Disfatta esistenziale / Rimpianto

Esecuzione proposta da singoli, affinamento con l’intervento del gruppo.

Moderatori: Gaetano Intile, Robennskii

Robennskii
Macchina da scrivere
Macchina da scrivere
Messaggi: 165
Iscritto il: 15/12/2022, 21:05

Re: Disfatta esistenziale / Rimpianto

Messaggio da Robennskii »

Mi sembra perfetto, Namio.
Comprendo come l'intervento su questa mia introduzione sia stato focalizzato sulla tua prima critica, la principale.
Non posso che confermare l'efficacia del risultato e, soprattutto, l'insegnamento da portare "a casa".

Namio, ho inserito una nuova frase in rosso, molto importante per "puntellare" la trama. Se vuoi dargli un'occhiata cortesemente: la lascerò nella versione definitiva se ok.

Poiché il testo è giudicato finito, procederemo nella Sezione Rassegna a completamento del ciclo. In tal modo avremo dato dimostrazione del senso di questo progetto: una vera lavorazione artigianale per giungere al prodotto finito.

Segue versione definitiva di:
La Vecchia Stazione
Robennskii
Macchina da scrivere
Macchina da scrivere
Messaggi: 165
Iscritto il: 15/12/2022, 21:05

Re: Disfatta esistenziale / Rimpianto

Messaggio da Robennskii »

Bepi accartocciò il foglio: odiava atteggiarsi a poeta. Troppo l'inchiostro versato nella sua vita per sentirsi degno di vette così alte. Si affacciò sul terrazzo, davanti a un panorama che non lo annoiava mai. Da lassù poteva osservare, nelle giornate limpide, la linea delle colline fondersi con quella del mare. Quello era l'attimo della malinconia, quei ricordi che, come i colori mescolati dalle mani di un pittore esperto, avrebbero riempito le forme.

Sedette di nuovo allo scrittoio fissando la penna adagiata su un foglio immacolato, restando immobile, insensibile a tutto ciò che stava attorno. Ma non al gelido tocco dei minuti, immateriale e tuttavia pesante come un macigno. Da tanto, troppo tempo, l’ispirazione languiva, sepolta dalla cenere del passato. Questo lo turbava; non doveva accadere a chi, come lui, aveva sin da giovane dimostrato di avere piena coscienza dell’ineluttabilità del Tempo. Lui, il celebre scrittore che si era sempre detto pronto ad affrontare, un giorno, lo spettro del sipario chiuso, dei riflettori spenti su un palcoscenico deserto. Un finale che si sarebbe rivelato impietoso, seppellendolo senza alcuno scampo.

Vetro… tutto era vetro. Muri, libri, mobili: perfino la pietra possedeva un’anima. Ogni cosa gli parlava, facendogli rivivere quei momenti che, seppur piacevoli, sottostavano alla legge naturale del «sottile dolore»: quella che rende il rimpianto tanto intenso quanto più bello il ricordo. I brutti episodi invece no, quelli aveva imparato a schivarli con rara maestria.

Ma la croce che ogni uomo cela nel profondo s’infiamma nella notte. Così al calare del buio un sussurro tornava a farsi sentire, riaprendo una vecchia ferita.

L’aria fredda del mattino lo salvò dal vortice della tristezza. La decisione di uscire si era dimostrata saggia, almeno quanto lasciarsi alle spalle le nuvole del passato. Si era incamminato sul sentiero che lambiva il vicino paese senza entrarvi; durante il percorso incrociò dei passanti con cui poté scambiare qualche parola. Ma, giunto al bivio, prese un'altra direzione proseguendo per la vecchia stazione.

Una ragazza, le spalle alla parete rossastra della malandata costruzione, stava seduta di fronte all’unico binario arrugginito che, testardo, non si arrendeva ma guardava laggiù, nella vana speranza di veder comparire un ultimo treno.

Per un istante gli vennero in mente i ricordi che quel luogo evocava: le campagne appena arate, le albe gelide, le mattine di nebbia quando lasciava la bici nella piccola piazza antistante all’ingresso. O le volte che, giunto in ritardo, vedeva il lampo rosso dei fanali di coda farsi sempre più lontano. Ricordò perfino lo scappellotto che il “Bagigi”, come chiamavano il capostazione in paese, gli mollò dopo averlo sorpreso mentre orinava, insieme agli amici, nella siepe dietro la cabina. Le bravate di un’età spensierata.

Poi arrivò lei, Ludovica. Ludo, come fu per Bepi negli anni che seguirono quel primo incontro quando, vedendola, realizzò fino a che punto l’altra metà del mondo poteva rivelarsi irresistibile. Frequentavano lo stesso liceo, per questo avevano iniziato a viaggiare insieme. Non ci volle molto per conoscersi e innamorarsi: tutto andò come doveva andare. Il primo bacio, le emozioni del cuore, poi quelle del corpo… infine la passione, sempre meno timida, sempre più intima.

Era la storia di tanti ragazzi della loro età. Quella di strade che, un giorno, si dividono senza preavviso.

Ma era tempo di tornare al presente e Bepi, lasciando i ricordi dove stavano, avanzò sulla banchina calcando i passi per farsi sentire, in modo da non sorprendere la ragazza. Lei sembrava davvero giovane, non più di quindici anni; quando lo scorse gli sorrise, con uno di quei moti spontanei tipici della gioventù. Quelli che lui aveva dimenticato.

-Scusami, non volevo spaventarti. Sono sorpreso di trovare qualcuno, è tanto che non tornavo qui. Mi chiamo Giuseppe, vivo appena fuori dal paese. Dammi del tu, se vuoi.

-Ciao, mi chiamo Iris. Sono in vacanza; quando ne ho la possibilità, mi piace stare un po’ qui, nella vecchia stazione.

- Vieni da fuori, quindi.

-Sì. Vivo a … da quando sono nata. Mia nonna è originaria di questo paese, anche se non ha mai voluto tornarci. Lei resta in città mentre io salgo con i miei genitori. Abbiamo una casa.

Continuarono a parlare per un po’. A Bepi sembrò di rivivere i vecchi tempi quando, proprio laggiù, discuteva con Ludo ogni mattina. I ricordi tornarono a quel tempo, quando la loro sembrava una storia destinata a durare per sempre: o almeno così si vociferava in paese. Vederli insieme rappresentava uno spettacolo per gli occhi, quel “vero amore” che, con il passare degli anni, subisce una lenta metamorfosi trasformandosi nella menzogna più spudorata al mondo. Eppure, qualcosa era andata storta: da un mese all’altro lei si trasferì con tutta la famiglia poiché il padre, da quanto si seppe in giro, aveva trovato un impiego altrove, di quelli che non si potevano proprio rifiutare.

Questo, almeno, fu quanto credettero i paesani.

- Che succede, Ludo?

- Qualcosa non va. Sono in ritardo di otto giorni: mia madre sa e sta cominciando a chiedere se non abbiamo fatto qualche stupidaggine.

- E tu?

- Io non so che raccontarle, Bepi. Ma sento qualcosa di diverso in me. Ho paura che sia accaduto: credo di essere incinta.

Gli eventi li travolsero. Le rispettive famiglie sbandarono e i due, nell’unica occasione che ebbero di esprimersi di fronte ai genitori, non manifestarono una concordanza d’intenti. Lo scandalo era dietro l’angolo: Ludo pianse lacrime amare di fronte alla possibilità di un aborto. Rifiutava con tutta sé stessa l’idea di farlo, senza neanche pensare ai rischi che l’intervento clandestino avrebbe comportato. Bepi invece non disse nulla… un silenzio che si sarebbe rimproverato per tutta la vita.

Quanto più grandi di noi possono rivelarsi certi errori, soprattutto quelli che ci sorprendono nella gioventù.

