Carlo Levi
Inviato: 01/06/2009, 23:02
"Un giorno ad Aliano"
di
Michele Nigro
Nel momento in cui leggiamo un romanzo o un racconto,
non facciamo nient’altro che affidare la nostra conoscenza
del mondo e dei fatti umani nelle mani
dell’Autore, quasi sempre sconosciuto, lontano o addirittura
scomparso da anni. Leggendo le pagine di un
libro mettiamo in moto la nostra fantasia grazie a quegli
elementi descrittivi offerti da chi, al posto del lettore,
ha vissuto o pensato la vicenda in questione, reale o
fantastica che sia. Ecco perché chi legge è come se vivesse
più vite contemporaneamente nello spazio e nel
tempo; ma questo privilegio, come dicevo, richiede
fede in chi, rielaborando la storia sotto forma di parole,
si è preso la briga di diffondere una porzione del proprio
vissuto fisico e mentale attraverso l’opera scritta.
Una fede nei confronti dell’Autore per certi versi
obbligatoria, in quanto è praticamente impossibile,
nell’arco di tempo di una sola vita, rivivere le storie o
perlomeno essere fisicamente presenti nei luoghi
descritti dai nostri amati narratori.
Quando ciò accade, a causa di un certo “turismo intellettuale”
o assecondando una sorta di presunzione filologica
travestita da curiosità, è come se vivessimo un
momento di grazia indispensabile, in grado di cristallizzare
la visione che avevamo già elaborato durante la
lettura o addirittura sconvolgere il messaggio narrativo
fino ad allora tenuto in incubazione.
E così, visitando quest’estate il paese di Aliano in provincia
di Matera, nella mia amata
Basilicata, sono entrato anch’io
a far parte immeritatamente
di quel gruppo di
“sperimentatori” che, dopo aver
letto e riletto il “Cristo si è fermato
a Eboli” di Carlo Levi,
hanno avuto la possibilità di
completare personalmente il
quadro letterario del pittore
torinese, lì confinato a causa di
un “reiterato atteggiamento antifascista”,
dal 18 settembre 1935
al 26 maggio 1936. Quei lontani
giorni di punizione e di isolamento
diedero vita lentamente
ad un necessario dialogo interiore,
reso possibile da un certo allenamento
artistico e socio-politico a cui il “medicopittore”
di Torino era già avvezzo, capace di generare
nuove forme di comunicazione, di conoscenza e in grado
di rafforzare un’analisi storica, politica e sociale che
durante quegli anni di scellerato entusiasmo fascista
nessuno osava praticare, andando a criticare addirittura
“…quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi,
negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente…”
di cui nessuno s’era mai occupato se non in qualità
di “…conquistatore…nemico o …visitatore incomprensivo”.
La strada provinciale, ricca
di tornanti ed immersa
in una gradevole boscaglia,
non lascia presagire
quell’ambiente lunare creato
dai calanchi che pochi
chilometri prima di Aliano
provoca nel visitatore,
oltre la sorpresa geologica,
un sentimento di desolazione
e di impotenza umana
dinanzi ad una lenta ed
inesorabile natura che
sembra essere penetrata,
allora e prima di allora,
anche nell’animo dei personaggi
lucani del romanzo di Levi il quale, con la perizia
del clinico, descrive una “…terra senza conforto e
dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella
lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido,
nella presenza della morte.”
Oggi, ovviamente, le cose sono cambiate e lungo la
strada che delimita superiormente la famigerata Fossa
del Bersagliere, ricordata da Levi quale simbolo di un
odio violento tra soldati piemontesi e briganti durante e
dopo gli anni che portarono all’unità d’Italia, sorgono
negozi, bar, ristoranti, auditorium, giardini pubblici,
antichi palazzi ristrutturati, il museo, la pinacoteca, il
parco letterario dedicato allo scrittore e creato in collaborazione
con la Fondazione “Ippolito Nievo” di Roma
e tanti altri servizi utili che rendono il paese non solo
migliore per chi vi abita, ma appetibile da un punto di
vista culturale e turistico agli occhi di chi proviene
“da fuori”.
