Esercizio numero sei

Sezione nella quale si svolgono gli esercizi previsti da questa iniziativa.
Maria E.
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Iscritto il: 30/05/2023, 14:30

Re: Esercizio numero sei

Messaggio da Maria E. »

Ciao Namio, ho buttato giù due righe su questo esercizio, ma il risultato è un ibrido tra i due racconti. Credo di aver fatto un miscuglio, all'inizio non voluto, ma che secondo me funziona. Sto provando a capire su quale delle due si identifica questo racconto, ma non riesco, magari il tuo occhio acuto può darmi una mano.

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Calton era un bimbo prodigio, da quando aveva sei anni la sua mamma ha sempre pensato che fosse un genio. Col passare del tempo questo fardello diveniva sempre più pesante, non dover deludere le aspettative della sua mamma, essere sempre perfetto, sistemato e composto, una trappola da cui non riusciva più a scappare.
Calton ora ha 45 anni, la sua mamma oramai non c’è più, e quella trappola gli sembra così familiare, quasi non vuole sbarazzarsene, è l’unica cosa che la sua mamma ha apprezzato di lui.
Il bullismo subito, le denigrazioni e gli sputi, ora riemergono nella sua mente. Quei ricordi che aveva sotterrato, mai confessati alla madre, ora bussano e lui non ha una grande resistenza al dolore, nonostante avesse represso anche pensieri maligni. Non crede in nulla, neanche nella scienza, da lui tanto amata, benché laureato con lode in bioingegneria.
Suo padre, invece, lo sminuiva sempre, schiacciandolo nel suo angolo. “se ti monti la testa un giorno ti ritroverai solo e povero, non mi sembri questo stinco di genio.” Questa frase lo uccideva ogni volta che il padre la pronunciava, mentre la madre lo guardava e gli faceva l’occhiolino come per indicare di non dargli retta e di seguire i suoi sogni. Gli faceva talmente male che doveva correre in bagno per sopprimere le lacrime, il groppo in gola non gli permetteva neanche di respirare.
Ora, suo padre, dopo la morte della moglie, è solo. Lui lo va a trovare tutti i giorni, gli porta da mangiare, gli paga le bollette, lo aiuto come può, ma lo sguardo è sempre quello di quando era piccolo. Quello sguardo di disprezzo, lo stesso che ebbe il giorno dei funerali della moglie, lo guardava come se lui fosse colpevole della scomparsa.
Quello sguardo lo dilaniava dentro, strappando via ogni piccolo pezzo d’amore che aveva ancora per il padre.
Un giorno, perse il lavoro per via di tagli al budget, e andò alla casa di famiglia per non pensarci, aveva perso la speranza anche in quello, voleva farsi ancora più del male.
Quando arrivò trovò il padre a terra ubriaco zuppo, non era riuscito a rialzarsi dalla veranda.
- Lasciami stare, fallito. Urlò il padre strattonandolo.
Non rispose, era meglio che si zittisse, quel giorno non era buono per dire parole di cui si poteva pentire. Lo prese di peso e lo posò sulla poltrona, gli alzò i piedi e gli tolse la bottiglia di whisky che aveva in mano.
- Ecco, bevi, così almeno dimentichi. Ti dimentichi della mamma, di me e della tua casa. Te lo avevo detto che un giorno saresti rimasto solo.
- Mi sembra che stia parlando di te, papà... io non bevo e non sono solo, ancora.
- Non chiamarmi papà, io neanche volevo averti, è stata tua madre a decidere.
- Certo che sei proprio uno stronzo, lo sai? Da quando sono piccolo che mi tratti così, invece io non ti ho fatto nulla di male. Ma sai che c’è, papà, ora sei tu che sei solo e povero, sei tu che non ti sei montato abbastanza la testa da volere qualcosa di più, aspirare a una vita migliore ed essere un buon padre.
- Come ti permetti, esci subito da questa casa e non tornare mai più. Sono stufo della tua spocchia da intellettuale.
Calton non rispose, andò nella sua stanza, quella dell’infanzia, prese il trattorino che gli fu regalato dal padre, unico regalo della sua vita, e glielo portò. Lo lasciò lì sulla veranda, si sedette accanto al padre e gli disse:
- Per colpa tua, io oggi sono una persona senza speranze, mi hai sempre sminuito, denigrato e preso in giro. Perché?
- La vuoi sapere la verità? Tu non sei mio figlio, tua madre andava al letto con il mio miglior amico all’epoca, io non gli dissi mai nulla, ma tu non sei carne mia. Perciò vai al diavolo, non ti devo niente.
Calton non rispose, si alzò senza fiato, entrò in casa per non guardarlo, era una notizia sconvolgente. Prese il suo zaino e andò via senza neanche farsi vedere.
Calton, ora, vaga per le vie della sua città, confuso, in lacrime, convinto che la sua vita non valesse nulla. “aveva ragione, sono un fallito, un nonnulla.”
Calton, ora, galleggia sul fiume Hudson. La sua carne è leggera, ora, cullata dalle acque, non oppone resistenza alle correnti. Per una volta nella vita non controlla nulla, galleggia e basta.
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Ho letto anche i racconti di Rob e giovanni, devo dire, siamo ad alti livelli. Li ho apprezzati molto. Questa iniziativa ha permesso a tutti noi di migliorare, ne sono felice. Fino a poco tempo fa ero completamente bloccata, quel che scrivevo non andava mai bene, era tutto sbagliato, ma ora, con questi esercizi, sto ritrovando l'ispirazione che tanto mancava. Ri Ri Ri Grazie!
A presto!
Robennskii
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Re: Esercizio numero sei