Da allora i due cessarono di vedersi. La famiglia di lei era scomparsa in un lampo e nel paese la vita aveva continuato il suo corso cancellando, con la magia che solo il Tempo poteva compiere, il ricordo della vicenda. Bepi, dal canto suo, affrontò un periodo difficile, dominato dal rimorso per aver tradito la la vicinanza che gli occhi di Ludovica imploravano. Forse le sue parole non sarebbero servite a nulla: eppure, qualcosa gli sussurrava, da una profondità inconoscibile, che avrebbe dovuto almeno provarci. Di Ludo non seppe più nulla.

Trascorsero le settimane, poi gli anni. Bepi si era lasciato alle spalle quella terribile esperienza dedicandosi agli studi e alla sempre più crescente passione per la scrittura. Il suo talento non passò inosservato così, quando vinse dei concorsi letterari, si aprirono per lui le porte delle case editrici. Presto divenne uno scrittore affermato con un significativo seguito. Visse gli anni del successo, della notorietà: talvolta apparve perfino in televisione. Si firmava Bepi Malò.

Ma Ludo non se n’era andata. Tornava ogni notte a trovarlo nei sogni, gli occhi luminosi, il sorriso spontaneo di chi ama. Seppure Bepi aveva vissuto, in seguito, altre avventure nella sua vita, nessun’altra donna poté mai oltrepassare il confine del corpo: il cuore grondante no, apparteneva a lei. Per contrastare il rimorso che, con il passare del tempo, si faceva sempre più cosciente e maturo, il suo pensare divenne arguto cinismo, intriso di una sensibilità affilata e tagliente, tanto amata dai suoi lettori che ne ignoravano la reale natura. Finché, sulla soglia degli …anta, decise di tornare nel paese natio e rinchiudersi nel suo castello.

I ricordi di nuovo sfumarono, di fronte alla spontanea curiosità della ragazza.

- Tu dove vivi?

- Sto lassù, Iris: guarda, se ti sporgi riesci a vedere la torre. É l’antica dimora dei Signori che dominavano, un tempo, la regione. Se cerchi un posto adatto per stare tranquilli, rilassarsi di fronte al caminetto, di meglio non ne puoi trovare.
Gli occhi di Iris si illuminarono di colpo:

- Ti piace leggere allora! Sai, io amo scrivere, buttare giù i miei pensieri…
e gli mostrò, così dicendo, il taccuino colorato che teneva tra le mani.

Bepi dette uno sguardo alle righe scritte in bella grafia, quella che lui non aveva mai avuto.

- Leggimi ciò che stai scrivendo, se ti va.

- Non sono per niente brava…

- A che serve scrivere se nessuno leggerà? Coraggio!

Iris abbassò lo sguardo sui fogli pieni di scarabocchi.

- É l’inizio di una poesia. S’intitola: Il Treno.
Il passato è un lungo treno / su binari dimenticati / che immobile attende / nella vecchia stazione / il suo solo passeggero
Per adesso è tutto qui.

- Ma è una bellissima poesia: davvero!

La ragazza arrossì.

- Mia nonna è una grande lettrice; mi ha detto che un giorno scriverò delle splendide poesie.

- Sì, non ho dubbi. Se posso chiederti, perché lei non è mai voluta tornare?

- Non lo ha mai raccontato: a me, almeno. Ho l’impressione che sia accaduto qualcosa di brutto nel suo passato. Ma è una donna forte: da sola ha cresciuto mia madre. Eppure, le diceva sempre che non sarebbe neanche dovuta nascere...

Bepi annuì, senza insistere oltre.

- Due anni fa le ho regalato un romanzo del suo scrittore preferito, sai?

- Quello dev’essere stato un gran bel regalo. Chi è lui?

- Sicuro che lo conosci, dicono sia un tipo famoso. É perfino apparso in televisione: mamma mi ha detto che la nonna ha registrato tutte le sue interviste? Si chiama Bepi Malò.

Bepi ebbe un sussulto, ma nascose bene la sorpresa. In fondo era conosciuto dalla gente del posto e avrebbe giurato che tutti, in casa, possedessero almeno un suo testo. La curiosità fu più forte:

- Scusami, Iris… posso sapere come si chiama tua nonna?

- Il suo vero nome è Ludovica: ma tutti la conoscono come Ludo.
digitoergosum
Penna Bic
Penna Bic
Messaggi: 39
Iscritto il: 25/01/2024, 10:59

Re: Disfatta esistenziale / Rimpianto

Messaggio da digitoergosum »

Sono affascinato da queste letture. Conosco, per frequentazione trascorsa del sito gemello, tanto la sensibilità artistica di Roberto e Namio quanto la loro capacità di lavorare sull'editing degli altri racconti. Sono ancora preso dal sistemare alcuni miei racconti ma tornerò qui per dire la mia imperfetta osservazione. Così, troppo velocemente, anche dall'ultima stesura toglierei tante descrizioni emotive. Leggendo Roberto mi specchio e cresco. Credo faccia lui lo stesso con me e con gli altri appassionati di scrittura. Anzi, ne sono certo.
Robennskii
Macchina da scrivere
Macchina da scrivere
Messaggi: 165
Iscritto il: 15/12/2022, 21:05

Re: Disfatta esistenziale / Rimpianto

Messaggio da Robennskii »

Caro Marcello, le tue osservazioni saranno benvenute... anche noi conosciamo te.

Lo scopo della lavorazione sull'Incudine è questo, cioè pervenire alla perfetta lavorazione finale. Ti attendiamo.
Giovanni p
Penna stilografica
Penna stilografica
Messaggi: 54
Iscritto il: 01/03/2023, 9:07

Re: Disfatta esistenziale / Rimpianto

Messaggio da Giovanni p »