Il rumore del vento tra i calanchi,
tuttavia, realizzando una naturale
sinfonia suonata da millenni, mi
riporta nella giusta atmosfera
necessaria per rivivere gli stati
d’animo dello scrittore giunto a
“Gagliano”, come lo soprannomina
nel suo romanzo. E sì, perché
ad Aliano non ci si arriva per
caso: attraversando una via percorribile
a senso alternato, si
giunge in un paese che “non è in
vetta al monte, come tutti gli altri,
ma in una specie di sella irregolare
in mezzo a profondi burroni…”
Qualcuno ha voluto leggere nel
“Cristo…” di Levi, cadendo in errore, la severa e disgustata
critica di un uomo del nord nei confronti di
una popolazione meridionale indubbiamente abbandonata
a se stessa, ma pur sempre ricca e viva nella sua
silenziosa ed arcaica semplicità. Egli fu, invece, fautore
ante litteram di una certa devolution e non parlò mai
di questione meridionale, termine in voga nei dizionari
di chi non ama il sud, facendo leva, bensì, sulle dimenticate
qualità elleniche dei suoi contadini. Degli
“speciali occhiali”, tipici del vero uomo di cultura,
permisero a Levi di contrapporre incondizionatamente
l’amore ed il rispetto che
nutriva per il mondo rurale ad un’italietta
futurista, “…spinta al moto e alla conquista…”,
ingorda di potere e di investiture
divine (“…l’Italia è il paese dei
diplomi, delle lauree, della cultura ridotta
soltanto al procacciamento…
dell’impiego”).
Quando Levi afferma che “Cristo non è
mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo,
né l’anima individuale, né la speranza,
né il legame tra le cause e gli effetti,
la ragione e la Storia” non vuole banalmente
esprimere il proprio disaccordo
nell’essere stato confinato in un luogo
che ritiene distante dalle sue abitudini
intellettuali e sociali, e soprattutto lontano
da tutta quella struttura culturale,
architettonica, scientifica e religiosa che,
nel corso dei secoli, abbiamo imparato a
denominare “civiltà”. In realtà egli descrive ciò che
vive, vede e sente, senza giudicare le singole persone,
ma prendendo semplicemente atto di una condizione
arcaica e quindi naturale che trascende il suo e l’altrui
giudizio. Carlo Levi non si lascia condizionare dalla
condanna che gli è stata inflitta, non rimane confinato
interiormente, ma fa di tutto per interagire con la realtà
sociale che qualcun altro (“Qualcuno a Roma ti ha
voluto male!”) ha scelto per lui e alla fine diventa “uno
di loro”, anzi di più… Riesce a rielaborare, mettendo a
disposizione la propria allenata coscienza storica al
servizio dell’assopita coscienza critica dei suoi amati
contadini, il perché delle cose e delle abitudini che lo
circondano. Senza stravolgerle o imponendo un mutamento
dannoso: facendo convivere magia e scienza
medica, esoterismo e scetticismo, tradizione e progresso…
A volte rileggendo i fatti e le
persone in chiave mitologica e fiabesca.
Solo l’animo sensibile dell’artista
poteva convertire la punizione del
confino in un’occasione di crescita
umana. La vera opera d’arte compiuta
da Carlo Levi consiste, infatti,
nell’aver trasformato la desolazione
naturale in risorsa pittorica; la mancanza
di linguaggio, sostituita da
antichi gerghi, in poesia; il silenzio
arcaico e rassegnato in discussione
spirituale e politica; l’immobilità
storica in confronto dinamico; l’apparente
abbandono in stimolo alla
comprensione antropologica del
prossimo. Trasforma quel “…dolore
terrestre, che sta per sempre nelle
cose…” in ispirazione artistica. Riesce
a sopportare il proprio confino
durato 8 mesi ed 8 giorni, perché si rende conto di essere
capitato in un luogo i cui abitanti sono al confino
da sempre, da millenni!
L’intellettuale progressista Carlo Levi che, grazie al
benessere economico di cui gode lascia
la professione medica per dedicarsi
esclusivamente alla pittura e alla scrittura,
non è affetto da quelle ossessioni e
meschinità piccolo-borghesi capaci di
portare l’uomo verso il reale isolamento.
Comprende l’antistatalismo contadino ed
auspica la vera rivoluzione contadina
che durante il suo soggiorno lucano è
rappresentata solo dai nebbiosi ricordi di
qualche vecchio brigante. L’esperienza
di “vita sotterranea” in Lucania gli conferma
ancor di più il bisogno, non solo
intellettuale ma pratico, di ripensare all’idea
di Stato e all’idea di individuo,
non separando le due cose, bensì unendole,
combattendo contemporaneamente
gli adoratori di uno Stato unitario, centralizzato
e soprattutto lontano.