Messaggio da Robennskii »

Confermo quanto detto da Maria: qui è sorprendentemente stimolante. E poi c'è Namio che, nel suo connubio di mentore impareggiabile e osso duro, ci spinge a fare meglio...
GiacomoB
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Re: Esercizio numero sei

Messaggio da GiacomoB »

Posto qui i miei testi per l'esercizio 6, sto cercando la mia voce come scrittore e quindi provo vari stili diversi, ma ritengo che i risultati siano alterni.
Comunque continuo a leggere e studiare i testi dell'Officina che continuano a essere di livello molto alto.
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trama cinica

Questa storia inizia un giovedì sera e finisce venerdì mattina, anche se forse non finirà mai, ripetendosi in una serie di corsi e ricorsi quasi uguali ma sempre diversi.

Lavoro in un’azienda che produce zip, le comunissime cerniere da mettere su felpe, zaini e migliaia di altre applicazioni. Il momento storico non è dei migliori, c’è un pò di magra; gli ordini scarseggiano e c’è poco da fare.
Alcuni giorni stiamo a casa, così da ammucchiare almeno qualche ora di lavoro e ho anche sentito pronunciare le parole “Cassa integrazione", una cosa impensabile prima d’ora.
Ma dalla mia posizione, qui nel magazzino, vedo quello che vedo. Mi manca la visione a volo d’uccello, come dice il titolare che, appunto, vedo scendere le scale dagli uffici, la sua faccia è rossa, ha il fumo che esce dalle orecchie, è arrabbiato,ma di un’arrabbiatura che non sfigurerebbe nei cartoni animati.
“Chi è stato qui?” mi apostrofa indicando delle scatole che, evidentemente, non dovevano essere lì.
“Sono pronte per la spedizione” rispondo.
Se ne va, senza dire altro, i passi pesanti sulle scale, lo sento mormorare ma non distinguo le parole.

Alzo le spalle e torno a far finta di lavorare, ma non riesco a dedicarmici più di tanto che scende il ragazzo dell’ufficio.
Povero, era così contento una volta, sorrideva spesso, poi ha avuto qualche problema con la ormai ex-moglie. Ha un’espressione funebre praticamente sempre.
Comunque è un bravo ragazzo e un gran lavoratore.
Indica anche lui le stesse scatole di prima e capisco che la giornata non può finire bene.
“Queste… perchè non sono state spedite?”
Sono andato a vedere, erano imballate bene, era tutto apposto almeno per quanto mi riguardava.
“Manca solo il ddt” dico.
“Ok, ho capito. Grazie sai.”