Report x

La luna illumina la pianura dove i trattori, o quello che ne rimane, riposano come carcasse di animali spolpati. Le chiazze nere del grano bruciato si possono distinguere anche al buio, quando il sole sorgerà lo spettacolo sarà molto più duro rispetto a quello che ho di fronte adesso. Vorrei che la notte durasse per sempre, Dio solo sa quanti cadaveri verranno ritrovati in quei campi , spero almeno che si abbia decenza di seppellirli in una fossa, ma non mi aspetto nulla da questa gente.
Il mio rammarico è che come giornalista non potrò divulgare nulla di tutto ciò che sta sotto i miei occhi, purtroppo parte di questa situazione è anche colpa mia e posso garantire che se ne avessi il coraggio mi getterei in uno dei tanti pozzi che sfondano questa terra, bellissima e maledetta, con un sasso legato alla gola.
E pensare che anche ci avevo creduto!
Sembrava tutto possibile, ed è per questo che mi sento un idiota!
I contadini di questa regione non potevano immaginare la brutalità delle repressioni, non potevano non fidarsi dei “rivoluzionari” che li hanno prima sfruttati, e poi traditi per poi tornarsene nelle foreste.
Quando sono arrivato qua ero felice, un documentarista naturalistico che si stabilisce in un paese bellissimo dove avrei vissuto senza dover faticare nel scrivere articoli deprimenti. La contentezza beota di vivere da ricco in un paese povero popolato da gente remissiva che vedeva in me una specie di Dio in terra al quale concedere tutto, e mi si perdoni la vigliaccheria di non scendere nei particolari, ma quanto dico tutto intendo veramente tutto.
Fino a che ho vissuto nella capitale è stato tutto semplice, ero alloggiato a carico della mia rivista in uno dei pochi hotel di lusso dove si mangia bene e le cameriere si danno per cifre ridicole. I reportage iniziavano in mattinata inoltrata e duravano poco, dandomi il tempo di oziare e respirare, abitudine che avevo perso da anni nel mio paese di provenienza dove almeno quattro ore al giorno erano spese nel traffico per uno stipendio che oltre all’affitto non concedeva altro. Ma un giorno mentre tornavo dai soliti reportage nella foresta chiesi al mio autista di cambiare tragitto per tornare in città, volevo vedere le campagne.
L’autista, un uomo col quale avevo fraternizzato e che sorrideva sempre si fece improvvisamente serio, ma non protestò e mise in moto la jeep facendo il percorso che gli avevo chiesto.
M’immaginavo le campagne belle e ordinate, dove contadini umili ma tranquilli svolgevano il loro lavoro sorridendo e ringraziando Dio di vivere in una terra dove l’ansia e la frenesia non sono arrivate. Mentre l’autista guidava, per la prima volta senza canticchiare, sognavo di conoscere una bella contadina nel fiore degli anni, una ragazza con il cuore puro e le gambe forti da sposare, dato che ormai inizio a essere più che maturo. Le mie fantasie furono interrotte da un odore acre che mi fece entrare un mal di testa simile alla sinusite. L’autista mi fece cenno di tirare su il finestrino, fuori c’era una strana nebbia che ungeva il parabrezza.
Chiesi all’autista se fosse scoppiato un incendio e se la campagna fosse lontana, lui mi rispose che quello non era un incendio e che eravamo già arrivati. Non ci credevo, quella piana nebbiosa era la campagna che volevo vedere?
Chiesi gentilmente di fermarci, vidi che l’autista ubbidì controvoglia. Una volta sceso iniziai a passeggiare in quella desolazione. La terra era polverosa come se stessi camminando in un cantiere, davanti a me non c’era un albero, solo delle sagome scure e due colonne di fumo nero. Avvicinandomi a quelle colonne di fumo scoprii l’orrore che mi ha poi avvelenato l’esistenza. Dei ragazzi sulla ventina tossivano e ridacchiavano davanti a dei cumuli di stracci alti almeno tre metri che non ne volevano sapere di bruciare come si deve. Tenevano fra le mani nere accendini e taniche di gasolio, quando mi videro arrivare s’innervosirono, ma non mi dissero nulla. Osservando il cumulo di abiti che avevo di fronte riconobbi diversi vestiti di note marche del fast-fashion a buon mercato, la cosa che mi scandalizzò e che alcuni abiti avevano ancora i cartellini attaccati. Avrei voluto chiedere a quei ragazzi perché stessero bruciando dei vestiti che potevano indossare dato che erano coperti d stracci logori, ma poi venni a sapere che il governatore della regione aveva promesso tante di quelle botte a chiunque fosse stato visto con quei vestiti addosso. Lasciai i ragazzi i quali furono felici di vedermi andare via e m’incamminai verso delle baracche di lamiera che a prima vista sembravano un luogo di stoccaggio , ma che invece si rivelarono essere le case di quelle persone. Dentro a quelle lamiere simili a delle auto dopo un incidente vivevano ammassate donne anziane e bambini sudici affetti da rachitismo. Anche loro non furono felici di vedermi e quindi tolsi il disturbo. Il tanfo di feci copriva quasi l’odore dei vestiti bruciati, era troppo decisi di tornare alla jeep. Mentre camminavo fra la foschia sentii qualcosa d’insolito, qualcosa che ricordava il verso di un gregge di bestie, ma quello non erano né belati e neppure muggiti. Mi voltai e vidi che il terreno scendeva creando una depressione piatta, in quel pezzo di terra avvolto nella nebbia creata dai falò c’erano delle persone che stavano coltivano del grano. Capii solo in quel momento perché ogni volta che cenavo con qualche dignitario del posto questi diceva che il cibo che stavamo mangiando era d’importazione strizzando l’occhio. Scesi a vedere e trovai uomini e donne curvi e nodosi come olivi che lavoravano quella terra con strumenti e metodi degni del medioevo più buio. Più tardi venni a sapere che i pochi trattori divorati dalla ruggine erano fermi perché il governatore non concedeva loro l’utilizzo del carburante che in quella regione costava meno dell’acqua, un gesto di banale crudeltà.
Tornai alla jeep sconvolto, e solo quando eravamo sufficientemente lontani da poter respirare di nuovo aria pulita il mio autista mi spiegò meglio quello che avevo visto. I contadini di quella regione erano del semplice bestiame, se fossero stati schiavi sarebbe stato già un passo avanti. Il governatore aveva stretto accordi per lo smaltimento di rifiuti speciali, che però non venivano trattati ma semplicemente bruciati. Il grano che cresce sotto quella nube di diossina è l’unico alimento destinato a quella povera gente, mentre in città si mangia carne e pesce di prima qualità.
Una volta rientrato in città l’autista mi pregò di non far parola con nessuno di quello che avevo visto, quando lo salutai mi disse un ultima cosa

- Qua esiste la città per gli uomini, la foresta per i banditi e la campagna per le bestie.

Queste parole mi bruciano ancora dentro.
Passai diverse notti inquiete e persi il buon umore. Anche la natura che documentavo mi sembrò improvvisamente crudele, niente mi dava più soddisfazione.
Alcune settimane più tardi, in un locale vicino alla costa, fui avvicinato da un ragazzo sulla trentina. Questo si presentò col nome di x dicendo di essere un mio collega. Parlammo a lungo della situazione dei contadini di quanto fosse tutto ingiusto e di quanto il governatore fosse crudele.

- ma possiamo mettere una fine a tutto ciò – mi disse x davanti alla sua birra mentre l’oceano alla nostra destra mormorava- i ribelli che sono nella foresta stanno per attaccare la capitale e se lei convincesse i contadini ad assaltare la base yyy, quella a due miglia dai loro campi riusciremo a battere quel delinquente.

X lesse la paura nel mio volto, sorrise e disse:

-So che per lei è assurdo, ma ho un piano. Le darò del rum drogato col valium. Lei consegnerà il rum alle donne dei contadini le quali lo daranno da bere ai soldati della base per i quali si prostituiscono. Il rum stordirà i soldati e i contadini potranno assaltare la base senza problemi.

Il ragazzo sorrideva mentre annuivo nervosamente.

- Pensi alla sua carriera; Un documentarista che non solo svolge un maxi servizio d’inchiesta, ma che aiuta degli oppressi a liberarsi dal giogo di quel bastardo del governatore. Lei vincerà il Pulitzer!

Per un attimo ho provato qualcosa di nuovo, la sensazione di essere utile, di fare qualcosa d’importante. Accettai e qua tralascio tutti i particolari tecnici utili solo a farmi passare da idiota. Ho consegnato il rum spiegando tutto ai contadini la sera scorsa e alcune ore prima ho visto il piano attuarsi dalla posizione in cui mi trovo adesso.
I contadini che assaltano la base militare che non è altro che una caserma scalcinata e i ribelli che arrivano con i loro camion, saccheggiano la caserma e se ne vanno.
Ho sentito il cuore scoppiare nel petto per la felicità, i soldati erano messi così male che non hanno neppure provato a difendersi.
Ma poi altri mezzi sono arrivati, e questi non erano ribelli, ma soldati. Tralascio volentieri e dettagli più morbosi, dico solo che nessun uomo appartenente alla classe dei contadini che abbia più di quattordici anni respira più.
Mentre tutto ciò avveniva ho telefonato a un mio collega che abita in città, con il gelo nelle vene ho scoperto che i ribelli lì non sono mai arrivati. Nel silenzio della notte, in u posto dove neanche i grilli cantano ho scoperto di essere stato raggirato dai dei trafficanti di armi.
Gaetano Intile
Macchina da scrivere
Macchina da scrivere
Messaggi: 194
Iscritto il: 16/12/2022, 16:29

Re: Disfatta esistenziale / Rimpianto

Messaggio da Gaetano Intile »

