QUATTRO CHIACCHIERE E UN PAIO DI JEANS

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Mario Pulimanti
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QUATTRO CHIACCHIERE E UN PAIO DI JEANS

Messaggio da Mario Pulimanti »

:blob5: QUATTRO CHIACCHIERE E UN PAIO DI JEANS


(agghiacciante novella pulimantiana)






Vagare senza meta a Ostia, senza doveri né obblighi da assolvere, dà una piacevole sensazione di libertà.

La mia unica preoccupazione riguarda le persone che non desidero incontrare, anzitutto rigidi integralisti e falsi amici.

Sono fortunato.

Incontro una prima amica.

E’ bella in modo sconcertante con i capelli neri lisci con la frangetta e grandi occhi nocciola.

Ha un cane al guinzaglio.

Pastore.

Puzza.

Appunto.

Del resto non si può impedire a un cane di puzzare di cane.

Incontro una seconda amica.

Ha un accento che non sono mai riuscito a identificare.

Probabilmente ucraina.

Ha qualche problema con i verbi, che nelle frasi occupano i posti più impensati.

E’ alta, con lunghi capelli neri macchiati di grigio.

Entro nel Parco Pallotta.

Le strade luccicano ancora per la pioggia durata tutta la notte.

E’ metà giugno è ancora piove….

Pioggia purificatrice, però.

Nell’aria aleggia un buon odore di pulito.

La terra riarsa del parco é diventata morbida e scura grazie alla pioggia.

Gli alberelli grondano di rugiada e il cielo ha un colore perlaceo, opalescente come l’interno di una conchiglia.

Mentre la osservo, quella leggera patina di colore sembra evaporare e il cielo diviene azzurro, soffuso di luce.

Senza nuvole.

Nota un ragazza che attraversa il parco.

Dal modo disinvolto di guardarsi intorno, senza dare l’impressione di notare nulla, deduco che è un abitante della zona e che ha già fatto quel percorso molte volte, forse ogni giorno.

Si ferma accanto a una panchina e la guarda, corrugando la fronte e arricciando il naso.

Mi avvicino.

Mi sporco la scarpa destra con una deiezione canina.

“Possa perdere la squadra del cuore a chi ha scambiato il parco per il WC del proprio cane”.

“Ah!” esclama lei, sollevando gli occhi verso di me con un largo sorriso.

Scoppiamo entrambi a ridere.

Ha in mano una rivista.

In copertina una foto del Nicaragua.

Là dove molti poveri si accoppiano e generano altri poveri.

Esco dal Parco Pallotta.

Incontro un amico.

Triste.

Torna da Ostia Antica.

O meglio, dal cimitero di Ostia Antica.

La moglie è morta a marzo.

"Coraggio" gli sussurro.

Onorare i nostri morti è un diritto umano fondamentale.

E’ per questo che gli egiziani hanno costruito le piramidi e gli antichi romani i mausolei.

E’ per questo che anche gli uomini più primitivi seppellivano i loro antenati in luoghi sacri insieme a punte di lancia e vasellame.

Mi fermo di fronte a un vivaio.

Do un’occhiata al vialetto di fronte all’entrata.

Il giardino è decisamente ordinato, con i cespugli di forma e altezza identiche e i primissimi boccioli esposti nella loro armonia simmetrica e cromatica.

Il muschio cresce rigoglioso attorno ai lastroni di pietra che terminano davanti a una porta a legno ad arco che da accesso sul retro.

Cammino finché non mi trovo di fronte a un ampio belvedere che da sul mare.

Oltre la linea dell'orizzonte si staglia netto il profilo di una nave.

Cisterna.

Mi siedo sul parapetto, il vuoto sotto ai piedi.

Rimango per un pezzo a contemplare l'orizzonte.

Entro nello studio medico.

Il dottore alza lo sguardo dalla sua scrivania.

“Ha i trigliceridi alti. Quante bustine di zucchero consuma a settimana?”

“Cinque”.

E’ una piccola bugia bianca.

