John Fante

Bibliografie e biografie commentate dei grandi scrittori
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carlo
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John Fante

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se devo proseguire la rassegna dei grandi autori partendo dai miei preferiti, come dimenticare John Fante?

Breve biografia:

8 aprile 1909 - John Fante nasce a Denver, Colorado da una famiglia di immigrati italiani: il padre Nick Fante originario di Torricella Peligna, era muratore; la madre Maria Antrilli, era nata a Chicago da genitori italiani. Ebbe un?infanzia povera.
John trascorre l?infanzia e la giovinezza a Boulder - frequenta scuole cattoliche e l?Universit? del Colorado.
1932- si trasferisce a Los Angeles e svolge lavori di ogni genere. Viene pubblicato un suo racconto su The American Mercury .
1937 - John sposa Joyce Smart, da cui avr? quattro figli. Inizia a lavorare per Hollywood.
1938 - Pubblica il primo romanzo, 'Wait Until Spring, Bandini'
1939 - Viene dato alle stampe 'Ask The Dust'
1940 - Pubblicazione di 'Dago Red', una raccolta di novelle.
1952 - pubblica il romanzo Full of Life da cui sar? tratto un film che ricever? una nomination all'Oscar per la migliore sceneggiatura.
1955 - si ammala di diabete, che lo porter? alla cecit?, all'amputazione delle gambe e infine alla morte
1957 - ? in Italia e lavora come sceneggiatore per Dino De Laurentiis.
1977 - Fante perde la vista a causa del diabete. Detter? alla moglie l?ultimo romanzo "Dreams from Bunker Hill".
8 maggio 1983 - John Fante muore a 74 anni, lasciando numerosi inediti. In questi anni ? al centro di una massiccia riscoperta internazionale.


bibliografia:

libri in italiano ordinabili:

http://abruzzo2000.com/fante/johnfante/libri.htm

Wait Until Spring, Bandini (1938, 1983)


Aspettiamo primavera, Bandini
(traduzione di G. Monicelli, Mondadori, 1948)
Aspetta primavera, Bandini
(traduzione di C. Corsi, Leonardo, 1989; Marcos y Marcos, 1995)


The Road to Los Angeles (1985)


La strada per Los Angeles
(traduzione di F. Durante, Leonardo, 1983; Marcos y Marcos, 1996)


Ask the Dust
(1939, 1980)


Il cammino nella polvere
(traduzione di E. Vittorini, Mondadori, 1941)
Chiedi alla polvere
(traduzione di M.G. Castagnone, con una prefazione di C. Bukowski,
Sugarco, 1983; Marcos y Marcos, 1994)


Dreams from Bunker Hill (1982)


Sogni di Bunker Hill
(traduzione di F. Durante, con una prefazione di P.V. Tondelli,
Mondadori, 1988; Marcos y Marcos, 1996)


Dago Red (1940, 1985)


Dago Red
(a cura di F. Durante, Marcos y Marcos, 1997)
Da Dago Red ? tratto il volume Una moglie per Dino Rossi, Sellerio, 1988
(traduzione di M.Martone)


Full of Life (1952, 1988)


In tre ad attenderlo
(traduzione di L. Bonini, Mondadori, 1957)
Full of life
(traduzione di A. Osti, Fazi, 1998)


The Brotherood of the Grape (1977, 1988)


La Confraternita del Chianti
(traduzione di F. Durante, Leonardo, 1990; Marcos y Marcos, 1995)


The Wine of Youth: Selected Stories of John Fante (1985)


Il Dio di mio padre
(traduzione di F. Durante, Marcos y Marcos, (1998)

1933 Was a Bad Year (1985)


Un anno terribile
(traduzione di A. Osti, introduzione di S. Veronesi, Fazi, 1996)


West of Rome (1986)


A ovest di Roma
(traduzione di A. Osti, Fazi, 1997)


John Fante & H.L. Mencken:
A Personal Correspondence 1930-1952 (1989)


Selected Letters 1932-1981 (1991)

Lettere (1932 - 1981), Fazi, 1999
(traduzione di Alessandra Osti)



alla bibliografia qui sopra credo manchino un paio di titoli, vedr? di rimediare. Comunque, i miei preferiti sono:

la confraternita del chianti
ask the dust
aspetta primavera bandini


se uno legge questi tre libri non pu? poi non affezionarsi ad arturo bandini, a suo padre Svevo, a sua madre tutta casa e chiesa e alle loro vicende familiari e di italoamericani di prima generazione.

le lettere invece hanno un senso solo se li avete letti tutti e vi ? piaciuto quanto a me. Fante ? uno scrittore che piace direi a tutti. Mi trovo spesso a consigliar libri, e ho avuto spesso in risposta un "ma che mi hai fatto leggere?". Con Fante solo "bello davvero", piace sia al ragazzo diciottenne che alla nonna.

da segnalarsi che ha scritto numerose sceneggiautori, di film che all'epoca ebbero anche un discreto successo. (Youth Runs Wild, Walk on the Wild Side...)

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Ultima modifica di carlo il 14/03/2006, 3:45, modificato 1 volta in totale.
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Messaggio da Kima »

di fante ho letto "chiedi alla polvere", unico libro che mi ? veramente piaciuto tra quelli che mi ha "consigliato" il mio prof. di lettere. baricco, gi? precario, cade nel baratro assoluto. ma baricco ? un discorso totalmente a parte e la mia maledizione.
spero di trovare le altra avventure di arturo, il prima o/e il dopo camilla lopez, la mia curiosit? ? immensa...mi ferma qua perch? se dovessi dire cosa mi ? piaciuto non saprei da dove cominciare, quindi scopritelo voi.
you try the best of my - go away!"
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Messaggio da carlo »

Mi son riletto "sogni di bunker hill", se non erro l'ultimo libro scritto da fante, dettandolo alla moglie. Va affrontato, appunto, dopo aver letto tutto il resto, per apprezzarlo davvero come merita. ? una sorta di memoriale, pi? realtistico di quanto non traspaia nell'immediato, della sua attivit? di scrittore iniziata lavorando per il cinema. Le promesse, con cui ci lascia in quel libro, sono quelle dei capolavori a venire, che il buon fante gi? aveva scritto, e ai quali ha voluto aggiungere, in punto di morte, questa splendida introduzione postuma
Un gran testo, davvero, che non pu? mancare nella libreria di un amante di j.f.
tackqishino
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Messaggio da tackqishino »

a ovest di roma ? eccezionale!!

f.
waratte mo ii..."
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Messaggio da carlo »

Davvero dici? interessante, si, ma non eccezzionale, certo, meglio della raccolta dl lettere quello s?...
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ho riletto la confraternita del chianti... fante ? veramente un ottimo autore, il finale di quel libro ? troppo intenso e intelligente, non mi meraviglia che Buk l'abbia eletto a maestro.

pi? tempo passa pi? confermo il mio poker di autori: Vonnegut, Fante, Bukowsky e Dick, 4 geni, 4 mostri sacri.
A breve distanza ne metto molti altri, pennac, benni (il primo) etc, ma un gradino sotto.... tutti quelli "PRIMA", son serviti per arrivare a loro...
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Messaggio da carlo »

una delle lettere di J.Fante, trovata in rete:

06/01/1934

Caro signor Mencken,

Sono proprio disperato. C?? qualcosa di cui vorrei alleggerirmi il petto. Riguarda mio padre. Nella mia stima direi che era un tipo fantastico. Me le suonava di santa ragione un paio di volte la settimana e io lo rispettavo moltissimo. Non c?? mai stata una volta in cui sia venuto da me per chiedermi un consiglio, e questa cosa mi faceva restare male, ma in ultima analisi mi rendeva ancora pi? orgoglioso di lui. Ora ? cambiato. E? finito. Mi si torcono le budella quando ci penso. Vede, il mio vecchio voleva e essere un cantante quando era piccolo, ma era povero e non ne ha avuto la possibilit?. Ha dovuto lavorare come un cane da quando aveva dodici anni, e ci? ha amareggiato tutta la sua vita. Da molti punti di vista lo ha reso un bruto.
L?ultima volta che l?ho visto ne sono quasi morto. Tutta la sua vitalit? si era spenta. Ha solo cinquantatr? anni, ma quel suo preoccuparsi durante la depressione ha lasciato un segno profondo sulla sua vitalit?. E? tornato ad essere un dannato ragazzino. se ne va in giro a fumare il sigaro e fa lo spaccone parlando di me. Cristo. Lo odio. Non era mai stato cos?. Aveva sempre ragione, ecco perch? lo amavo. Ora invece ? cambiato. Ero a casa, e lui stava aggiustando la falciatrice. Stavo seduto sui gradini a guardarlo. Non riusciva a farla funzionare. Mi ha chiamato e mi ha detto: ? Puoi darci un?occhiata??
Il mio vecchio non lo capir? mai, ma mi ha ucciso quando l?ha detto. Sono quasi svenuto. Maledizione, sono quasi scoppiato a piangere. Non doveva chiedermi un consiglio. Maledetto stupido! Doveva bluffare. C?? anche dell?altro. Avevo delle camicie nuove e lui ne voleva una. Gli ho detto di prendersela. L?imbecille! Quel maledetto ignorante accecato ha insistito che gliela scegliessi io! E questa cosa mi sta uccidendo. Non riesco a dormire, penso a quest?uomo che ? mio padre e che sta invecchiando. Lui non lo sa, il vecchio bastardo, ma io lo amerei mille volte di pi? se continuasse a pensare che non sono il peggior idiota sulla terra, invece di un personaggio emergente della letteratura.
Si siede nella veranda con una copia del ?Mercuri? in mano e legge i miei racconti. Tutto il giorno. Figlio di puttana! Se lo tiene vicino perch? gli occhi non sono pi? quelli di una volta, li strizza e legge piano, piano, piano. Quell?uomo non ha mai letto nulla fino a un anno fa. Oh, merda! Ogni tanto ridacchia. Va in giro per la citt? e chiede alla gente chi sia Johnnie. Che devo fare? Si porta un elenco dei miei racconti pubblicati. Si vanta e si rivanta. Io crollo e piango come un bambino quando ci penso. Perch? lo deve fare? Perch? non pu? continuare ad essere mio padre? Perch? devo essere io a marcare il passo? Perch? non pu? essere uomo ed ergersi e dire che suo figlio ? un sfottuto idiota bastardo, che sarebbe la verit?? Aggiunge delle note in fondo alle lettere di mia madre che dicono:? Scrivi al tuo pap?. Vuole avere tue notizzzie?. E le firma con un bellissimo svolazzo: NICK FANTE. Oh, diavolo. Non capirebbe mai, mai, mai come mi sento. Quel vecchio sciocco ha persino cambiato le sue abitudini. Ha abbandonato i liquori forti. Resta a casa la sera. Va a messa la domenica. Dannazione, Mencken, non sa come mi sento. Non pu? credere quanto rispetto e amore avessi per quell ?uomo, pensavo che fosse grande, e ora guardatelo, un fottuto frequentatore di messe.
Adoravo sentire quel tipo che sacramentava, e lo faceva come un soldato. Si buttava nelle risse e tornava a casa con un occhio nero e la camicia strappata, ora invece ? tutto finito. Ha abbandonato tutto. ha cessato di esistere. Si preoccupa per me; in modo aperto, voglio dire. Ha letto sul giornale del terremoto, e quella notte non ? riuscito a dormire. Tre anni fa lo avrebbe fatto. Tre anni fa si sarebbe comportato da uomo. A Capodanno mi manda un telegramma per l?alluvione. ? Stai bene? Facci sapere?. E io tutto il tempo a letto con una femmina, tutti e due ubriachi fradici di Planters Punch! Ci? che mi ferisce e torna a ferirmi ? che senza di me ? perso. Non ? che non li voglia bene, perch? la mia piet? ? centomila volte pi? forte del mio amore. Ma perch? non pu? fingere? Dopo tutto, anch?io sono poco pi? di un bambinetto. Perch? non pu? aspettare altri dieci anni? Perch? mi deve dare la responsabilit? della sua idealizzazione e delle sue aspettative ? Non lo sopporto. Sono troppo consapevole dei miei limiti. Non so nemmeno per idea ci? che pensa che io sia. Non ? possibile aspettarselo da me. Avere un padre che venera un uomo che ha solo venticinque anni ? troppo. Spacca tutto.
Cos? tutti i vecchi che incontro per la strada sono mio padre. Ogni vecchio mi fa stringere lo stomaco, sento una piet? incontrollata che mi lascia perso. Voglio prendere quei vecchioni fra le mie braccia e dargli delle pacche sulle spalle e dirgli di smetterla di scherzare, che sono soltanto ragazzini, che il mondo ha ancora terrore di loro. Allo stesso tempo vorrei che ognuno di loro morisse, perch? mi sembra che solo pochi uomini si sappiano impadronire della sottile arte di invecchiare.
Tutto ci? probabilmente ? stato molto noioso per lei, signor Mencken. Ma sentivo che era meglio se me ne liberavo. Mi ha dato fastidio per mesi. Ci sono pochi uomini che capiscono ci? che ho provato a buttare gi? qui. Sono prontissimi a dire che sono stupido, o che sono sentimentale e che ho paura di affrontare i fatti. Diavolo! Non ho paura di nulla. Una cosa cos? mi lascia freddo per?. Sono molto sensibile riguardo a ci?. L?unica cosa che si pu? fare, pi? o meno, ? di parlarne a qualcun altro,e questa volta sono troppo infelice per cercare di farne un racconto, anche se un giorno lo far?.

In confidenza
John Fante
255 So.Bunker Hill #23
Los Angeles







i libri con le raccolte di lettere sono secondo me davero interessanti, ma inutili se non si ? prima completata la bibliografia dell'autore.
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alcuni estratti dai suoi racconti:

Il Dio di mio padre (Una raccolta davvero ottima di racconti)
Marcos y Marcos, pag.136



Pu? celebrare gioie e misfatti del proprio impossibile padre.
Oppure raccontare una fuga da casa per cercare di entrare a far parte della squadra di baseball dei New York Giants.
O ancora descrivere l'eroica epopea di un lavoratore filippino alla conquista di una bionda americana, e con lei di tutta l'America.
Quale che sia la situazione, John Fante sa come arrivare al cuore dei lettori. Riesce a stupirli e a commuoverli con la calda, quasi disarmante immediatezza di una scrittura che sembra alimentarsi direttamente dalla vita.
Questi racconti, finora inediti in Italia, risalgono per lo pi? agli anni Quaranta e ai primi anni Cinquanta, e sono un'ulteriore conferma della straordinaria vitalit? di uno scrittore che come pochi ha saputo rappresentare gli incanti e gli "assoluti" della fanciullezza e dell'adolescenza, le intermittenze e le ribellioni di un carattere giovane e "ruggente", che sa sorridere di fronte alle lusinghe e ai disinganni dell'esistenza.
Diceva Charles Bukowski: "Fante scrive con le viscere e per le viscere, con il cuore e per il cuore".



***


Suora non pi?