Ciao, Giovanni.
A mio avviso sei arrivato al tema della disfatta esistenziale con difficoltà. C’è un dislivello emotivo tra il giornalista amante della bella vita comoda e sfruttatore della situazione di povertà morale e materiale della popolazione con la quale è a contatto e il rivoluzionario cospiratore a favore del popolo sfruttato che mette a repentaglio la propria vita. Il cambio tra i due protagonisti è frettoloso e non giustificato, non perviene, non lo costruisci, ma lo servi già bello e pronto e quindi non mi convince, parlo da lettore. Qual è lo snodo, il punto in cui il vaso trabocca? Dovrebbe essere la visita di mezza giornata nelle campagne? Qualsiasi cambiamento non matura tanto in fretta, e comunque io lettore non lo vedo crescere nel protagonista, non ti dilunghi sulle ragioni, ma lo presenti di nero in bianco, mentre poco prima era il contrario. Il tentativo di riscossa della popolazione è poi un altro punto opaco. Esso è quanto meno azzardato, velleitario, un po’ cialtronesco e anche gli adoperati, il popolo, i contadini, che fino a poco prima hanno avuto paura persino di vestirsi in modo difforme dai dettami del regime (ma per quale motivo bruciare i vestiti poi, che possono essere utilizzati?) non si capisce perché dovrebbero mettersi a rischio, aderire a una rivolta così sospetta, e che bisogno hanno i ribelli di adoperare lui, che necessità i contadini di fidarsi di lui, che senso ha per i contadini eseguire gli ordini di chi li sfrutta, e via discorrendo. Esistono una marea di trabocchetti logici. Ricordati che uno degli elementi principali del patto tra lettore e autore è la verisimiglianza. La funzione del tuo protagonista è quindi incerta, sospesa, non necessaria. E poi ancora i rivoluzionari che non lo sono, ma sono solo degli sfruttatori tali e quali il dittatore dal quale vorrebbero liberarli.
Il tema, a esser sincero, più che alla disfatta esistenziale mi fa pensare a Report, appunto. Il tentativo di indagare la realtà con un taglio da reportage giornalistico al fine non di mostrare i fatti, ma di cercare una verità, o la verità. Il fine del racconto, il suo tema, a mio avviso, è far sapere al lettore che non esiste scampo per gli sfruttati, perché qualsiasi rivoluzione è li riporterà al punto di partenza con un ulteriore carico di sofferenze. E quindi non vale la pena ribellarsi, opporsi, perché non v’è via di scampo, pena una ancora più cocente sconfitta.
In quest’ottica però potevi innestare più efficacemente il tema della sconfitta esistenziale. Anziché tratteggiare un giornalista che pensa solo a se stesso e al proprio tornaconto, folgorato sulla via di Damasco (ma in quel racconto hanno dovuto scomodare lo Spirito Santo) dovevi partire sin dall’inizio con qualcuno che per tutta la sua vita aveva maturato la convinzione di poter cambiare le cose col proprio apporto singolo e col proprio lavoro. E a partire da questo lavoro di inviato sgretolare questa convinzione procurando danno alla popolazione, o meglio a qualcuno in carne e ossa. Una doppia disfatta.
Un altro appunto marginale. Il tuo protagonista scrivi faccia il documentarista naturalista. Beh, dal titolo , e da come si muove, sembra un inviato. Il documentarista non è che faccia servizi in città, ma lunghi appostamenti in zone selvagge.
Provo a dirti qualcosa di altro sul testo.
Hai scelto una narrazione in prima persona con l’occhio ristretto del protagonista, che secondo me preclude delle possibilità di analisi da parte del narratore in un racconto come questo. Altrimenti devi trovare il modo di far fare le riflessioni al protagonista in prima persona. Quanto ai tempi verbali, sono generalmente incerti, cominci al tempo presente, ma la parte iniziale è una narrazione, salvo poi virare al passato con una analessi che non è altro che un racconto del protagonista, ma rimangono sempre incerti, anche nel finale, dove viri di nuovo al presente e chiudi al passato. Da rivederli.

Per le correzioni io normalizzo tutti i tempi verbali al passato.

La luna illumina (va) la pianura dove i trattori, o quello che ne rimane (va), riposa (va)no come carcasse di animali spolpati. Le chiazze nere del grano bruciato si possono (potevano) distinguere anche al buio, (; ?) quando il sole sorgerà (sarebbe sorto) lo spettacolo sarà (ci si sarebbe trovati di fronte a uno spettacolo) molto più duro rispetto a quello che ho di fronte adesso. (a capo) Vorrei che la notte durasse per sempre, Dio solo sa quanti cadaveri verranno ritrovati in quei campi , (spazio) spero almeno che si abbia decenza di seppellirli in una fossa, ma non mi aspetto nulla da questa gente. (questo periodo è un pensiero e lo possiamo lasciare al presente, ma lo devi staccare visivamente dal resto con un a capo.)
Il mio rammarico è che come giornalista non potrò divulgare nulla di tutto ciò che sta sotto i miei occhi, purtroppo parte di questa situazione è anche colpa mia e posso garantire che se ne avessi il coraggio mi getterei in uno dei tanti pozzi che sfondano questa terra, bellissima e maledetta, con un sasso legato alla gola. (Questo periodo o lo consideri un pensiero, e lo adatti a che sia un pensiero, o lo trasformi al passato: se dovessi avere dei rimpianti, questi sarebbero dovuti al fatto che non potrò divulgare...)
E pensare che anche ci avevo creduto! (Da questo momento i tempi al passato li normalizzi tu)
Sembrava tutto possibile, ed è per questo che mi sento un idiota!
I contadini di questa regione non potevano immaginare la brutalità delle repressioni, non potevano non fidarsi dei “rivoluzionari” che li hanno (avevano) prima sfruttati, e poi traditi per poi tornarsene nelle foreste. (Domanda: ma se i rivoluzionari li sfruttano, e lo scrivi tu, perché mai i contadini si devono fidare di loro?)
Quando sono arrivato qua ero felice, un documentarista naturalistico che si stabilisce in un paese bellissimo dove avrei vissuto senza dover faticare nel scrivere articoli deprimenti. La contentezza beota (l’aggettivo non aggiunge molto a quel che dici dopo) di vivere da ricco in un paese povero popolato da gente remissiva che vedeva in me una specie di Dio in terra al quale concedere tutto, e mi si perdoni la vigliaccheria di non scendere nei particolari, ma quanto dico tutto intendo veramente tutto.
Fino a che ho (avevo) vissuto nella capitale è (era) stato tutto semplice, ero alloggiato a carico della mia rivista in uno dei pochi hotel di lusso dove si mangia (va) bene e le cameriere si da (va)nno per cifre ridicole. I reportage iniziavano in mattinata inoltrata e duravano poco, dandomi il tempo di oziare e respirare, abitudine che avevo perso da anni nel mio paese di provenienza dove almeno quattro ore al giorno erano spese nel traffico per uno stipendio che oltre all’affitto non concedeva altro. Ma un giorno (,) mentre tornavo dai soliti reportage nella foresta (,) chiesi al mio autista di cambiare tragitto per tornare in città, volevo vedere le campagne.
L’autista, un uomo col quale avevo fraternizzato e che sorrideva sempre si fece improvvisamente serio, ma non protestò e mise in moto la jeep facendo il percorso che gli avevo chiesto.
M’immaginavo le campagne belle e ordinate, dove contadini umili ma tranquilli svolgevano il loro lavoro sorridendo e ringraziando Dio di vivere in una terra dove l’ansia e la frenesia non sono arrivate. Mentre l’autista guidava, per la prima volta senza canticchiare, sognavo di conoscere una bella contadina nel fiore degli anni, una ragazza con il cuore puro e le gambe forti da sposare, dato che ormai inizio a essere più che maturo. Le mie fantasie furono interrotte da un odore acre che mi fece entrare un mal di testa simile alla sinusite. L’autista mi fece cenno di tirare su il finestrino, fuori c’era una strana nebbia che ungeva il parabrezza.
Chiesi all’autista se fosse scoppiato un incendio e se la campagna fosse lontana, lui mi rispose che quello non era un incendio e che eravamo già arrivati. Non ci credevo, quella piana nebbiosa era la campagna che volevo vedere?
Chiesi gentilmente di fermarci, vidi che l’autista ubbidì controvoglia. Una volta sceso iniziai a passeggiare in quella desolazione. La terra era polverosa come se stessi camminando in un cantiere, davanti a me non c’era un albero, solo delle sagome scure e due colonne di fumo nero. Avvicinandomi a quelle colonne di fumo scoprii l’orrore che mi ha (avrebbe) poi avvelenato l’esistenza. Dei ragazzi sulla ventina tossivano e ridacchiavano davanti a dei cumuli di stracci alti almeno tre metri che non ne volevano sapere di bruciare come si deve. Tenevano fra le mani nere accendini e taniche di gasolio, quando mi videro arrivare s’innervosirono, ma non mi dissero nulla. Osservando il cumulo di abiti che avevo di fronte riconobbi diversi vestiti di note marche del fast-fashion a buon mercato, la cosa che mi scandalizzò e (fu) che alcuni abiti avevano ancora i cartellini attaccati. Avrei voluto chiedere a quei ragazzi perché stessero bruciando dei vestiti che potevano indossare (,) dato che erano coperti d stracci logori, ma poi venni a sapere che il governatore della regione aveva promesso tante di quelle botte a chiunque fosse stato visto con quei vestiti addosso. Lasciai i ragazzi i quali furono felici di vedermi andare via e m’incamminai verso delle baracche di lamiera che a prima vista sembravano un luogo di stoccaggio , ma che invece si rivelarono essere le case di quelle persone. Dentro a quelle lamiere simili a delle auto dopo un incidente vivevano ammassate donne anziane e bambini sudici affetti da rachitismo. Anche loro non furono felici di vedermi e quindi tolsi il disturbo. Il tanfo di feci copriva quasi l’odore dei vestiti bruciati, era troppo decisi di tornare alla jeep. Mentre camminavo fra la foschia sentii qualcosa d’insolito, qualcosa che ricordava il verso di un gregge di bestie, ma quello non erano né belati e neppure muggiti. Mi voltai e vidi che il terreno scendeva creando una depressione piatta, in quel pezzo di terra avvolto nella nebbia creata dai falò c’erano delle persone che stavano coltivano del grano (coltivare il grano non è un’attività continuativa). Capii solo in quel momento perché ogni volta che cenavo con qualche dignitario del posto questi diceva che il cibo che stavamo mangiando era d’importazione strizzando l’occhio. Scesi a vedere e trovai uomini e donne curvi e nodosi come olivi che lavoravano quella terra con strumenti e metodi degni del medioevo più buio. Più tardi venni a sapere che i pochi trattori divorati dalla ruggine erano fermi perché il governatore non concedeva loro l’utilizzo del carburante che in quella regione costava meno dell’acqua, un gesto di banale crudeltà.
Tornai alla jeep sconvolto, e solo quando eravamo sufficientemente lontani da poter respirare di nuovo aria pulita il mio autista mi spiegò meglio quello che avevo visto. I contadini di quella regione erano del semplice bestiame, se fossero stati schiavi sarebbe stato già un passo avanti. Il governatore aveva stretto accordi per lo smaltimento di rifiuti speciali, che però non venivano trattati ma semplicemente bruciati. Il grano che cresce (va) sotto quella nube di diossina è (era) l’unico alimento destinato a quella povera gente, mentre in città si mangia (va) carne e pesce di prima qualità. (Il punto, due falò di vestiti non provocano un effetto nebbia. Forse, dato che citi i rifiuti speciali, meglio tossici, è indicarne qualcuno)
Una volta rientrato in città l’autista mi pregò di non far parola con nessuno di quello che avevo visto, quando lo salutai mi disse un ultima cosa (:) (Pensiero: ma se è possibile girare liberamente per il paese forse l’avvertimento non ha molto senso)

