole.

I suoi movimenti aggraziati non tradiscono la minima incertezza.

Per un attimo vorrei essere come lui.

Ora che lo vedo così da vicino, é più bello di quanto vorrei.

Il suo sguardo è troppo dolce e profondo per non fare male.

Mi lascia senza fiato.

“Era un pò di tempo che ti stavo aspettando” sembra dirmi “dove sei stato tutto questo tempo?”.

Taccio.

Non ho parole per rispondere alla sua domanda.

Ma solo un semplice gesto.

Una carezza.

Un gesto che suona come un: “Lo so…mi dispiace averti fatto attendere così a lungo…”

O che forse, non ha altri significati oltre a quello della sua estrema naturalezza.

Il luogo non ha nessuna importanza…non l’ha mai avuta.

Finalmente me ne rendo conto.

Lascio che i pensieri dell’angelo apparso di fronte a me crescano, saturino l’aria.

Li trovo bellissimi.

Armoniosi come uno spartito di note invisibili.

E non posso fare altro che ascoltare.

Quando l’essenza delle cose riesce a sfiorarti, é sufficiente lasciarsi prendere per mano senza
voltarsi indietro.

Senza tormentarsi sulla causalità di un incontro.

O di un addio.

Ora ho le chiavi per abbandonarmi alla carezza del vento.

Oltre l’orizzonte.

E non posso smettere di sorridere, nemmeno mentre una anziana signora mi sorpassa.

Porta il suo cane a insozzare qualche altro marciapiede.

Intanto una ragazza della scuola guida sta cercando di compiere un’inversione.

Non riuscendoci.

L’istruttore deve essere un tipo paziente.

Eccolo, il mal di testa!

Rombi di tuono mi pulsano alle tempie e mi sembra di veder baluginare sottili filamenti di fulmini, che subito svaniscono.

Mi stringo le tempie con la punta delle dita, i gomiti all’infuori, in parte per placare il martellamento.

Mi appoggio al bordo del parapetto del pontile.

Alzo gli occhi.

Il cielo è sereno.

L’indaco lambisce il turchino e il violetto carezza il turchese fino a sfumare nel grande respiro dell’infinito.

Dio che spettacolo!

Perché gli uomini hanno smesso di guardare il cielo?
Davanti a me, una barca.

Dietro, una coppia.

Lui, anziano.

Avvinghiato a una giovane donna, tradisce sua moglie.

Un amplesso violento.

Animalesco.

Antico.

Sto sudando freddo.

Dalle mie riflessioni mi scuote improvvisamente una mano sulla spalla.

E’ Gabriele.

Gabriele non ha paura di dire ciò che pensa.

Lui esprime sempre le sue idee.

Però non è uno sconsiderato.

Sostiene che a meno che un individuo non sia particolarmente versato nell’arte della retorica, le parole che pronuncia in un luogo pubblico ben presto volano fuori dal suo controllo, come foglie al vento.

Una verità innocente può essere stravolta in una menzogna fatale.

Ecco perché non parla di politica fuori di casa.

O con estranei poco affidabili.

“Stai bene, papà?”

Traendo un profondo respiro, dico: “Così e così. E’ colpa di questa umidità terribile e innaturale. E’ come un castigo. Secondo me, intorpidisce il cervello e brucia lo spirito”.

Gabriele mi guarda, si siede vicino a me.
Decidiamo di andare a prenderci una birra all’Old Wild West, il ristorante texano-messicano che si trova proprio a Piazza dei Ravennati, di fronte al Pontile.
Locale carino.
Durante il periodo universitario Gabry ha lavorato qui alcuni mesi.
Per pagarsi una vacanza.
Con i suo amici del cuore: Michelangelo, Tommaso e Saverio.
In Calabria.
A Diamante, in occasione della festa del peperoncino che si tiene ogni anno nella prima settimana di settembre.
Ora è fidanzato.
Da un anno.
Con Francesca Rea.
Non Rea Silvia, sia chiaro!

Cavolo: é lei la splendida fanciulla che, entrata ora nel ristorante, si viene a sedere nel nostro tavolo.

Le ha infatti telefonato Gabry, invitandola a raggiungerci.

Gabry e Francesca.

Salutandomi, mi fissa con occhi di donna.

Poi bacia Gabry.

Si nota lontano un miglio che sono magicamente innamorati.

Occhi che si cercano.

Sguardi prolungati.

Strette di mano che sono carezze.