Alle medie mia madre and? a scuola dalle suore. E dopo voleva farsi monaca pure lei. Me l'ha detto nonna Toscana. Per? la nonna, e con lei tutta la famiglia, non sentiva ragioni. Le dissero che magari in altre famiglie non ci sarebbe stato nessun problema se una ragazza si faceva monaca, ma non nella loro. Mia madre si chiamava Regina Toscana, ed era cos? santa che la santit? le illuminava lo sguardo. Teneva in camera sua una statua di santa Teresa, e ogni volta che la tormentavano sulla faccenda del farsi o non farsi monaca si chiudeva l? dentro e pregava davanti a santa Teresa, giorno e notte.
"Oh venerabile Santa!" la invocava. "Dammi la luce che io possa vedere il cammino che vuoi ch'io compia, s? che risponda al Tuo invito. Inondami della Tua grazia santificante nel nome della nostra Madre Benedetta e del Signore Ges?, amen!"
Una preghierona. Ma non funzion?. L'irremovibile nonna toscana ripet?: niente da fare. Disse a mia madre che la piantasse di bamboleggiare e si mettesse finalmente a ragionare. Tutti le parlavano cos?, lo zio Jim, lo zio Tony, nonna e nonno Toscana. Erano paesani italiani e non gradivano quel comportamento. Gli italiani non sopportano che le loro donne vogliano rimanere zitelle. Non lo sopportano e trovano che sia uno stupido capriccio. Meglio, molto meglio sposarsi, per le italiane. Paga il marito e tutta la famiglia risparmia. Questo andavano ripetendo a mia madre.[...]





Dago Red
1940 - Marcos y Marcos, pag.144




Dago Red, cio? il vino rosso degli immigrati d'origine italiana, perch? Dago era uno dei molti modi in cui, con un certo disprezzo, si potevano chiamare gli italiani d'America.
Dago Red ? la raccolta dei primi racconti di John Fante, per cui questo splendido libro ? una specie di incunabolo, il preannuncio di tutta una carriera letteraria, il primo seme di una lussureggiante fioritura romanzesca. Il padre burbero muratore spesso senza lavoro, la madre apprensiva, la sorella bigotta, i riti cattolici, le continue frizioni interrazziali, l'adorato baseball, le donne sognate, amate e perdute, e la morte: come l'esposizione al rallentatore di tutti i temi che saranno sviluppati poi nei romanzi migliori...



***

L?Odissea di un wop


I

Sto mettendo insieme pezzi di storie sul conto di mio nonno. E? la nonna a parlarmene. Quand'era vivo, mi dice, era un brav'uomo, la cui bont? suscitava pi? piet? che ammirazione. Era noto come "il bravo piccolo Wop". Se c'era da passare una serata, gli piaceva di starsene seduto al tavolo di un saloon a sorseggiare un bicchierino di anisetta, tutto solo. Se ne stava l? come una ragazzina intenta a ciucciare un cono gelato. Gli piaceva, al vecchio, quella roba verde, quell'anisetta; era la sua passione, e quando i compari lo vedevano l? seduto per conto suo, la cosa li metteva di buonumore, perch? lui era un bravo piccolo Wop.
Dunque una sera, dice la nonna, il nonno se ne stava al suo tavolo al saloon, lui e la sua anisetta. Si aprono i battenti della porta a vento e irrompe un camionista sbronzo che si aggrappa al bancone e bercia:
- Forza, tutti qui! Avanti, offro io! -
Mio nonno ? rimasto seduto, immobile, con quella sua vecchia lingua che faceva l'amore con l'anisetta. Tutti gli altri si sono avviati al banco per brindare col camionista. Quello si guarda attorno. Vede mio nonno. Lo insulta.
- Anche te, Wop! - dice. - Vieni a bere! -
Silenzio. Si alza il nonno. Caracolla sul piancito, oltrepassa il camionista e poi che ti fa? Varca la porta a vento e se ne esce sulla strada piena di neve. Alle sue spalle scoppiano le risate. E questo gli brucia. Ma se ne va a casa, da mio padre.

- Mamma mia! - balbetta -Tummy Murray, m'ha ditto Wop. A me! -
- Sangue della Madonna! -
A capo scoperto, mio padre si precipita in strada, e poi dritto al saloon. Tommy Murray non c'era pi?, era andato a un altro saloon mezzo isolato pi? avanti, ed ? l? che mio padre lo ha beccato. L'ha tirato da un lato e gliene ha dette un paio in faccia. Mazzate! In un momento, capelli strappati, sangue che schizza. Sedie rovesciate. Applausi dalla clientela. Se le sono date per un'ora intera. Rotolando sul pavimento, pigliandosi a calci, bestemmiando, morsicandosi. Due corpi avvinghiati in mezzo al pavimento: un viluppo umano. A un certo punto la testa, il petto e le braccia di mio padre seppelliscono la faccia del camionista. Quello urla. Mio padre ringhia. Aveva il collo irrigidito, e tremava. Il camionista urla di nuovo, e poi resta l?, fermo. Si alza mio padre, asciugandosi col dorso di una mano il sangue che gli era rimasto sulla bocca aperta. A terra giace il camionista, con un orecchio mezzo staccato dalla testa... Questa ? la storia che mi racconta mia nonna.
Penso a quei due, mio padre e il camionista; me li figuro mentre lottano per terra. Accidenti! Mio padre che fa a botte!
Mi viene un'idea. I miei due fratelli stanno giocando nell'altra stanza. Pianto la nonna e vado da loro. Stravaccati sul tappeto, trafficano coi loro pastelli e i fogli da disegno. Alzano gli occhi e vedono la mia faccia su cui brilla quell'idea.
- Qualcosa che non va? - domanda uno.
- Vi sfido a fare una cosa -.
- Che cosa? -
Vi sfido a chiamarmi Wop! -
Il mio fratello pi? piccolo, che non ha neanche sei anni, salta in piedi e, ballandomi attorno, grida: - Wop! Wop! Wop! Wop! -
Lo guardo. Puah! Troppo piccolo. E? l'altro, ? il mio fratello pi? grande quello che voglio. Ha anche le orecchie, oh se ce l' ha!
- Scommetto che hai paura di chiamarmi Wop -. Lui per? ha gi? sentito puzza di bruciato.
- Ma va l? - dice. - Non voglio - .
-Wop! Wop! Wop! Wop! - grida il piccolo. - Chiudi quella bocca, te! -
- Non ci penso nemmeno. Sei un Wop! Wop! Wop! Woppety Wop! -
La scatola di pastelli del mio fratello pi? grande ? l? per terra, giusto davanti al suo naso. Ci metto sopra il tacco e la stritolo. Lui urla, afferrandomi la gamba. Io mi divincolo, e lui attacca a piangere.
- Uh, me l'hai fatta sporca - dice.
- Ti sfido a chiamarmi Wop! -
- Wop! -
Vado alla carica, a caccia del suo orecchio. Ma entra la nonna, agitando la coramella del rasoio.