Cercando le necessarie conferme alle
mie affermazioni, vado alla ricerca della casa del confino
di Levi, posta quasi all’ingresso del paese, al limite
dell’ultima frana storica; calpesto le mattonelle dalle
“geometrie insistenti” che lo distraevano mentre dipingeva;
salgo sulla terrazza assolata da cui il pittore ha
immortalato sulla tela gli imperturbabili calanchi;
m’affaccio sui burroni da inferno dantesco che s’alternano
alle dilavate colline di argilla… Ed infine, nel
cimitero del paese che ospita le spoglie dello scrittore,
fin dal 1975, anno della sua morte, trovo finalmente un
simbolo in grado di sintetizzare in modo significativo il
passaggio di un grande poeta in questo angolo sperduto
di Lucania: la semplice lapide chiara, adagiata in terra
senza fronzoli aggiuntivi, con il nome dell’artista e le
date che ne hanno delimitato l’esistenza terrena. Lungo
i lati maggiori della tomba, due muri paralleli di mattoni
che incanalano la visuale del visitatore verso il lato
aperto e libero del paesaggio fatto di
ulivi, calanchi e montagne brulle...
Ho voluto leggere in questa architettura
sepolcrale un ultimo ed infinito
messaggio di libertà: anche se il confino
ha delimitato un breve periodo
della vita di Carlo Levi, rappresentato
dalla incompleta delimitazione
data dai due muri, in realtà è stata
l’occasione fortuita offerta dalla Storia
e da un inconsapevole regime per
dirigere altrove uno sguardo pieno di
amore e di curiosità: verso la natura,
la bellezza arcaica e la storia non
scritta. La mia giornata ad Aliano
non poteva concludersi che qui, nel
cimitero: il limite oltre il quale i carabinieri
proibivano al confinato politico
di proseguire durante le sue
escursioni (“Nei dintorni del cimitero
non andavo soltanto per ozio, in cerca
di solitudine e di racconti…lo scelsi come primo
soggetto dei miei quadri…”).
Un luogo che soddisfa eternamente quella
“…promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di
tornare fra loro…” Quella promessa è stata mantenuta.
di
Michele Nigro
Nel momento in cui leggiamo un romanzo o un racconto,
non facciamo nient’altro che affidare la nostra conoscenza
del mondo e dei fatti umani nelle mani
dell’Autore, quasi sempre sconosciuto, lontano o addirittura
scomparso da anni. Leggendo le pagine di un
libro mettiamo in moto la nostra fantasia grazie a quegli
elementi descrittivi offerti da chi, al posto del lettore,
ha vissuto o pensato la vicenda in questione, reale o
fantastica che sia. Ecco perché chi legge è come se vivesse
più vite contemporaneamente nello spazio e nel
tempo; ma questo privilegio, come dicevo, richiede
fede in chi, rielaborando la storia sotto forma di parole,
si è preso la briga di diffondere una porzione del proprio
vissuto fisico e mentale attraverso l’opera scritta.
Una fede nei confronti dell’Autore per certi versi
obbligatoria, in quanto è praticamente impossibile,
nell’arco di tempo di una sola vita, rivivere le storie o
perlomeno essere fisicamente presenti nei luoghi
descritti dai nostri amati narratori.
Quando ciò accade, a causa di un certo “turismo intellettuale”
o assecondando una sorta di presunzione filologica
travestita da curiosità, è come se vivessimo un
momento di grazia indispensabile, in grado di cristallizzare
la visione che avevamo già elaborato durante la
lettura o addirittura sconvolgere il messaggio narrativo
fino ad allora tenuto in incubazione.
E così, visitando quest’estate il paese di Aliano in provincia
di Matera, nella mia amata
Basilicata, sono entrato anch’io
a far parte immeritatamente
di quel gruppo di
“sperimentatori” che, dopo aver
letto e riletto il “Cristo si è fermato
a Eboli” di Carlo Levi,
hanno avuto la possibilità di
completare personalmente il
quadro letterario del pittore
torinese, lì confinato a causa di
un “reiterato atteggiamento antifascista”,
dal 18 settembre 1935
al 26 maggio 1936. Quei lontani
giorni di punizione e di isolamento
diedero vita lentamente
ad un necessario dialogo interiore,
reso possibile da un certo allenamento
artistico e socio-politico a cui il “medicopittore”
di Torino era già avvezzo, capace di generare
nuove forme di comunicazione, di conoscenza e in grado
di rafforzare un’analisi storica, politica e sociale che
durante quegli anni di scellerato entusiasmo fascista
nessuno osava praticare, andando a criticare addirittura
“…quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi,
negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente…”
di cui nessuno s’era mai occupato se non in qualità
di “…conquistatore…nemico o …visitatore incomprensivo”.