- Qua esiste la città per gli uomini, la foresta per i banditi e la campagna per le bestie.

Queste parole mi bruciano (bruciarono l’anima?) ancora dentro.
Passai diverse notti inquiete e persi il buon umore. Anche la natura che documentavo mi sembrò improvvisamente crudele, niente mi dava più soddisfazione.
Alcune settimane più tardi, in un locale vicino alla costa, fui avvicinato da un ragazzo sulla trentina. Questo si presentò col nome di x dicendo di essere un mio collega. Parlammo a lungo della situazione dei contadini di quanto fosse tutto ingiusto e di quanto il governatore fosse crudele.

- ma possiamo mettere una fine a tutto ciò – mi disse x davanti alla sua birra mentre l’oceano alla nostra destra mormorava- i ribelli che sono nella foresta stanno per attaccare la capitale e se lei convincesse i contadini ad assaltare la base yyy, quella a due miglia dai loro campi (,) riusciremo a battere quel delinquente.

X lesse la paura nel mio volto, sorrise e disse:

-So che per lei è assurdo, ma ho un piano. Le darò del rum drogato col valium. Lei consegnerà il rum alle donne dei contadini le quali lo daranno da bere ai soldati della base per i quali si prostituiscono. Il rum stordirà i soldati e i contadini potranno assaltare la base senza problemi. (francamente non sembra molto realistico)

Il ragazzo sorrideva mentre annuivo nervosamente.

- Pensi alla sua carriera; Un documentarista che non solo svolge un maxi servizio d’inchiesta (ma non si occupava di natura?), ma che aiuta degli oppressi a liberarsi dal giogo di quel bastardo del governatore. Lei vincerà il Pulitzer!

Per un attimo ho provato (provai) qualcosa di nuovo, la sensazione di essere utile, di fare qualcosa d’importante. Accettai e qua tralascio tutti i particolari tecnici utili solo a farmi passare da idiota. Ho (avevo) consegnato il rum spiegando tutto ai contadini la sera scorsa (precedente) e alcune ore prima ho (avevo) visto il piano attuarsi dalla posizione in cui mi trovo adesso. (I contadini ricevono l’ordine e vanno, ma che bisogno c’era di avere lui come intermediario? Non ha molto senso.)
I contadini che assaltano la base militare che non è altro che una caserma scalcinata e i ribelli che arrivano con i loro camion, saccheggiano la caserma e se ne vanno.
Ho sentito il cuore scoppiare nel petto per la felicità, i soldati erano messi così male che non hanno neppure provato a difendersi.
Ma poi altri mezzi sono arrivati, e questi non erano ribelli, ma soldati. Tralascio volentieri e dettagli più morbosi, dico solo che nessun uomo appartenente alla classe dei contadini che abbia più di quattordici anni respira più. (Qui viri di nuovo al presente)
Mentre tutto ciò avveniva ho telefonato a un mio collega che abita in città, con il gelo nelle vene ho scoperto che i ribelli lì non sono mai arrivati. Nel silenzio della notte, in u posto dove neanche i grilli cantano ho scoperto di essere stato raggirato dai dei trafficanti di armi.

Insomma, il racconto è un po' da revisionare, soprattuto la figura del protagonista all'interno della narrazione, la sua essenza, le sue motivazioni.
Giovanni p
Penna stilografica
Penna stilografica
Messaggi: 54
Iscritto il: 01/03/2023, 9:07

Re: Disfatta esistenziale / Rimpianto

Messaggio da Giovanni p »

Buonasera, Gaetano

purtroppo i caratteri mi hanno fregato, credo di essere partito bene per poi (purtroppo) finire male. Nella parte finale mi sono trovato a dover fare tagli su tagli. La storia secondo me non sarebbe nemmeno male, mi dispiace aver proposto qualcosa di mozzato, ma non è stata cattiva volontà, semplicemente non avevo altre idee e mi dispiaceva non proporre niente..

GRazie mille per avermi letto, per i consigli e i suggerimenti.