II

Fin dall'inizio ho sentito mia madre usare le parole "Wop" e "Dago" in un tono che denota un profondo disgusto. E? come se le sputasse fuori. Come se le si slanciassero dalle labbra. Per lei, contengono l'essenza stessa della povert?, dello squallore, della sporcizia. Se non mi lavo i denti, se non mi scappello quando ? il caso, mia madre dice: - Non fare cos?. Non fare il Wop -. Cos?, man mano che i suoi valori diventano i miei, Wop e Dago sono sempre pi? sinonimi del male. Ma lei, almeno, ? coerente.
Mio padre no. Ha la lingua sciolta, lui. Come gli gira, cos? la pensa. Capisco che per lui "Wop" e "Dago" non hanno un significato preciso; tuttavia, se ? un non italiano a sbatterglieli in faccia, le cose cambiano: ? un insulto grave.
Cristoforo Colombo, dice mio padre, ? il pi? grande Wop che ci sia mai stato. E cos? Caruso. E cos? questo e quello. Ma il suo carissimo amico Peter Ladonna non ? soltanto un porco ubriacone, per giunta di rotolo ? proprio un Wop; e naturalmente tutti i suoi cognati non sono altro che dei Wop buoni a nulla.
Fa finta di odiare gli irlandesi. Non ? vero, ma gli piace pensarlo, e a noi bambini ci aizza sempre contro di loro. Il nostro droghiere si chiama O'Neil. Spesso, senza accorgersene, sbaglia i conti quando mia madre va alla sua bottega. Poi lei racconta a mio padre che le ha pesato male la carne o le ha dato un uovo marcio.
Subito mio padre si innervosisce, e il labbro inferiore gli si increspa. - Questa ? l'ultima volta che quel puzzone d'un irlandese mi frega! - Poi esce, e a passi pesanti si avvia alla bottega.
Poco dopo ritorna. Sorride. In un pugno stringe una manciata di sigari. - D'ora in poi - dice - tutto a posto -.
A me non piace, il droghiere. Mia madre mi manda alla sua bottega ogni giorno, e lui subito mi spezza il respiro con quel suo saluto: - Salve, piccolo Dago! Che ti serve? - Lo detesto; non entro mai nella sua bottega se in giro c'? qualche altro cliente, perch? esser chiamato Dago davanti agli altri ? un'umiliazione spaventosa, quasi fisica. Lo stomaco mi si dilata e si contrae, ed ? come sentirsi nudi.
Quando il droghiere mi da le spalle, rubo senza pudore. Mi fa piacere derubarlo: di caramelle, dolci, frutta. Quando deve andare nella cella frigorifera, mi sporgo sulla bilancia della carne sperando di sgraffignargli una costoletta; oppure con la punta del piede gli schiaccio un cesto di uova. Certe volte rubacchio un po' troppo. E che piacere, allora, starsene l? sul marciapiede, bello satollo, a buttar via le sue caramelle, i suoi dolci, le sue mele nell'erbaccia gialla e incolta dall'altra parte della strada!...
- Maledizione, O'Neil, non ? che puoi chiamarmi Dago e passarla liscia!-
Sua figlia ha la mia et?. E? strabica. Due volte a settimana passa davanti a casa nostra per andare alla lezione di musica. Dall'alto, tra i rami di un olmo, la osservo avanzare lungo il marciapiede, dondolando la custodia del violino. E quando ce l'ho sotto di me, le canto una bella filastrocca:

Marta ? strabicaaaaaa! Marta ? strabicaaaaaa! Marta ? strabicaaaaaa!


III

Crescendo, mi rendo conto che gli italiani usano le parole Wop e Dago assai pi? spesso degli americani. Mia nonna, il cui vocabolario inglese ? ristretto ai sostantivi pi? comuni, le adopera sempre quando si trova a discutere di italiani contemporanei. Quelle parole non vengono mai fuori serenamente, discretamente. Piuttosto irrompono. C'? questa intonazione sfacciata, e poi ? come se qualcuno venisse tramortito, stroncato.
Fin dal primo giorno, alla scuola parrocchiale, ho il tremendo timore di essere chiamato Wop. Non appena scopro per quale motivo la gente usa cose come i cognomi, raffronto il mio con altri tipici cognomi italiani come Blanchi, Borello, Pacelli, nomi di altri studenti. Il paragone mi d? un piacevole senso di sollievo. Dopotutto, penso, la gente dir? che sono francese. Forse che il mio nome non ha un suono francese? Certo! E da allora in poi, quando mi domandano di che nazionalit? sono, gli dico che sono francese. Qualche ragazzo comincia a chiamarmi Frenchy. Mi piace. E? bello.
Insomma prendo a detestare le mie origini. Evito i ragazzi e le ragazze italiane dai modi amichevoli. Ringrazio Dio per la mia pelle chiara e per i capelli, e i miei compagni me li scelgo in base al suono anglosassone dei loro nomi. Se un ragazzo si chiama Whitney, Brown, oppure Smythe, allora ? amico mio; per? sto sempre un poco in apprensione quando sono con loro; potrebbero scoprirmi. A ora di pranzo mi raggomitolo sulla mia gamella, perch? mia madre non ? il tipo che mi d? panini avvolti in carta incerata, li fa anzi troppo grossi, con le foglie di lattuga che vengono fuori. Per di pi?, e pane fatto in casa, non di panetteria, non pane "americano". Mi lamento assai perch? non posso avere maionese e altre cose "americane".
Il parroco ? un buon amico di mio padre. Gironzola per i campi di gioco della scuola, d? un'occhiata ai bambini che giocano. Mi da una voce, mi domanda che fa mio padre, poi mi dice che dovrei essere orgoglioso di studiare i miei grandi compatrioti. Colombo, Vespucci, Giovanni Caboto. Parla a voce alta, allegramente. Gli altri studenti fanno capannello intorno a noi, ascoltano, e io mi mordo le labbra e prego Ges? che la smetta e se ne vada.
Capita poi che senta parlare di un tizio chiamato Dante. Ma quando scopro che era italiano mi viene da odiarlo, come se fosse vivo, come se stesse passeggiando tra le aule e puntasse il dito verso di me. Un giorno trovo il suo ritratto in un dizionario. Lo guardo e mi dico che non ho mai veduto un bastardo pi? brutto.
Un giorno, siamo un po' di studenti alla lavagna, e al mio fianco c'? una ragazza italiana dagli occhi dolci, una che odio ma che insiste nel dire che sono il suo moroso. Mi tira per una manica, si struscia, un po' impacciata, un po' in punta di piedi, mi fa dei sorrisetti strani. Io ghigno e le volto le spalle, poi mi allontano da lei pi? che posso. La suora nota l'ampio spazio che ci separa e mi dice di mettermi pi? vicino alla ragazza. Lo faccio, e quella si scosta, avvicinandosi alto studente che sta dall'altra parte.
Allora mi guardo i piedi ed ecco, c'? una macchia umida che si allarga. Do una rapida occhiata alla ragazza, e quella, col capo ciondoloni, mi sta guardando come se volesse chiedermi di farmi carico della sua colpa. Attiriamo l'attenzione dagli altri, e presto tutta la classe comincia a ridacchiare. Arriva la suora. Penso di essere di nuovo nei guai, ma quella mi abbraccia e mormora che avrei dovuto farle segno con due dita e certamente mi avrebbe dato il permesso di uscire. Per?, dice, ormai non ce n'? pi? bisogno; non mi resta che andare a darmi una ripulita. E? quello che faccio, in preda a un'isteria che mi rafforza nella convinzione che solamente una ragazza Wop, solamente una venuta fuori da una famiglia di Wop, avrebbe potuto fare una cosa come questa.
Oh, Wop! Oh, Dago! Mi date fastidio pure quando dormo. Sogno di difendermi dal miei tormentatori. E? un giorno vengo a sapere da mia madre che da giovane pap? se n'era andato in Argentina e per due anni aveva vissuto a Buenos Aires. Mia madre mi racconta di quello che gli era capitato laggi?, e io per tutto il giorno non riesco a pensare ad altro, anche quando ? ora di andare a letto. Quella notte mi risveglio con un sobbalzo. Nel buio, brancolo verso la camera di mia madre. Al suo fianco dorme mio padre, e io la sveglio piano, in modo che lui non si desti.
Sussurro: - Sei sicura che pap? non ? nato in Argentina? -
- No. Tuo padre ? nato in Italia -.
Torno a letto, sconsolato, disgustato.