La strada provinciale, ricca
di tornanti ed immersa
in una gradevole boscaglia,
non lascia presagire
quell’ambiente lunare creato
dai calanchi che pochi
chilometri prima di Aliano
provoca nel visitatore,
oltre la sorpresa geologica,
un sentimento di desolazione
e di impotenza umana
dinanzi ad una lenta ed
inesorabile natura che
sembra essere penetrata,
allora e prima di allora,
anche nell’animo dei personaggi
lucani del romanzo di Levi il quale, con la perizia
del clinico, descrive una “…terra senza conforto e
dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella
lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido,
nella presenza della morte.”
Oggi, ovviamente, le cose sono cambiate e lungo la
strada che delimita superiormente la famigerata Fossa
del Bersagliere, ricordata da Levi quale simbolo di un
odio violento tra soldati piemontesi e briganti durante e
dopo gli anni che portarono all’unità d’Italia, sorgono
negozi, bar, ristoranti, auditorium, giardini pubblici,
antichi palazzi ristrutturati, il museo, la pinacoteca, il
parco letterario dedicato allo scrittore e creato in collaborazione
con la Fondazione “Ippolito Nievo” di Roma
e tanti altri servizi utili che rendono il paese non solo
migliore per chi vi abita, ma appetibile da un punto di
vista culturale e turistico agli occhi di chi proviene
“da fuori”.
Il rumore del vento tra i calanchi,
tuttavia, realizzando una naturale
sinfonia suonata da millenni, mi
riporta nella giusta atmosfera
necessaria per rivivere gli stati
d’animo dello scrittore giunto a
“Gagliano”, come lo soprannomina
nel suo romanzo. E sì, perché
ad Aliano non ci si arriva per
caso: attraversando una via percorribile
a senso alternato, si
giunge in un paese che “non è in
vetta al monte, come tutti gli altri,
ma in una specie di sella irregolare
in mezzo a profondi burroni…”
Qualcuno ha voluto leggere nel
“Cristo…” di Levi, cadendo in errore, la severa e disgustata
critica di un uomo del nord nei confronti di
una popolazione meridionale indubbiamente abbandonata
a se stessa, ma pur sempre ricca e viva nella sua
silenziosa ed arcaica semplicità. Egli fu, invece, fautore
ante litteram di una certa devolution e non parlò mai
di questione meridionale, termine in voga nei dizionari
di chi non ama il sud, facendo leva, bensì, sulle dimenticate
qualità elleniche dei suoi contadini. Degli
“speciali occhiali”, tipici del vero uomo di cultura,
permisero a Levi di contrapporre incondizionatamente
l’amore ed il rispetto che
nutriva per il mondo rurale ad un’italietta
futurista, “…spinta al moto e alla conquista…”,
ingorda di potere e di investiture
divine (“…l’Italia è il paese dei
diplomi, delle lauree, della cultura ridotta
soltanto al procacciamento…
dell’impiego”).
Quando Levi afferma che “Cristo non è
mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo,
né l’anima individuale, né la speranza,
né il legame tra le cause e gli effetti,
la ragione e la Storia” non vuole banalmente
esprimere il proprio disaccordo
nell’essere stato confinato in un luogo
che ritiene distante dalle sue abitudini
intellettuali e sociali, e soprattutto lontano
da tutta quella struttura culturale,
architettonica, scientifica e religiosa che,
nel corso dei secoli, abbiamo imparato a
denominare “civiltà”. In realtà egli descrive ciò che
vive, vede e sente, senza giudicare le singole persone,
ma prendendo semplicemente atto di una condizione
arcaica e quindi naturale che trascende il suo e l’altrui
giudizio. Carlo Levi non si lascia condizionare dalla
condanna che gli è stata inflitta, non rimane confinato
interiormente, ma fa di tutto per interagire con la realtà
sociale che qualcun altro (“Qualcuno a Roma ti ha
voluto male!”) ha scelto per lui e alla fine diventa “uno
di loro”, anzi di più… Riesce a rielaborare, mettendo a
disposizione la propria allenata coscienza storica al
servizio dell’assopita coscienza critica dei suoi amati
contadini, il perché delle cose e delle abitudini che lo
circondano. Senza stravolgerle o imponendo un mutamento
dannoso: facendo convivere magia e scienza
medica, esoterismo e scetticismo, tradizione e progresso…
A volte rileggendo i fatti e le
persone in chiave mitologica e fiabesca.