Baci sulle guance con labbra troppo premute.
Ieri Gabry mi ha detto che lui e Francesca sanno esattamente quali tasti toccare per far perdere le staffe l’uno all’altra, e la difesa diventa presto attacco una volta che le parole hanno preso l’abbrivio.
Ma poi tutto si conclude con un lungo bacio.
“Perché?”, gli ho chiesto.
“Perché Francesca ha lo stesso profumo del paradiso”, mi ha subito risposto.
Mentre li osservo, mi vedo tra le braccia di una ragazza con capelli lunghi e riccioli neri.
Vedo i contorni di un mazzo di rose sul davanzale della sua finestra, che oscilla alla brezza notturna.
Sento uccelli cantare qua e là e, da lontano, la musica dell’estate collevecchiana degli anni settanta.
Sento un bisbigliare fitto fitto nell’orecchio.
Sento un “ti amo” e sento che dalla gioia mi si rizzano i peli, ora!
Ora, in questo istante!
Nello stesso tempo penso a quello che Gabry mi ha confessato sabato, in un momento particolare: cioè davanti a due Cuba Libre.
“Papà” mi ha detto “una sera dell’estate scorsa, alla fine di giugno, qualcosa ha posto fine alla monotonia in cui mi sentivo intrappolato. Stavo bevendo una buona Guinness, per togliermi la sete. E’ stato allora che, all’ombra fresca di un gazebo, stordito dalle chiacchiere inutili dei partecipanti ad un’inutile festa, mi sono innamorato. Francesca l’ho vista mentre assaporavo il lieve aroma alcolico della birra. Accompagnata da un alone di ottimismo e gioia, camminava con passo svelto, e ha sorriso quando è passata accanto ad alcune sue amiche. Mi è sembrato di vedere un angelo. Aveva una risata deliziosa, cristallina e delicata. La bocca e le labbra erano perfetti. I capelli, sciolti al vento, avevano il colore biondo mediterraneo: quel biondo né troppo acceso né troppo spento, tipico delle ragazze mediterranee. Gli occhi erano chiari e il fisico slanciato, le guance soffuse di un lieve rossore. Superandomi, ha lasciato dietro di sé un meraviglioso profumo delicato. Ne sono rimasto stregato. Ho subito temuto che i miei sentimenti non sarebbero mai emersi dalle brume del sogno. Mentre mi struggevo a guardarla, pensavo che con ogni probabilità non avrei mai scambiato una sola parola d’amore con lei in tutta la mia vita. Mi ero davvero innamorato? Non avrei mai pensato che una cosa del genere potesse accadere proprio a me, a Gabriele Pulimanti, così freddo e razionale. Ma subito qualche giorno dopo ho capito che il sentimento che nutrivo per lei, qualunque esso fosse, aveva cominciato a offuscarmi la mente. Che assurdità! Se nemmeno la conoscevo bene…Sì, l’amore è proprio strano. E’ facile giudicare gli altri dall’esterno, come se fossero formiche intrappolate dall’inevitabile forza delle emozioni. C’è persino chi, per amore, si macchia di un crimine, ruba o commette strane azioni. Era facile trovare ridicolo, compatire quelle povere e ingenue persone che si comportavano in modo tanto idiota. Lassù, sulle vette della ragione, mi sono sempre creduto al di sopra del bene e del male. E adesso mi toccavano le prime lezioni di umiltà. Non era affatto semplice, se succedeva a te. Perché allora la razionalità non si vede neanche da lontano. Non riuscivo a pensare ad altro che a trovare un modo per incontrarla, per avvicinarmi a lei e rubarle uno sguardo, contemplare di sguincio il suo bel viso, ascoltare la sua risata. Ero un emerito imbecille. Come avevo potuto innamorami di una ragazza a prima vista, dimenticandomi di tutto? Che mi venga un colpo se ci capivo qualcosa. Semplicissimo, invece: Francesca era la ragazza dei miei sogni. Proprio così. Niente riusciva a farmi scordare le pene d’amore. E i giorni passavano. Finché non l’avevo incontrata di nuovo due settimane dopo alla Biblioteca Elsa Morante. L’avevo invitata la sera a mangiare una pizza, da”Anema e core”. Da allora stiamo insieme. E lo saremo sempre. Perché con lei, così splendida discendente di Venere, sogno prati fioriti”.
Gabriele e Francesca: contenti.
E tanto!
Ah, l’amore.
L’amore quando c’è!
Oh, Signore!
Ok: pago il conto e li saluto.
Rientrato a casa decido, anche se è tardi, di dedicarmi al bricolage domestico fin tanto che non arrivino gli altri componenti della Pulimanti’s family.
In questo momento mi sento felice.
Più felice di quanto non mi sia sentito da molti giorni e molte ore.
Sarà stata l’aria del pontile.
Sarà stato l’aver visto una coppia così innamorata!
Non so cosa mi spinga, dopo sei mesi di buoni propositi e tergiversazioni, a riparare il buco sbrindellato sopra la porta della cucina nel punto in cui l’elettricista ha portato i fili per un nuovo allacciamento.
Comunque, va tutto per il verso sbagliato sin dal primo momento.
Lo stucco in polvere, comprato quasi due anni prima, si è indurito come un blocco di cemento e la rudimentale scaletta che ho in casa non è mai stata stabile sulle sue gambe traballanti.