IV

Durante una partita di baseball sul campetto della scuola, un ragazzo della squadra avversaria si mette a prendere in giro il mio modo di giocare. Siamo al nono inning, e io mostro di ignorare le sue battute. Stiamo perdendo, per?, se mi riesce di mettere a segno un solo colpo, le nostre possibilit? di vittoria sono piuttosto buone. Sono deciso a farcela, e affronto il battitore con sicurezza. Il mio tormentatore vede che sono al piatto.

- Oh oh! - grida. - Guarda chi c'?! C'? il Wop. Facciamolo fuori, quel Wop! -
Questa ? la prima volta che a scuola qualcuno si permette di far volare quella parolina; sono cos? arrabbiato che sbaglio il lancio come un fesso. Dopo la partita ci picchiamo, quel ragazzo e io, e lo costringo a rimangiarsi tutto.
Ed e cos? che i giorni di scuola sono diventati giorni di risse. Quasi ogni pomeriggio alle tre e un quarto si raduna una folla per vedere come faccio rimangiare tutto a qualcuno. C'? da divertirsi: eccomi qua, sto arrivando, dunque fatevi avanti, vi sfido a chiamarmi Wop! Alla fine, quando non c?? pi? nessun ragazzo che osa sfidarmi, gli insulti mi vengono riportati da confidenti, cos? mi tocca di cercare i colpevoli. Incedo nei corridoi. I ragazzi pi? piccoli mi ammirano. - Eccolo! - dicono, e restano l? a contemplarmi. I miei due fratelli minori frequentano la stessa scuola, e il pi? piccolo, una canaglietta di sette anni, mi porta i suoi amici e mi chiede di tirarmi su la manica e mostrar loro i muscoli. Bene ragazzi: guardate.
Mio fratello, a casa, fa resoconti furiosi delle mie battaglie. Mio padre ascolta avidamente, e io sto l? in piedi, pronto a correggere ogni dettaglio impreciso. Giorni tristemente felici! Mio padre mi istruisce: cos? devo tener la guardia, cos? devo proteggermi il capo. Mia madre, troppo impressionata per sentirne di pi?, si preme le tempie, strizza gli occhi, se ne va.
Sono nervoso quando porto a casa qualche amico: quel posto ha un'aria troppo italiana. Qua c?? appeso un ritratto di Vittorio Emanuele, e pi? sopra c?? una foto del Duomo di Milano, e vicino ce n'? una di San Pietro, poi sulla credenza c?? una caraffa di foggia medievale, piena sempre fino all'orlo di un vino rosso rubino. Tutte queste cose sono cimeli di famiglia di mio padre e, chiunque venga a casa nostra, a lui piace piazzarsi l? sotto e vantarsi.
Cos?, comincio a rinfacciarglielo. Gli dico di smetterla di fare il Wop e di diventare americano una buona volta. E lui subito prende la coramella del rasoio e me le suona di santa ragione, incalzandomi di stanza in stanza fino a fuori. Mi rifugio nel ripostiglio e mi tiro gi? i pantaloni e tendo il collo per controllare i lividi sul sedere. Un Wop, ecco che cos'? mio padre! Non esiste un solo padre americano che picchi suo figlio in questo modo. B?, per questa strada non andr? molto lontano; un giorno o l'altro gliela faccio pagare.
Poi penso che mia nonna ? una Wop senza speranza. E? una piccola contadina tracagnotta che va in giro con le braccia incrociate sulla pancia, una vecchia sempliciotta appassionata di bambini. Entra in camera mia e cerca di parlare coi miei amici. Parla inglese con un pessimo accento, con questo incessante rotolio di vocali. Quando, con quel suo fare semplice, con quei vecchi occhi sorridenti, si mette davanti a uno dei miei amici e dice: - Ti piace a te di andare alla scola delle monache? - , il cuore ml si ribella. Mannaggia! Che disgrazia: ormai lo sanno tutti, che sono italiano.
Mia nonna mi ha insegnato a parlare la sua madrelingua. Verso i sette anni, la conosco abbastanza bene, e con lei la parlo sempre. Per?, sui dodici-tredici anni, quando ci sono i miei amici, fingo di non capire quello che dice, e faccio dei sorrisi affettati. I miei amici non si arrischiano a pensare che possa parlare altra lingua al di fuori dell'inglese. Certe volte, questo atteggiamento la manda in bestia. Si irrigidisce, le si tende la cute della gola, e allora bestemmia, bestemmia poderosamente.

[...]


***

Rapimento in famiglia


C'era un vecchio baule nella camera da letto di mamma. Era il pi? vecchio baule che avessi mai visto, uno di quelli col coperchio arrotondato, come la pancia di un ciccione. Ficcata dentro questo baule, sotto la biancheria del corredo che non si usava mai appunto perch? era il corredo; sotto l'argenteria che non si usava mai perch? era un regalo di nozze; e sotto ogni sorta di nastri fantasia, bottoni, certificati di nascita; sotto tutto questo c'era una scatola con le foto di famiglia. Mamma non permetteva a nessuno di aprire il baule, e teneva nascosta la chiave. Ma un giorno io la trovai. La trovai nascosta sotto lo zerbino.
Quell'anno, nei pomeriggi di primavera, tornavo a casa da scuola e trovavo mamma che sfaccendava in cucina. Lavorava cos? tanto che aveva le braccia molli, bianche come argilla disseccata, i capelli secchi e sottili incollati alla testa e gli occhi scavati, grandi e tristi.
La foto! pensavo. Oh, quella foto nel baule!
Quando mia madre non guardava, me la svignavo in camera da letto, chiudevo a chiave e aprivo il baule. C'erano molte foto l? dentro, e mi piacevano tutte, ma ce n'era una sola che le mie dita bramavano stringere e i miei occhi non vedevano l'ora di ammirare ogni volta che trovavo mamma conciata in quel modo. Quella foto le era stata scattata una settimana prima di sposare mio padre.[...]
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Aspetta primavera, Bandini
1938 - Marcos y Marcos, pag.190


Fermi tutti: in casa Bandini sta per fare ingresso nonna Toscana: come ogni mese, annuncia per lettera la propria visita-ispezione ufficiale, che si traduce in una giornata di mugugni e osservazioni su disordine, sregolatezze, immoralit?: non c'? poi da meravigliarsi se gli americani considerano gli italiani una banda di straccioni da evitare a tutti i costi.
Donna Toscana considera il genero Svevo ? il quale non a caso se la d? a gambe al suo arrivo ? un mezzo fallito e la figlia Maria una pazza perch? lo ama e alla fin fine ne asseconda le peripezie; come se non bastasse, qualcuno ha visto pap? Bandini su una veloce berlina accanto alla donna pi? ricca del paese, con la risibile scusa di un incarico ottenuto da lei: risistemare il caminetto di una delle sue ville.
Insomma, il povero Arturo, poco pi? che bambino, pur con tutto l'entusiasmo e l'ammirazione per le bravate di babbo Svevo, non ha vita facile in questo paesetto di montagna della grande America degli anni Trenta. Non ? sempre gradevole districarsi fra mille trovate per conquistare o tenere a bada Mister Craik, il salumiere che continua miracolosamente a conceder credito ai Bandini, la bellissima e cagionevole compagna di classe Rosa Pinelli, che respinge il dono d'amore ? un prezioso cammeo rubato a mamma Maria ? e soprattutto l'insopportabile fratellino Federico tutto preghiere e saggezza, che gli ricorda l'imminenza del temuto purgatorio?