Grazie anche a Roberto che ha proposto qualcosa di veramente interessante grazie al quale spero di poter migliorare.
Gaetano Intile
Macchina da scrivere
Macchina da scrivere
Messaggi: 194
Iscritto il: 16/12/2022, 16:29

Re: Disfatta esistenziale / Rimpianto

Messaggio da Gaetano Intile »

Sì, la storia non è male. Per esperienza, però, le discussioni sui massimi sistemi mal si addicono a un racconto breve. Ti dovresti concentrare su un paio di personaggi, ridurre le azioni, ciò che accade, focalizzarti sulla narrazione e far immaginare al lettore tutto il resto. Dal travaglio esistenziale del tuo giornalista puoi far passare il messaggio che più ti aggrada sullo sfruttamento. Ma in via indiretta, non descrivendolo punto per punto.
Giovanni p
Penna stilografica
Penna stilografica
Messaggi: 54
Iscritto il: 01/03/2023, 9:07

Re: Disfatta esistenziale / Rimpianto

Messaggio da Giovanni p »

Concordo, ho fatto un giro panoramico per poi buttarmi in un burrone. Lo riscriverò senza badare ai caratteri, potrebbe uscirne qualcosa di decente.
Gaetano Intile
Macchina da scrivere
Macchina da scrivere
Messaggi: 194
Iscritto il: 16/12/2022, 16:29

Re: Disfatta esistenziale / Rimpianto

Messaggio da Gaetano Intile »

Provo a inserire un mio racconto, e spero che qualcuno mi dia qualche dritta per migliorarlo.
Il tema è qui la morte, nei cui confronti non possiamo che essere dei perdenti. Ma anche la vita, che ci porta dove vuole lei senza che noi possiamo fare molto per cambiare.
Credo quindi che il tema sia rispettato. I due protagonisti sono, ognuno a modo proprio, dei vinti dalla vita. O quantomeno loro credono di aver perso, perché forse questa non è una partita che è possibile vincere.

La passe.

Bora Bora oggi è un paradiso per turisti con le tasche gonfie, ma quand’ero ragazzo ci si arrivava solo perché si era innamorati della vastità degli spazi marini.
Avevo scelto la Polinesia attratto dai colori delle fanciulle di Gauguin, spinto dalle poetiche traversate in solitaria di gente come Moitessier e Tabarly, da quell’amore mai sazio per gli spazi vuoti dove l’Uomo, finalmente, è assente.
La barca del pescatore era sparita insieme alle sue birre calde, ma ciò per me, in quel momento, non aveva alcuna importanza. Mi aveva lasciato con la promessa di ripassare e io l’avevo preso in parola, non avevo fretta, nessuna urgenza, avevo tempo.
Mi incamminai lungo la spiaggia sottovento, cullato dalla poesia del mare più spettacolare e del cielo più azzurro mai visto fino ad allora, finché sulla sabbia, leggera come talco, non incrociai un manufatto d’altri climi, e di diverse latitudini dell’altro emisfero, a languire placido sul bagnasciuga, tra le minuscole onde del mattino, lente a infrangersi sulla riva. Quel legno era un’apparizione surreale, il Flying Duchtman si palesò alla mia immaginazione come un relitto di altri mondi, e di epoche remote.
Cosa ci faceva lì quella barca di compensato marino e teak? Non ebbi tempo di pensare ad altro, e alle mie spalle udii una voce cavernosa frammezzata da un respiro agitato.
Con un tono denso di acida ironia, in un inglese approssimato tradito da un curioso accento francese di cui non sapevo decifrare la provenienza, mi domandò se per caso non nutrissi interesse per il suo piccolo giocattolo. Mi voltai, e fui di fronte a un uomo magro come un Cristo in croce, con una maglietta lurida e stracciata e una lunga lanugine bianca sul viso, dagli occhi chiari come quel mare e i capelli radi, arruffati dalla salsedine, d’età indecifrabile, non inferiore ai cinquanta e forse più vicina ai settanta, a dar retta all’intuito.
Mi traguardava severo, con occhi cisposi e fissi, nella mano una bottiglia mezza vuota d’un rum ambrato, e nell’altra un sigaro quasi del tutto consumato.
Si allontanò, e andò a sedersi sulla sabbia, la schiena contro una palma, il suo sorriso con un che di ineffabile.
«Cosa ci fa una barca europea in Polinesia?» Era la mia domanda, in francese.
E mi avvicinai a lui. L’uomo scosse la testa e, dopo aver bevuto un sorso dalla bottiglia e tirato una boccata dal sigaro, disse: «Hai voglia di fare un giro?»
Risposi con un cenno del capo.
L’uomo si levò in piedi. «Cinquecento franchi e affare fatto.»
Mi aveva preso per un turista e mi trattava come tale, con un accenno di superiorità e una splendida noncuranza.
Sembrava uno di quegli antichi dei che vivevano nelle profondità del mare. «Mi piacerebbe vedere un atollo disabitato» gli lanciai il mio guanto di sfida.
Ma subito mi ricordai quanto fosse pericoloso sfidare gli dei.
«Ok, mille franchi e ti porto a vedere l’isola più disabitata del mondo» provò a rilanciare. «Sei mai salito sopra una barca a vela?»
«Qualche volta» mi limitai ad ammettere.
«E allora si paga in anticipo. Non è per sfiducia, sai, ma magari inizi a vomitare non appena usciamo in mare aperto e mi supplichi di ritornare a terra. Il mio giocattolo va veloce e dopo… chissà se hai più voglia di darmeli i miei soldi.»
Annuii, l’affare era concluso. «A proposito, io mi chiamo Gaetano» mi presentai.
«Italiano, lo immaginavo: solo voi amate il francese più dell’inglese. E poi andate sempre in giro come se vi trovaste a una maledetta sfilata. Bah… vallo a capire. Io mi chiamo Eloic» disse, e mi fece cenno di aiutarlo a spingere la deriva in acqua.
Il vento soffiava adesso più forte e la barca scivolava spedita al traverso, con lo scafo sottovento appena inclinato sulla superficie del mare, mentre Eloic faceva da contrappeso sopravvento e regolava l’ampiezza della randa con la sinistra e il timone con la destra.
Si accorse subito che sapevo dove mettere le mani e così, senza dirmi niente, mi lasciò la barra. Navigammo lungo il reef sottovento, dove l’acqua è sempre quasi piatta, quindi imboccammo la grande passe per trovarci in mare aperto, accompagnati da un branco di piccoli delfini i quali presero a nuotare vicino lo scafo e a immergersi, per passare da una parte all’altra. Potevi guardarli negli occhi e quasi sembravano sorridere e concederti la loro attenzione, i messaggeri degli dei; il tempo volava nella luce accecante sul turchese e lo smeraldo del mare, mentre i loro sbuffi ci bagnavano più degli schizzi della chiglia sull'acqua, coi loro sfiati ritmici a imitare una benedizione, a renderci consapevoli dell’immortalità del momento.
Perché sarebbe stato soltanto quella volta, solo quell’istante, null’altro e mai più.
«Mi hai preso in giro» disse Eloic, dopo un po’. «Tu sei un marinaio. E io dovevo chiederti diecimila franchi, perché ti stai divertendo come un matto, e mi costringerai ad arrivarci sul serio alla tua dannata isola deserta.»
Sfoggiai il sorriso del vincitore e virai a dritta. «Certo che ci arriviamo. È quella?»
Eloic annuì. «Quella è Tupai» disse, e lo sentii brontolare contro quegli imbroglioni degli italiani, sempre pronti a farsi beffe del prossimo. Furbi, lo sentii aggiungere in italiano.
La passe di Tupai non era più larga di un torrente di montagna e svelava una laguna ancora incontaminata. Era un giorno ventoso e caldo, ma laggiù tutti i giorni sono ventosi e caldi. L’atollo era un anello di palme e sabbia lungo un paio di chilometri: luce e mare trasparente, fitta vegetazione e nessuna presenza umana; non aveva null’altro significato, forse, se non d’essere l’impronta della fantasia di Dio nella Creazione. Eloic riprese il timone, perché solo lui sapeva come affrontare la passe.
«Ecco la tua isola» disse, quando fummo dentro.
«Non c’è niente, ed è bellissima per questo» commentai, senza trovare altre parole.
«Esatto, l’Uomo non l’ha ancora invasa con la sua merda.»
Quando fummo sazi di solitudine tornammo a Bora Bora, mentre il cielo si era già colorato di un rosso fiammeggiante.
Eravamo stati per tutto il tempo della navigazione in silenzio.
Le prime parole di Eloic furono: «Ti sei divertito, non è vero?»
«E hai bisogno di domandarmelo?»
«Allora per punizione mi offri anche una birra: ti ho chiesto troppo poco per un’esperienza del genere.»