Solo l’animo sensibile dell’artista
poteva convertire la punizione del
confino in un’occasione di crescita
umana. La vera opera d’arte compiuta
da Carlo Levi consiste, infatti,
nell’aver trasformato la desolazione
naturale in risorsa pittorica; la mancanza
di linguaggio, sostituita da
antichi gerghi, in poesia; il silenzio
arcaico e rassegnato in discussione
spirituale e politica; l’immobilità
storica in confronto dinamico; l’apparente
abbandono in stimolo alla
comprensione antropologica del
prossimo. Trasforma quel “…dolore
terrestre, che sta per sempre nelle
cose…” in ispirazione artistica. Riesce
a sopportare il proprio confino
durato 8 mesi ed 8 giorni, perché si rende conto di essere
capitato in un luogo i cui abitanti sono al confino
da sempre, da millenni!
L’intellettuale progressista Carlo Levi che, grazie al
benessere economico di cui gode lascia
la professione medica per dedicarsi
esclusivamente alla pittura e alla scrittura,
non è affetto da quelle ossessioni e
meschinità piccolo-borghesi capaci di
portare l’uomo verso il reale isolamento.
Comprende l’antistatalismo contadino ed
auspica la vera rivoluzione contadina
che durante il suo soggiorno lucano è
rappresentata solo dai nebbiosi ricordi di
qualche vecchio brigante. L’esperienza
di “vita sotterranea” in Lucania gli conferma
ancor di più il bisogno, non solo
intellettuale ma pratico, di ripensare all’idea
di Stato e all’idea di individuo,
non separando le due cose, bensì unendole,
combattendo contemporaneamente
gli adoratori di uno Stato unitario, centralizzato
e soprattutto lontano.
Cercando le necessarie conferme alle
mie affermazioni, vado alla ricerca della casa del confino
di Levi, posta quasi all’ingresso del paese, al limite
dell’ultima frana storica; calpesto le mattonelle dalle
“geometrie insistenti” che lo distraevano mentre dipingeva;
salgo sulla terrazza assolata da cui il pittore ha
immortalato sulla tela gli imperturbabili calanchi;
m’affaccio sui burroni da inferno dantesco che s’alternano
alle dilavate colline di argilla… Ed infine, nel
cimitero del paese che ospita le spoglie dello scrittore,
fin dal 1975, anno della sua morte, trovo finalmente un
simbolo in grado di sintetizzare in modo significativo il
passaggio di un grande poeta in questo angolo sperduto
di Lucania: la semplice lapide chiara, adagiata in terra
senza fronzoli aggiuntivi, con il nome dell’artista e le
date che ne hanno delimitato l’esistenza terrena. Lungo
i lati maggiori della tomba, due muri paralleli di mattoni
che incanalano la visuale del visitatore verso il lato
aperto e libero del paesaggio fatto di
ulivi, calanchi e montagne brulle...
Ho voluto leggere in questa architettura
sepolcrale un ultimo ed infinito
messaggio di libertà: anche se il confino
ha delimitato un breve periodo
della vita di Carlo Levi, rappresentato
dalla incompleta delimitazione
data dai due muri, in realtà è stata
l’occasione fortuita offerta dalla Storia
e da un inconsapevole regime per
dirigere altrove uno sguardo pieno di
amore e di curiosità: verso la natura,
la bellezza arcaica e la storia non
scritta. La mia giornata ad Aliano
non poteva concludersi che qui, nel
cimitero: il limite oltre il quale i carabinieri
proibivano al confinato politico
di proseguire durante le sue
escursioni (“Nei dintorni del cimitero
non andavo soltanto per ozio, in cerca
di solitudine e di racconti…lo scelsi come primo
soggetto dei miei quadri…”).
Un luogo che soddisfa eternamente quella
“…promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di
tornare fra loro…” Quella promessa è stata mantenuta.