***

Prefazione di John Fante

Ora che sono vecchio non posso ripensare ad Aspetta primavera , Bandini senza smarrirne le tracce nel passato. Certe notti, a letto, una frase, un paragrafo o un personaggio di questa prima opera m'ipnotizza e nel dormiveglia mi ritrovo a ricucirne le frasi ricavando il ricordo melodioso di una vecchia camera da letto nel Colorado, o di mia madre e mio padre oppure dei miei fratelli e di mia sorella. Non riesco a convincermi che una cosa scritta tanto tempo fa mi risulti cos? dolce nel dormiveglia e tuttavia non riesco a guardarmi indietro, riaprendo e rileggendo il mio primo romanzo. Ho paura, non sopporto l'idea di vedermi sotto la luce della mia prima opera. Sono certo che non la rilegger? pi?. Di una cosa per? sono sicuro : tutta la gente della mia vita di scrittore, tutti i miei personaggi si ritrovano in questa mia prima opera. Di me non c'? pi? niente, solo il ricordo di vecchie camere da letto, e il ciabattare di mia madre verso la cucina.

***

l'inizio...

Avanzava, scalciando la neve profonda. Era un uomo disgustato. Si chiamava Svevo Bandini e abitava in quella strada, tre isolati pi? avanti. Aveva freddo, e le scarpe sfondate. Quella mattina le aveva rattoppate con dei pezzi di cartone di una scatola di pasta. Pasta che non era stata pagata. Ci aveva pensato proprio mentre infilava il cartone nelle scarpe.
Detestava la neve. Faceva il muratore e la neve gelava la calce tra i mattoni che posava. Era diretto a casa, ma che senso aveva tornare a casa? Anche da ragazzo in Italia, in Abruzzo detestava la neve. Niente sole, niente lavoro. Adesso viveva in America, nella citt? di Rocklin, Colorado. Era appena uscito dall' Imperial Poolhall, la bisca locale. Le montagne c'erano anche in Italia, simili ai bianchi monti a pochi chilometri di distanza verso occidente. Le montagne erano un gigantesco abito bianco caduto come piombo sulla terra. Vent'anni prima, quand'era ventenne, aveva fatto la fame per un intera settimana fra le pieghe di quel selvaggio abito bianco. Doveva costruire un camino in una baita. Era pericoloso lass?, d'inverno. Eppure aveva mandato al diavolo il pericolo, perch? allora aveva vent'anni, una ragazza a Rocklin, e bisogno di soldi. Ma il tetto della baita era crollato sotto il peso della neve soffocante.
L'aveva sempre tormentato, quella bella neve. Non capiva per quale ragione non se ne andava in California. Rimaneva in Colorado invece, nella neve alta, perch? ormai era troppo tardi. La neve bianca e bella era uguale alla moglie bianca e bella di Svevo Bandini, cos? bianca, cos? fertile, adagiata su un letto bianco nella casa in fondo alla strada. Al numero 456 di Walnut Street, Rocklin, Colorado.
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Chiedi alla polvere
1939 - Marcos y Marcos, pag.192



Dalla polvere grigia e inquieta dei sobborghi di Los Angeles Arturo Bandini, fiero e squattrinato futuro astro della letteratura mondiale, invia i primi racconti all'ineguagliabile Hackmuth, munifico e geniale editore.
Unico suo chiodo fisso: Camilla Lopez, altrettanto orgogliosa cameriera chicana, corpo stupendo e testa vuota; ma un'improvvisa fuga d'amore di Arturo e Camilla alla volta dell'oceano si trasforma in catastrofe erotica, e nel giro di poco tempo Bandini finisce tra le braccia mature e arroganti di una deforme ninfomane, Vera. Il rimorso per l'adulterio scatena un vero e proprio terremoto sotto i piedi dell'ingenuo scrittore, e il suo desiderio di redenzione lo porta a inseguire e proteggere Camilla, rivelatasi grande consumatrice di marijuana e innamorata di Sammy, suo mediocre collega. Gravemente malato, Sammy si ritira a vivere a un passo dal deserto, cimentandosi in romanzetti western di infimo ordine e, incredibilmente, respinge Camilla...
Un romanzo comico e romantico, beffardo e straziante, avvolto, come la vita e i luoghi dei suoi protagonisti, da una sorta di "polvere-del-mondo" fatta di sabbia e di luce, di gioia e amarezza.



***

la prefazione di Charles Bukowski...

Ero giovane, saltavo i pasti, mi ubriacavo e mi sforzavo di diventare uno scrittore. Le mie letture andavo a farle alla biblioteca pubblica di Los Angeles,nel centro della citt?, ma niente di quello che leggevo aveva alcun rapporto con me, con le strade o con la gente che le percorreva. Mi sembrava che tutti giocassero con le parole e che i cosiddetti grandi scrittori non dicessero un accidenti di niente. Il loro stile era una mistura di sottigliezza, mestiere e forma e ci? che scrivevano veniva letto , appreso, assimilato e poi ritrasmesso a qualcun altro. Era un congegno funzionale, una "cultura della parola" assai scorrevole e prudente. Bisognava tornare agli scrittori russi precedenti alla rivoluzione per ritrovare il rischio e la passione. C'erano delle eccezioni, ma erano cos? poche che le si esauriva in un attimo, per poi ritrovarsi a fissare file e file di libri di un'incredibile monotonia. A paragone degli scrittori del passato, i moderni non valevano gran che.
Tirai gi? dagli scaffali un libro dopo l'altro. Perch? nessuno diceva niente? Perch? nessuno gridava?
Mi misi a cercare nelle altre sale della biblioteca . La sezione dei libri religiosi non era che un vasto acquitrino, almeno per me. Passai al reparto filosofia. Scovai un paio di tedeschi dall'animo amaro che mi tennero allegro per un po', ma l'esperienza si esaur? ben presto. Provai con la matematica, ma era esattamente come la religione, mi scorreva sopra senza lasciar traccia. Ovunque cercassi, non trovavo niente che mi interessasse.
Mi rivolsi alla geologia e scoprii che era una materia curiosa, ma di scarso nutrimento.
Trovai alcuni libri di chirurgia e ne fui incuriosito: la terminologia era del tutto nuova e le illustrazioni mi sembravano fantastiche. Apprezzai soprattutto l'operazione sul mesocolon, la cui tecnica fin? per diventarmi familiare.
Poi abbandonai la chirurgia e tornai nella sala principale, che ospitava la narrativa. ( I giorni in cui non ero a corto di vino, non andavo mai in biblioteca. La biblioteca era il posto ideale per quando non avevo niente da mangiare o da bere, o la padrona di casa mi stava alle costole pere recuperare l'affitto arretrato. In biblioteca , almeno, c'erano i gabinetti. ) Ci ho visto una quantit? di barboni, l? dentro, per lo pi? addormentati sui loro libri.
Continuavo ad aggirarmi per la sala grande, tirando gi? un libro dopo l'altro, leggendo qualche riga, a volte qualche pagina, per poi rimetterli al loro posto.
Poi, un giorno, ne presi uno e capii subito di essere arrivato in porto. Rimasi fermo per un attimo a leggere, poi mi portai il libro al tavolo con l'aria di uno che ha trovato l'oro nell'immondezzaio cittadino. Le parole scorrevano con facilit?, in un flusso ininterrotto. Ognuna aveva la sua energia ed era seguita da un 'altra simile. La sostanza di ogni frase dava forma alla pagina e l'insieme risultava come scavato dentro di essa. Ecco, finalmente, uno scrittore che non aveva paura delle emozioni. Ironia e dolore erano intrecciati tra loro con straordinaria semplicit?. Quando cominciai a leggere quel libro mi parve che mi fosse capitato un miracolo, grande e inatteso.
Ero socio della biblioteca. Presi in prestito il libro e me lo portai in stanza, mi sdraia sul letto e ripresi a leggerlo, ma prima ancora di finirlo capii che l'autore era riuscito a elaborare un suo stile particolare . Il libro Ask the Dust e l'autore era John Fante, che avrebbe esercitato un'influenza duratura su di me. Terminato Ask the Dust tornai in biblioteca in cerca di altri suoi libri. Ne trovai due: Dago Red e Wait until Spring, Bandini. Erano dello stesso tipo, scritti con le viscere e per le viscere, con il cuore e per il cuore.
Si, Fante ha avuto una grande influenza su di me. Non molto tempo dopo averlo scoperto, mi misi a vivere con una donna. Beveva come una spugna , anche pi? di me,e assieme facevamo delle litigate feroci, durante le quali le gridavo: " Non chiamarmi figlio di puttana! Io sono Bandini, Arturo Bandini!".
Fante era il mio dio e io sapevo che gli d?i vanno lasciati in pace, non si andava a bussare alla loro porta. E tuttavia mi piaceva immaginare la casa dove era vissuto, in Angel's Flight, e illuderni che ci abitasse ancora. Ci passavo davanti quasi ogni giorno e mi chiedevo : ? questa la finestra da cui ? uscita Camilla? E' quella la porta dell'albergo ? Quella la hall? Non l' ho mai saputo.
Ho riletto Ask the Dust quest'anno, trentanove anni dopo la prima volta, e ho dovuto riconoscere ce ha resistito al tempo, come tutte le altre opere di Fante. Questa ,per?, resta la mia preferita perch? ? con essa che ho scoperto la magia. Fante ha scritto altri libri oltre Dago Red e Wait until Spring, Bandini, e i loro titoli sono Full of Life e The Brotherhood of the Grape. Attualmente sta lavorando al suo nuovo romanzo, A Dream of Bunker Hill.
Per una serie di circostanze, quest'anno l' ho finalmente conosciuto. Ma la storia di John Fante non ? tutta qui. E' la storia di un uomo fortunato e sfortunato in ugual misura , di un uomo di raro coraggio naturale. Un giorno qualcuno la racconter? , ma ho la sensazione che lui non voglia che lo faccia qui. Dir? solo che, nel suo caso, linguaggio e personalit? coincidono: entrambi sono forti, buoni e caldi.
E ora basta. Il libro ? vostro.