Ma qualunque sia stato il motivo del mio improvviso bisogno di riempire quel maledetto buco, sprofondo in verticale dalla cima della scala, come un paracadutista in caduta libera.
Cado sul piede destro con dolore lancinante, resto a terra per un paio di minuti con un senso di nausea, asciugandomi il sudore freddo che mi si forma sulla fronte, e finalmente zoppicando riesco a raggiungere la sala da pranzo dove, con il fiato grosso, mi siedo sul divanetto.
Dopo un po’ il male si attenua e mi sento alquanto rassicurato, ma mezz’ora più tardi compare il gonfiore mentre fitte strazianti e improvvise mi tormentano il collo del piede.
Riuscirò a guidare?
So che è assurdo solo provarci.
Sono le otto di sera.
C’è solo una cosa da fare.
Arrancando e barcollando raggiungo il telefonino e chiamo Gabry.
E, nel giro di mezz’ora, mi ritrovo a sedere sconsolato nella sala d’aspetto del pronto soccorso dell’Ospedale Grassi di Ostia, in attesa dell’esito delle lastre.
Ora mi sento un po’ depresso.
Alla fine sono visitato da un medico giovane che contempla le mie lastre con tutto l’interesse di un invitato annoiato che dà un’occhiata fuggevole alle diapositive delle vacanze del suo ospite.
“Niente di rotto”.
Mi prescrive un bendaggio e le stampelle fornite dall’ospedale.
Esprimo la mia gratitudine nei confronti del medico e, vacillando esitante, torno da Gabry che mi aspetta.
“Lei” mi grida il medico da dietro le spalle.
“Lei, Pulimanti. Due giorni niente lavoro. Riposo. Ok?”
“Non si preoccupi, grazie” dico.
“Lei, Pulimanti. Vuoi guarire, eh? Niente lavoro. Due giorni. Riposo. Ok?”
“Ok”.
Oh, Signore!
Ritorno a casa.
Dopo che Gabry se ne è andato, resto a sedere con le mani congiunte davanti alla faccia, le punte delle dita che si toccano e gli occhi chiusi, come se pregassi una benevola divinità di gettare una luce sul mio sentiero oscuro.
Ma, sia pur senza volerlo, ho da tempo fatto la tara all’idea che esista un qualsivoglia agente sovrannaturale.
Sto solo pescando con pazienza nelle acque torbide della mia mente.
Squilla il cellulare.
E’ Simonetta.
Mi avvisa che è andata a Collevecchio.
Con Alessandro.
Decisione improvvisa.
Gabry l’ha appena avvisata del mio piccolo incidente.
“Dunque?” dice Simonetta appena mi sente.
“E’ molto, molto doloroso. Per via delle terminazioni nervose o qualcosa del genere. Ma in fin dei conti è solo una contusione” rispondo io.
“Ok, torniamo domani. Bè, anche se non te lo meriti, ti auguriamo una buona serata”.
Perfetto: Gabry prima di andare via è passato in rosticceria, comprandomi una porzione di lasagne e di filetti di spatola.
Stappo una bottiglia fredda al punto giusto di uno zibibbo secco di Pantelleria e ne assaggio un sorso: un balsamo.
Spazzolo via tutto con lentezza, assaporando ogni boccone e ogni sorso.
C’è pure un residuo di gelato in freezer.
Accendo un attimo il pc per controllare le ultime notizie.
A dire il vero, il pc lo uso solo quando non posso farne a meno.
I fondamentalisti del cyber spazio e i fanatici che provano un orgasmo solo quando trafficano con le frattaglie dei computer, continuano a indurmi sospetto, cautela e circospezione.
Uno non fa di tutto per sfuggire a una possibile morte per avvelenamento da chiacchiericci e maldicenze, per farsi poi intossicare dai lagnosissimi blogger notturni, portatori sani di sfortuna.
Intanto dalle finestre aperte davanti a me vedo il buio che scende su Ostia.
Entra un venticello caldo profumato di mare.
Ormai l’estate è arrivata.
Per tutti gli dei, mi va a genio l’atmosfera di questa notte.
Mi siedo in poltrona.
Nicole Kidman in tutto il suo splendore e la sua bravura mi accompagna fino a notte inoltrata.
Poi vado a letto.
Mi sveglio alla tre del mattino, in preda al sudore.
Temo che per questa notte non chiuderò più occhio.
Così mi metto seduto, prende il bicchiere d’acqua che ho lasciato sul comodino e lo prosciugo, quindi lo riempio di nuovo.
Mancano diverse ore all’alba.
E queste sono le ore peggiori, le ore in cui le mie insoddisfazioni hanno la meglio su di me.
Oh, sì, l’unica soluzione è alzarsi e provare a fare qualcosa per distrarmi.
Ripenso a Gabriele e Francesca: contenti.
E tanto!
Ah, l’amore.
L’amore quando c’è!
Non ho intenzione di camminare per casa a questa ora del mattino, così accendo l’abat-jour, prendo “ I pilastri della terra” di Ken Follet dal comodino e mi appoggio con la schiena sui cuscini per leggere.
Quando la pallida luce dell’alba comincia a diffondersi su Ostia, il libro ormai mi è caduto sul petto e io sonnecchio tranquillo, immerso in un sonno privo di sogni.

Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)
Allegati
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