Sono arrivato a cinque bustine lunedì, ma poi ho smesso di contare, così sono rimasto a cinque bustine.

“Niente zucchero. Niente alcool. Per un paziente con i suoi valori di trigliceridi, il rischio di attacco al cuore, infarto o trombosi cresce drasticamente.”.

Improvvisamente sono tanto, tanto spaventato.

Il cuore batte violentemente.

Bum, bum, bum!

Sudore sulla fronte.

Il dottore alza lo sguardo.

I suoi occhi sono finestre su un cielo di pieno inverno.

“Lei appartiene a un gruppo statistico con rischio elevato.”

Fuori dallo studio medico il traffico è rumoroso.

Salutandomi, mentre dava un’occhiata all’orologio, il dottore mi ha ricordato che a causa della mia età…e dei miei trigliceridi… si manifesteranno presto vertigini, stanchezza e perdita della libido.

E’ tutto finito.

Io sono finito.

Scandaloso.

Un senso di paura cresce dentro di me.

Terrore esistenziale.

Lo zucchero, l’alcool, il sesso: senza di loro, cos’altro rimane?

Mi sento vecchio, stanco e inutile e persino spaventato.

Il tizio che mi saluta sembra un Testimone di Geova.

Ha i capelli cortissimi, una camicia bianca e una targhetta con il nome.

Non riesco a leggerla.

Entro in un bar.

Mi siedo a un tavolo.

Di fronte a me, un signore.

Anziano.

Ex consigliere circoscrizionale.

Mentre parla in un tono monotono, inevitabilmente mi ritrovo inondato da un oceano di retorica che martella contro scogliere di metafore.

Una buca.

Inciampo.

Torno a casa imprecando contro tutti gli dei.

Pranzo.

Poi leggo.

Sul divano.

Prendo in mano il libro che sto leggendo, ma le parole sembrano scivolare via dal foglio.

Guardo oltre il libro, verso il balcone.

Simonetta siede al sole con gli occhi chiusi.

Come un gatto soddisfatto e felice.

Una nuvola oscura il sole, gettando per qualche istante il balcone in un cono d'ombra.

Poi il sole torna a splendere.

Dopo alcuni minuti, un'altra nuvola prende il suo posto.

Sono sollevato, avendo l'impressione che quasi faccia le fusa.

"Mario, esco. Vado con Gabriele e Francesca a Torvaianica. Marco e Rita mi aspettano per un caffè".

Si allontana.

Quando scompare, mi guardo intorno.

Alessandro sta chattando su facebook.

Resto alquanto perplesso quando sento che molte persone hanno centinaia di amici su Facebook.

Possono essere considerati dei veri amici, persone disposte a prendersi cura del tuo cane o a riaccompagnarti a casa dall’ospedale?

O sono soltanto una massa informe composta da gente che si accontenta di lasciare messaggi carini in bacheca ma che non hanno niente a che fare con al vita di tutti i giorni?

Come si fa ad avere novecento amici?

All'improvviso la mia mascella prende a tremare.

Le labbra fremono.

Il mento si corruga e infine, pur tentando di tenerla chiusa, apro la bocca in uno sbadiglio.

Poi sbatto le palpebre.

Prima ancora di chiudere gli occhi, tuttavia, sprofondo nell'incoscienza.

Il sonno mi avvolge completamente.

Privo di sogni e punti di riferimento.

Un sonno così somiglia all'eternità.

Senza nulla che aiuti a misurare il trascorrere del tempo.

Senza una traccia che indichi la vastità dello spazio, dove un singolo istante non é molto diverso da un miliardo di anni e un atomo é grande quanto l'universo.

Tutte le diversità della vita, il piacere e il dolore, si dissolvono in un'unità primordiale, che abbraccia ogni cosa, persino il nulla.

E' a questo che somiglia la morte?

Poi all'improvviso, mi sveglio.

Non c’è più nessuno.

Anche Alex è andato via.

Nella stanza la luce si colora del rosa pallido del tramonto.

Guardo a lungo il soffitto.

Non riesco ad alzarmi.