Charles Bukowski

***

l'inizio...

Una sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d'albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell'albergo. O pagavo o me ne andavo: cos? diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce e andandomene a letto.
Al mattino mi svegliai ,decisi che avevo bisogno di un po' di esercizio e cominciai subito. Feci parecchie flessioni ,poi mi lavai i denti. Sentii in bocca il sapore del sangue, vidi che lo spazzolino era colorato di rosa, mi ricordai cosa diceva la pubblicit?, e decisi di uscire a prendermi un caff?.
Andai al solito ristorante, mi sedetti su uno sgabello davanti al bancone e ordinai un caff?. Il sapore era pi? o meno quello ma, nel complesso, la bevanda non valeva quello che costava. Mentre ero seduto l? mi fumai un paio di sigarette, lessi i cartelloni che riportavano i risultati delle partite dell 'American League, evitando con cura quelli della National League, e notai con soddisfazione che Joe DiMaggio teneva ancora alto l'onore degli italiani, perch? era in testa alla classifica dei battitori. Un gran battitore quel DiMaggio. Uscii dal ristorante, mi immobilizzai davanti a un immaginario lanciatore e battei la palla, segnando un punto a mio favore. Poi mi incamminai verso Angel's Flight, domandandomi come avrei passato la giornata. Non avevo niente da fare e cos? decisi di andarmene a zonzo per la citt?.
Mi avviai lungo Olive Street e oltrepassai un caseggiato giallo, impregnato come una carta assorbente della nebbia notturna, e pensai ai miei amici Ethie e Carl, che venivano da Detroit e avevano vissuto l?, e mi ricordai di quella sera in cui Carl aveva picchiato Ethie perch? aspettava un bambino e lui non voleva figli. Comunque il bambino era arrivato e la storia era finita l?. Mi venne in mente l'interno del loro appartamento, che puzzava di topi e di polvere, e le donne anziane che stavano a sedere nell'ingresso nei pomeriggi di calura, e una in particolare, che aveva un bel paio di gambe. Pensai anche all'uomo dell'ascensore, un fallito di Milwaukee, che grugniva immancabilmente quando gli si diceva il numero del piano a cui si era diretti, come se, tra tanti, quello fosse il peggiore. Rividi il vassoio colmo di panini e il pacco di rotocalchi che si portava sempre appresso.
Discesi lungo Olive Street, oltre le orrende casupole in legno che trasudavano storie di omicidio, fino all'Auditorio della Filarmonica e mi torn? in mente quella volta che l? c'ero andato con Helen per sentire il gruppo corale dei Cosacchi del Don. Mi ero annoiato a morte e proprio per questo avevamo litigato. Lei portava un abito bianco, che mi procurava una fitta di piacere tutte le volte che lo toccavo. Oh, quella Helen... ma non ? il momento. Mi ritrovai all'incrocio tra la Quinta e Olive, dove lo sferragliare dei grandi tram mi rodeva le orecchie, e l'odore della benzina velava le palme di tristezza; il marciapiede nero era ancora bagnato per la nebbia notturna.
Arrivai al Biltmore Hotel, davanti al quale stazionava una lunga fila di taxi con gli autisti che dormivano al posto di guida, tutti, tranne quello che era di fronte alla porta principale. Cominciai a pensare a loro, a chi erano e a cosa sapevano, e mi ricordai di quella volta che uno di loro ci aveva allungato un indirizzo, a Ross e a me, sogghignando con aria maliziosa, e poi ci aveva portato a Temple Street, di tanti posti che c'erano, dove avevamo trovato solo due bruttone e Ross aveva concluso, mentre io ero rimasto nel salottino a far andare il fonografo, impaurito e solo.
Oltrepassai il portiere del Biltmore e lo odiai subito, lui e i suoi galloni dorati, il suo metro e ottanta e la sua dignit?, quando un'automobile nera si ferm? accanto al marciapiede e ne smont? un tizio. Aveva l'aria di essere ricco. Dopo di lui scese una donna ed era bella, portava una pelliccia di volpe argentata e quando attravers? il marciapiede e varc? le porte girevoli fu come una musica. Cosa non darei per godermela un po', pensai, mi basterebbe un giorno e una notte, ma proseguii e lei non fu pi? che un sogno, mentre il suo profumo indugiava ancora nell'aria umida del mattino.
Mi incantai davanti alla vetrina di un negozio di pipe e ci rimasi un sacco di tempo, mentre il mondo intero spariva a eccezione di quella vetrina e delle pipe. Le fumai una per una, immaginando di essere un grande scrittore e di scendere da una grossa auto nera con un'elegante pipa di radica in bocca e in mano un bastone da passeggio, seguito dalla donna con la volpe argentata, visibilmente orgogliosa di me. Firmammo il registro dell'albergo, poi ordinammo un cocktail, ballammo un po', prendemmo un altro cocktail e lo recitai qualche strofa in sanscrito, e la vita mi sembrava meravigliosa perch? ogni due minuti una fata mi fissava estasiata e io, il grande scrittore, ero costretto a farle un autografo sul men?, rendendo pazza di gelosia la mia compagna con la volpe argentata.
Los Angeles, dammi qualcosa di te! Los Angeles, vienimi incontro come ti vengo incontro io, i miei piedi sulle tue strade, tu, bella citt? che ho amato tanto, triste fiore nella sabbia.


***

frammenti..