Il bar sulla riva dei pescatori dove approdammo era semplicemente un chiosco con cinque tavolini di legno e delle sedie impagliate diversamente solide.
Eloic ordinò due boccali di birra alla spina, che un indigeno con addosso soltanto dei pantaloncini luridi ci servì subito.
«Il paradiso è una birra gelata dopo una giornata di mare» mi disse, e la tracannò d’un sorso, la sua birra, per poi ordinare un altro giro al tipo in pantaloncini. «Questa volta è il mio turno.»
«Avevamo detto che le birre sono a mio carico, ci penso io» risposi, e provai a indagare. «Sei francese, ovviamente». Lui alzò gli occhi dal secondo boccale:« Ovvio un cazzo, io sono bretone» esclamò soddisfatto.
Mi misi a ridere ed Eloic mi fissò incuriosito.
«Hai risposto come avrei risposto io: non sono italiano, ma siciliano.»
«Ah, un pied noir» disse, e stavolta fui io a ridere.
«Ma sì, gli altri italiani ci considerano tali solo per un accidente storico. Di cognome faccio...»
Ma mi interruppe subito, infastidito.
«Qui i cognomi non esistono… un attrezzo inutile, e ciò che non serve alla fine col tempo diventa pericoloso come un cancro, e ti porterà lentamente alla morte se non sei capace di liberartene. Ma non è facile» aggiunse, e d’improvviso cambiò umore, si fece scuro in viso.
E mi propose di seguirlo. «Sei stato gentile, vieni a cena da me, tanto sei solo, l’ho capito, i cani randagi si annusano tra loro e tu non hai neppure la rabbia, come me.»
Decisi di non approfondire la faccenda del cane, meglio il silenzio a parole inutili, ma gli andai dietro: l’alternativa sarebbe stata la tristezza di una cena solitaria nell’unico albergo dell’isola, alla caccia dell’ultimo sfortunato ed eccessivo bicchiere di cognac o di una turista americana annoiata con cui condividere la notte stellata.
La casa di Eloic stava poco più in là, una capanna polinesiana sulla spiaggia, senza imposte, col tetto di palme intrecciate, leggermente sollevata dalla sabbia. Tre donne giovani erano intente a cucinare del pesce su una griglia improvvisata sopra un mezzo barile d’olio vuoto, ma per l’occasione riempito di legna. Eloic entrò in casa, senza dire una parola, e ne uscì con un secchio di latta pieno di ghiaccio e bottiglie di birra. Il lato della casa che confinava con la spiaggia sembrava sorretto da una palma storta almeno quanto i miei pensieri, ma ancora in grado di sostenere un tavolo di legno arpionato al suo fusto da tempi troppo lontani per poterli ricordare.
Non vidi sedie diverse da altri recipienti d’olio arrugginiti; Eloic urlò qualcosa nella loro lingua alle ragazze indigene; loro si mossero scomposte mentre io, per la prima volta, le potei osservare con attenzione: erano davvero molto giovani, scalze e per niente vestite, di una bellezza ambrata difficile da immaginare se non si ha la fortuna di poterla ammirare da vicino proprio dove si manifesta. Eloic sembrava il loro cupo sovrano dalla pelle bianca, senza reggia né corona, e come un re le trattava: ruvido impartiva loro ordini ai quali, in modo maldestro, provavano a ubbidire. Così a me all’improvviso mancarono le parole. Lui aprì un paio di bottiglie e me ne porse una. Non dissi nulla, per non cadere nella finzione di una conversazione avviata per evitare l'imbarazzo del silenzio.
Finimmo un paio di birre, le ragazze ci servirono del pesce e cenammo insieme a loro, sorridenti e sempre di buon umore nonostante i rimbrotti continui del loro arcigno sovrano. Tutti sotto la palma, seduti sui vecchi fusti, con le tre ragazze a divorare il pesce, come noi, con le mani, a ridere e parlare fra loro, nella loro lingua, senza badare a noi, come se la nostra esistenza non le riguardasse. Alla fine andava bene così, il tutto non aveva un gran senso agli occhi di un europeo, ma il tramonto era tanto struggente da far apparire la mancanza di conversazione come una benedizione.
Finito il pesce Eloic si alzò, entrò in casa e ritornò con due sigari, una bottiglia di rum dall’etichetta illeggibile e due bicchieri luridi di incrostazioni che riempì all’istante.