Accendo la tivvù.

La giornalista sorride e una attimo dopo apprendo che a maggio i jeans hanno compiuto 140 anni.

Ma non li dimostrano.

A pensarci bene, sono l'unica invenzione umana che sembra non invecchiare affatto.

Spengo la tivvù.

Mentre leggo una rivista dove sono raffigurati dei minatori dell’ottocento al tempo della corsa dell’oro che indossavano dei blue jeans, mi chiedo dov’é la differenza con i jeans indossati oggi.

Mi metto al computer per saperne di più.

Nemmeno il tempo di digitare il nome jeans su un famoso portale e mi trovo subito davanti alla loro storia.

E che storia avventurosa!

Vengo subito a sapere, infatti, che il tessuto jeans, molto robusto e resistente agli strappi, veniva usato per fabbricare i teloni da imballo e le coperture delle vele.

In seguito, per la sua resistenza, fu utilizzato per confezionare i pantaloni da lavoro degli scaricatori del porto in partenza da Genova per l'America.

E così nell'ottocento, con le grandi emigrazioni, la tela Blu di Genova (tela jeans vuol dire infatti tela Genova) arrivò negli Stati Uniti d'America, dove venne utilizzata per realizzare gli abiti dei cercatori d'oro.

Nient'altro ha resistito così bene alla prova del tempo.

Il jeans, nato a Genova, difatti fu migliorato in America, ma da un emigrante europeo: il bavarese Levi Strass al quale bisogna dare atto di aver capito che quelle brache pratiche ma poco eleganti potevano essere migliorate.

E i miglioramenti che lui vi apportò sono quelli che le hanno rese immortali.

Egli cominciò a realizzare dei grossi pantaloni in tela robusta per i cercatori d'oro, delle tute color marrone, senza passanti né tasche dietro, e presero il numero in codice 501, che resiste tuttora.

E, anche se non era stato lui a inventarli, fu comunque lui a trasformarli in un capo praticamente indistruttibile grazie a quei rinforzi alle tasche e alla ribattitura lungo le cuciture laterali.

Levi Strass presto li trasformò nella divisa del West, tanto che alla fine dell'ottocento, in America, il tessuto jeans diventò sinonimo di pantaloni.

E Levi Strass, che vide l'America vestire i suoi jeans, non avrebbe comunque mai immaginato che sarebbero diventati la divisa dei giovani di tutto il mondo, che avrebbero resistito negli anni al succedersi delle mode, senza mai tramontare.

Divisa dei lavoratori.

Delle classi più povere e rudi.

Poi divisa dei giovani ribelli negli anni Cinquanta.

Dei contestatori anni Sessanta-Settanta.

E infine capo alla moda presente su tutte le passerelle.

Oggi, i Levi's non sono più l'unica marca di jeans nel mondo, ma rimangono la marca più universalmente nota e desiderata.

Neanche l'assedio di famosi sarti come Calvin Klein e Ralph Lauren ha diminuito il loro dominio sul mercato mondiale.

Ed ora, che siamo nel 2013, i vecchi jeans si meritano un brindisi.

Ai prossimi 140 anni!

Chissà, forse nel 2148 saranno di nuovi i cercatori d'oro a indossarli.

Su altri pianeti.

Per il momento i jeans li indosso io, definito da amici e conoscenti una specie di incrocio tra Silvio Orlando e Gerry Scotti.
Li indossano i miei figli.

Il ventiseienne Gabriele, un mix lidense tra Scamarcio e Zagor.

E Alessandro, una via di mezzo tra Ettore Bassi e Nathan Never.

Li indossa Francesca, la ragazza di Gabriele: non sono certo io il primo a dire che è la sosia perfetta di Scarlett Johansson.

Li indossa mio fratello Stefano, un Pierfrancesco Tex Savino in versione testaccina.

Li indossa mia sorella Antonella, l’Ambra Angiolini della Garbatella, con la figlia Serena, la Cristiana Capotondi di Via Bodoni.