Mi trovavo a Spring Street, nel bar di fronte al negozio di roba usata. C'ero andato per prendermi una tazza di caff? con gli ultimi cinque cent che mi restavano. Un locale vecchiotto, con la segatura per terra e, sulle pareti, dei nudi disegnati con crudezza. Un posto frequentato dagli anziani, dove la birra costava poco e puzzava di acido, e il passato era rimasto immutato.
Mi sedetti a uno dei tavolini appoggiati al muro. Ricordo che mi presi il capo tra le mani. Udii la sua voce, ma non alzai gli occhi. Ricordo che mi chiese: - Cosa ti porto? - e io le ordinai un caff? con la panna. Rimasi l?, seduto immobile, finch? non mi mise davanti la tazzina, rimasi l? per un tempo interminabile, pensando all'ineluttabilit? del mio destino.
Il caff? era pessimo. Quando mescolai la panna, capii che doveva trattarsi di tutt'altro, perch? l'insieme assunse una sfumatura grigiastra e il gusto mi parve quello della risciacquatura di stracci. La cosa mi irrito perch?, per quel caff?, avevo speso i miei ultimi cinque cent. Mi guardai attorno in cerca della ragazza che mi aveva servito. Era piuttosto lontana e stava trasferendo delle birre dal vassoio che aveva in mano a un tavolo. Era girata di schiena e io notai la linea morbida e compatta delle spalle sotto il grembiule bianco, la lieve traccia dei muscoli sulle braccia e i capelli neri, folti e lucenti, che le ricadevano sciolti.


***

la fine?

XIX

Il mio libro usc? una settimana dopo. Per un po' fu divertente. Entravo nelle librerie e lo vedevo, confuso tra migliaia di altri; il mio libro, le mie parole, il mio nome, la mia ragione di vita. Ma non era pi? la sensazione che avevo provato quando avevo visto pubblicato Il cagnolino rise sulla rivista di Hackmuth.
Quella era sparita per sempre. Non avevo pi? avuto notizie di Camilla. Le avevo lasciato solo quindici dollari; non potevano durarle pi? di dieci giorni. Sapevo che mi avrebbe telegrafato appena fosse rimasta senza soldi. Camilla e Willie... che ne era di loro?
Ricevetti una cartolina da Sammy. La trovai nella cassetta delle lettere, un pomeriggio. Diceva:

Caro signor Bandini,
quella ragazza messicana ? qui e lei sa benissimo che non mi va di avere delle donne tra i piedi. Se ? la sua ragazza ? meglio che se la venga a prendere, perch? mi d? fastidio.
Sammy

Il timbro postale era quello di due giorni prima. Feci il pieno di benzina, buttai una copia del mio libro sul sedile anteriore e partii alla volta della baracca di Sammy, nel deserto Mojave.
Arrivai che era mezzanotte passata. C'era luce all'unica finestra. Bussai e lui mi apr?. Prima ancora di parlare, mi guardai attorno. Lui torn? a sedersi accanto alla lampada, raccolse da terra un rotocalco e continu? a leggere, senza dire una parola. Di Camilla, nessuna traccia.
- Dov'?? - gli domandai.
- E chi diavolo lo sa? Se n'? andata -.
- Vorrai dire che l?hai sbattuta fuori -.
- Non la reggo qui attorno. Sono malato -.
- Dov'? andata? -
Indic? con il pollice verso sud-est.
- Da quella parte -.
- Ma l? c?? il deserto -.
Si strinse nelle spalle. - Si ? portata con s? il cagnolino. Carino, quel botolo -.
- Quando ? stato? -
- Domenica sera -.
- Domenica! - esclamai. - Cristo, sono passati tre giorni! Aveva con s? da mangiare o da bere? -
- Del latte - rispose. - Una bottiglia di latte per il cane -.
Uscii all'aperto e guardai verso sud-ovest. Faceva molto freddo, la luna era alta e le stelle splendevano a grappoli nella cupola blu del cielo. A sud, a ovest e a est si stendeva una landa desolata, disseminata di rialzi pietrosi, di sterpi e di scuri alberi di yucca. Tornai alla baracca. - Vieni fuori a indicarmi da che parte ? andata - dissi a Sammy. Abbass? la rivista e fece cenno verso sud-est. - Di l? - rispose.
Gli strappai il giornale di mano, lo afferrai per il collo e lo trascinai fuori, nel buio della notte. Non pesava niente e traball? sotto la mia spinta.
- Avanti, fammi vedere - ripetei. Arrivammo fino al limite dello spiazzo antistante la baracca. Lui borbott? che era malato e che io non avevo diritto di trattarlo cos?, e intanto si risistemava la camicia, stringendosi la cintura. - Su, fammi vedere dov?? andata - ripetei. Lui me lo indic?.
- L'ho vista sparire oltre quella cresta -.
Lo piantai l? e percorsi il mezzo chilometro che mi separava dal punto indicato. Faceva cos? freddo che dovetti chiudermi la giacca attorno al collo. Il suolo che calpestavo era composto da grossa sabbia scura mista a sassolini e forse, in qualche lontana era geologica, aveva fatto da fondo a un mare. Oltre la cresta ce n'era un'altra, e poi altre ancora, all'infinito. Il terreno sabbioso non recava alcuna impronta; sembrava che di l?l non fosse mai passato nessuno. Continuai a camminare, avanzando a fatica sul suolo che cedeva e si ricostituiva, ricoprendo le mie orme di uno spolverio di sabbia grigia.
Dopo circa tre chilometri, mi sedetti a riposare su un sasso rotondo. Nonostante il freddo, sudavo. La luna si muoveva verso nord. Dovevano essere circa le tre. Avevo camminato senza fermarmi, anche se lentamente, ma le creste continuavano a succedersi l'una all'altra, le colline subentravano alle colline e solo i cactus e le altre piante del deserto permettevano di distinguere la terra dal cielo.
Cercai di ricordarmi le carte della zona. Non c'erano strade ne citt?, e nemmeno tracce di vita umana di l? all'altra estremit? del deserto; nulla se non desolazione per chilometri e chilometri. Mi alzai e mi rimisi in cammino. Ero intorpidito dal freddo, ma continuavo a sudare. A oriente il grigio del cielo si illumin?, assumendo una sfumatura rosata e poi pi? rossa, finch? la palla di fuoco sorse da dietro le colline nerastre. Una suprema indifferenza ricopriva il deserto e l'eterno rinnovarsi dell'alba, e tuttavia il mistero di quelle colline, il loro segreto consolatore rendevano la morte senza importanza. Si poteva morire, ma il deserto avrebbe mantenuta segreta la nostra morte e ne avrebbe spazzato il ricordo col vento, il caldo e il freddo.
Era inutile. Come fare a trovarla? E perch? cercarla? Cosa potevo offrirle di diverso da quel mondo brutale che l'aveva gi? stroncata una volta? Ripresi il cammino in senso inverso, triste, nella triste luce dell'alba. Lei apparteneva alle colline, ora, e le colline l'avrebbero nascosta. Dovevo lasciarla tornare alla loro solitudine, lasciarla vivere con i sassi e con il cielo, lasciare che il vento giocasse con i suoi capelli fino alla fine. Era quella la sua strada.
Il sole era alto quando tornai alla baracca. Faceva gi? caldo. Sammy era sulla soglia. - Trovata? - mi domand?.
Non gli risposi. Ero stanco. Rimase a osservarmi per un istante, poi spar? all'interno. Udii scorrere il chiavistello. Si cominciava a scorgere, in distanza, il luccichio tremolante della canicola. Risalii il sentiero fino alla Ford. Presi la copia del mio libro, del mio primo libro, la aprii e scrissi a matita sul risguardo:

A Camilla, con amore,
Arturo

Percorsi un centinaio di metri verso sud-est e, con tutta la forza che possedevo, gettai il libro nella direzione che lei aveva preso. Poi montai in macchina, avviai il motore e partii per Los Angeles.
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