«Tu sei un marinaio» non era una domanda, ma un’affermazione. E aggiunse: «Hai una moglie?»
Io risposi d’istinto. «Se anche l’avessi, quaggiù chi se ne ricorderebbe…»
Eloic si mise a ridere, già bevuto come me. « Le donne sono le peggiori trappole nella vita di un uomo» disse. «Tu sei un marinaio» ripeté con più insistenza.
«Da sempre» risposi.
Eloic si riempì di nuovo il bicchiere di rum e se lo bevve d’un fiato. Mi porse un sigaro e dei fiammiferi per accenderlo.
«Rum e sigaro, cosa c’è di meglio, fratello?»
Io volsi lo sguardo verso le ragazze, e sollevai le sopracciglia per sottolineare l’invidia della scimmia.
Eloic sorrise, poi il suo sguardo si perse oltre il tramonto, sulle nuvole poderose e il rosso infuocato. Ebbi l’impressione che rincorresse un demone trasparente, che perturbava l’aria invisibile e fermava il vento; poi all’improvviso chinò la testa, come piegato dalla scure di un rimorso, e sussurrò. «In Bretagna il mare non è così bello, eppure era casa mia.»
Era una domanda piuttosto banale, ma non riuscii a trattenermi dal chiedergli se gli mancasse.
Eloic scosse la testa, la Bretagna apparteneva a un’altra vita, una vita che non esisteva più.
Restammo per un po’ in silenzio, dando modo al rum di fare il suo lavoro antico: distendere e ammansire i sentimenti degli uomini, prima di perderli.
E mi domandò cosa ci facessi lì.
«Voglio vedere la Creazione, prima che scompaia» gli dissi, «prima che l’uomo la invada per sempre con la sua merda.»
Eloic mi regalò un sorriso amaro.«E non ti manca la tua Sicilia? Il mare lì è più caldo di quello della mia Bretagna.»
Scossi la testa. «E a te non manca la Francia, non manca Parigi?»
Eloic tirò una profonda boccata dal suo sigaro e si riempì ancora una volta il bicchiere di rum.
«A Parigi c’è tutto, ma manca tutto il resto…»
Gli uccelli marini da preda volavano alti nel cielo, e per un lungo minuto Eloic li inseguì con lo sguardo, cercava forse di guidare i loro volteggi, ma era contrariato perché sembrava non riuscirci.
«In Bretagna sono tutti marinai… Io sono un medico, ero un medico, come tutti nella mia famiglia, ma dopo la laurea ho assecondato il demone del mare. Regate, traversate a vela, due giri del mondo con gente che ci sapeva andare. Uno in particolare: Eric, il capitano, il migliore tra tutti; la gente parla, parla e poi parla ancora perché non sa cosa dire. E, se non lo fa, è come se non riuscisse a giustificare a se stessa la propria esistenza. Lui, invece, stava sempre in silenzio. Per lui parlava quanto faceva. E la folla, la gente, quando poteva, la evitava…»
All’improvviso mi parve a disagio, non so se con me o con se stesso, ma storse la bocca in un ghigno feroce.
«Hai navigato col capitano Tabarly» dissi ammirato.
Per quelli come me il suo nome profumava di leggenda.
«Ti piace il rum?»
«Certo che sì» risposi.
«E allora bevi e non rompermi le palle.»
Rimanemmo ancora una volta senza parole, finché il dolce succo ambrato non gli sciolse quella piega del cuore, quella che prima gli aveva incrinato lo sguardo, e riprese a parlare come se volesse assalire i propri demoni.
«Poi, trascinato dal rimorso per la mia famiglia, tornai in Francia e trovai lavoro a Parigi. Gli anni trascorrevano lenti e inesorabili, i figli crescevano in fretta e tutto era magnificamente perfetto, quanto sterile. Io, dal mio studio, guardavo la pioggia scendere sui vetri e le strade affollate, e mi domandavo dove andasse tutta quella gente così di fretta a ogni ora del giorno, ogni giorno della settimana, tutti i giorni dell’anno, anno dopo anno. Creano la frenesia apposta, lo sai? Per non permetterci di pensare. Le persone con cui mi capitava di conversare, se avessero avuto l’ardire di ingoiare la propria saliva, sarebbero morte avvelenate, ecco cosa pensavo. Ma facevo finta di niente, mi rincuorava l'idea che non fosse quello il mio veleno.
A un certo punto, il tarlo della convivenza aveva lacerato ogni emozione fra me e mia moglie, i miei figli percorrevano le loro vite altrove, mentre il mare ritornava prepotente a tormentare la mia anima.»
Ritornò muto, con gli occhi vacui a cercare una luna che non voleva sorgere dalle croste del suo bicchiere fissato di continuo, nella vana ricerca della strada maestra della sua dannazione.
«Non ci badare, sto diventando vecchio. Con Bernard facevamo spesso discorsi come questo quando andavamo a Rangiroa colla sua Tamata. Lui è rimasto in Indocina, a quella guerra persa, ai fratelli morti, e alla piantagione dei genitori: adesso vuole stare solo, lontano da tutti, lontano anche da me, forse a causa di quegli stupidi fan che hanno letto ogni suo libro e lo cercano come un Messia. Aspettano che dica qualcosa, che dia un senso alle loro inutili vite. Tu hai l’aria di essere proprio uno di quelli, non è vero?»
Ero uno di quelli, ma mi guardai bene dall’ammetterlo.
Mi trovavo faccia a faccia con Dio e quel Dio, mi accorgevo, non solo non si curava di me, ma mi detestava, non solo era ostile, ma odiava sin nel profondo ciò che io ero e rappresentavo, non stimava me né il genere umano.
Sentivo la nausea farsi strada, e mi venne voglia di scappare, di andare via, senza mai fermarmi.
Ciò che il mio Dio ebbro aggiunse non vale la pena riferirlo, qualcosa sul senso della vita, sull’inutile ricerca di un Salvatore qualunque, sulla necessità di prendersi cura di volta in volta di chi si ama in quel preciso momento, senza scrupoli né rimorsi, senza puntare l'occhio sullo ieri o sul domani.
«Vieni con me» disse, in modo inatteso, sollevandosi dal fusto con un ruggito da bestia ferita, il bicchiere di rum in una mano e il sigaro nell’altra. Il tono era stato così perentorio e solenne che il tramonto ne rimase sconvolto. In un impulso di paura, o forse di pudore, simulò di fermarsi; e magari lo fece davvero. Le tenebre smisero di fare capolino, e noi ci alzammo fra le palme per camminare sulla spiaggia. Il vento era girato intorno circospetto, nell’ansia di capire chi fosse stato in grado di sconvolgere l’ordine universale, nel dubbio sospirò inquieto, infastidito da quell’ardire. Si sa, sembrava dire, gli uomini non hanno nessun pudore.
Cercai di non far caso ai segni, ma i segni erano là a testimoniare; l’inquietudine mi avvolgeva, e mi sosteneva solo l’attesa del prossimo sorso di rum, la bocca arsa dal verme di un nuovo abisso.
Il resto non aveva più alcuna importanza, cercavo solo di ricordarmi dov’ero, e se quel respiro fetido da cane randagio a invadermi le narici fosse proprio il mio. L’improvviso fragore dell’assenza del vento suscitò dal mare un tanfo di granchi morti che mi fece lacrimare gli occhi e suonare la rumba allo stomaco già sconvolto.
Là dove mi condusse, nelle tenebre del crepuscolo, vidi una croce azzurra, fatta con le coste di una cassetta di legno, dipinta alla meno peggio e di fretta; troneggiava sull’oro della sabbia come sull’orlo di un abisso, quasi al confine con la terra battuta della strada, come un’insegna festosa al limite estremo della notte.
Eloic si avvicinò e c si fermò davanti. I suoi occhi erano rossi e gonfi, lo vidi solo e sperduto, terrorizzato davanti a quella croce.
Non ci accorgemmo neanche della gente che camminava avvilita nella polvere eterna della via, mentre un carretto colmo di pesci lasciava una scia di sangue e di umori maligni, seguito da un nugolo di mosche cieche e impazzite, trascinato da un uomo rassegnato all’infamia della propria esistenza. Le nuvole inquiete si scontravano, e combattevano per riprendersi il dominio del cielo. Una luna impaurita sorgeva dal mare in un tremolio d’improvvisa e inaspettata fierezza. Non vedemmo neppure gli uccelli marini scannarsi sulle acque, nella lava dei nostri desideri frustrati e inespressi, o i cetacei giganti allontanarsi dal reef, con il guizzo dei loro cuori pesanti, mentre scuotevano le acque e agitavano le danze del plancton, confuso nella luce fosforescente della marea recalcitrante. Soffocati dalla certezza che un leviatano antico e nuovo, ma più potente di chiunque prima, era sorto dal nulla, da qualche parte, per dar loro la caccia.
Adesso la vedevo: la scimmia era nuda, maligna la sua esistenza; i suoi passi di samba erano il terremoto estremo che sconvolgeva la terra, divorava le foreste, inacidiva il mare, rendeva l’aria irrespirabile.
Non vedemmo i coralli infrangersi nel tumulto delle onde create dalla fuga repentina e scomposta delle balene. Non vedemmo esplodere sui fondali di sabbia le eterne conchiglie dei vulcani consumati. Non sentimmo lo scricchiolio della sabbia sotto i nostri piedi, né il groviglio delle contorte preghiere antiche nell’estremo gesto di pietà del chiedere perdono per i nostri peccati, meravigliosi inutili artifici costruiti nel sudore di rum delle nostre caldane incontenibili. Non vedemmo proprio niente; ma Eloic si fermò e si inginocchiò, si segnò il petto e si rovesciò il rum addosso, come in un battesimo blasfemo.
Nulla aveva ragione di esistere, e io adesso ne avevo la certezza: da quel Dio riuscivo solo a distinguere un sibilo, da ubriaco bestemmiatore a consumare i denti nell’acido, di una tristezza irrefrenabile. Riapparve sul suo volto la piega distorta di quel labbro infelice, ora autentico e vulnerabile, che invano aveva provato a mantener tutto nascosto senza riuscirci.
Volse allora lo sguardo in alto, verso di me. «Io sono sepolto qui, di tanto in tanto vengo a trovarmi e a recitare una preghiera per la mia anima.»
Era arrivata la notte, all’improvviso, senza alcuna certezza, e ci precipitò addosso tutta la solitudine del mondo, come fosse un presagio, il latente sudario di quella morte che alberga in noi sin dal primo vagito inconsapevole.
Rispondi