Li indossa la Julia Roberts di San Giovanni, vale a dire mia cognata Alessia, che è talmente magra che può portarli con estrema disinvoltura.

Li indossano Sara e Valerio.

Li indossano Al Bano e Romina Power in versione romagnolsardoreatina, in altre parole Antonella e Salvatore.

Li indossano Francesco e Giovanni, i Fatebenefratelli di Corniolo.

Li indossano Silvia e Ferruccio, Jalisse dell’Infernetto.

Li indossano Marco e Rita, Rea-coppia di Torvaianica.

Li indossano i Vianella lidensi: Pino e Sandra.

A Roma Est li indossano Liz Liliana Taylor e Richard Valter Burton.

Li indossano gli amici del Manfredi.

Li indossano Fulvio, Elisa e Mario.

Li indossano Lillo e Greg.

Li indossano Tommaso e Michelangelo.

Li indossano Franco e Roberto.

Li indossano Marco e Sandro.

Li indossano Angela, Lucilla e Cristina.

Li indossa Pierangelo Grandoni.

Li indossano Mario e Maria Vittoria.

Li indossano Paolo, Vittoria, Pietrantonio e Pavilio.

Li indossano i Fichi d’India.

Li indossano in classe di Alessandro.

Li indossano gli amici di Gabriele.

Li indossano i cugini Pulimanti.

Li indossano i Raponi, compari di Boccea.

Li indossa Don Carlo.

Li indossano alla Bonaria Compagnia.

Li indossano al Fara Nume.

Li indossano a Ostia.

Li indossano a Roma.

Li indossano a Collevecchio.

Li indossano in Italia.

Li indossano in Europa.

Li indossano nel mondo.

Li indossa Simonetta -un sabino equilibrio tra Anna Galiena e Monica Guerritore- mentre sogna Collevecchio.

Le è sempre piaciuto.

L’aria fresca, gli animali, gli alberi.

E i suoi jeans di Armani.

Dalle finestre aperte davanti a me vedo il buio che scende su Ostia.

Entra un venticello caldo profumato di mare.

Ormai l’estate è quasi arrivata.

Squilla il cellulare.

E’ la Pulimanti’s family.

Sono convocato per la cena.

Vi provvederà un ristorante vicino al mare.

Rombo al forno.

Con patate.

Passeggiata.

Sul lungomare.

E' allora che Simonetta sente forte una sensazione.

Di stanchezza.

Torniamo a casa.

Accendo lo stereo.

Lester Young.

Penso all'ufficio.

E a certi colleghi.

Fortunati e con incarichi.

Mmh...e poi dicono che le conoscenze non servano!

Faccio una doccia.

Il bagno è piccolo e pulito.

L’acqua è calda.

Il sapone ha un ottimo profumo.

Rimango sotto il getto e mi levo la puzza di sudore e rabbia dalla pelle.

Prendo la schiuma da barba.

Mi rado con vari movimenti verso il basso.

Mi guardo allo specchio.

Indugio ad ascoltare le voci in salotto, all’altro lato della casa.

L’altro giorno ho incontrato vecchi amici.

Hanno tutti dei bambini.

Hanno tutti un mutuo.

Hanno tutti lavoro.

Rughe.

Problemi alle articolazioni.

Progetti.

Speranze.

Motivi per essere ottimisti.

Perdono i capelli.

Sono stati tutti felici di vedermi.

Nessuno si preoccupava di nulla.

Infatti a malapena sembravano prestarmi attenzione.

E’ un sollievo così grande realizzare che a nessuno importa davvero di me.

Beh, non così tanto.

Chiudo le finestre.

Il rumore del traffico si spegne come fosse la tivvù.

Mi passo la mano sui miei capelli bianchi.

Ho delle priorità e, per quanto mi riguarda, la vanità non ne ha mai fatto parte.

Basta così.

Sono esausto.

E’ stata una giornata molto lunga.

Entro in camera.

Mi sdraio sul letto.

Incrocio le braccia e fisso il soffitto.

Poi scivolo in un sonno agitato.




Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)
Allegati
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