E’ andato via, correndo su per le scale, non arriva neanche in cima che subito sento urlare. Faccio un passo indietro, lasciando spazio intorno alle scatole della discordia.
Le voci del titolare e dell’impiegato si avvicinano, urlo dopo urlo.
“Non sai fare niente!” è la prima frase completa che colgo, detta dal capo.
Camminano spediti verso dove sono io, faccio un altro passo indietro.
“Qua, questo ordine. Abbiamo perso una commessa importante!”
“Ma se tu non me lo dici, se non lasci fare alla gente. Se non ti fidi e non sei in grado di organizzare… vai a fanculo.”
“A me! Ma come ti permetti, sei solo un pezzente!”
“Comunque adesso sistemo tutto, siamo ancora in tempo se mi lasci chiamare un corriere invece di farmi perdere tempo qui.”
Il titolare aveva una vena sulla fronte che pareva pronta a scoppiare. Il ragazzo era andato via, dopo pochi minuti torna, i documenti in mano.
“Riesci a farlo subito? La presa è tra un’ora o anche meno.”
Annuisco e mi dedico a pesare ed etichettare le scatole.
Il titolare è ancora là, sembra una statua, solo il respiro regolare tradisce il rancore che probabilmente sta covando.
L’impiegato gli lancia uno sguardo assassino e sale le scale di nuovo. Io spedisco l’ordine.

Venerdì mattina, il titolare è già in azienda prima dell’apertura, è un evento unico. Appena entro in magazzino scende le scale.
“Quando arriva il ragazzo dagli questa.”
Mi porge una busta chiusa e se ne va, sale in macchina e esce dal cancello.

Arriva l’impiegato e gli do la lettera. La legge e me la fa vedere. Una sanzione disciplinare scritta con formule standard, citazioni di leggi e poco altro.
Scuote la testa, una lacrima gli scende sulle guance.
“Posso fare qualcosa? Mi ha insultato lui per primo e la commessa l’abbiamo evasa nei tempi…”
Scuoto la testa.
“Lascia stare, non puoi fare niente.”
“Ma se rispondo alla lettera e spiego com’è andata davvero?”
“Ti renderà la vita impossibile, puoi farlo, dipende da quanto ti serve questo lavoro.”
Chinò il capo e andò in ufficio.

Non penso che sarò particolarmente produttivo oggi.
Ultima modifica di GiacomoB il 08/05/2024, 9:44, modificato 1 volta in totale.
GiacomoB
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Re: Esercizio numero sei

Messaggio da GiacomoB »

trama di degenerazione

Il machete colpiva le canne da zucchero, un caldo soffocante avvolgeva la piantagione. Cedric lavorava senza sosta sotto il sole cocente, le mani segnate dal duro lavoro. Teneva la testa alta e la muoveva al ritmo del coltello che abbatteva le piante. Era stanco di quella musica.

“Ogni giorno è sempre la stessa storia,” disse Cedric, le candele facevano danzare ombre tremolanti sul legno logoro della taverna.
“Basta! Per quanto ancora dobbiamo essere schiavi?” Diede un’occhiata furtiva per controllare chi entrava, che non ci fossero orecchie nemiche. I marinai e i rivoluzionari presenti annuirono alle sue parole.
“Dovremo gridare: libertà o morte. Almeno smetteremo di essere bestie e diventeremo uomini.”
Il profumo di rum e di tabacco impregnava all’aria, la sua voce si mescolò a quelle degli altri ribelli, si facevano piani e si prendevano decisioni. Da una festa nei pressi del porto si sentivano i tamburi africani suonare più forte.
Sempre più forte, fino alle colline, dove vennero coperti dal dal fragore dei cannoni.

La polvere da sparo gli entrava nelle narici, Cedric non vedeva molto, sparava e urlava, l’odore del sangue e della morte intorno.
Faceva il possibile per non far diventare ricordi questi momenti ripetendosi che stavano rompendo il giogo della schiavitù, che stavano combattendo per la libertà, che il machete era il simbolo della ribellione, non lo strumento con cui tagliare gli arti dei nemici.

Avevano vinto, la folla esultava, dalla piazza il nuovo imperatore arringava la folla.
Cedric non condivideva l’entusiasmo, qualcosa stava cambiando. Gli occhi dell’uomo che ora aveva il potere non erano puri.
Questa libertà aveva un sapore amaro.

“Già, non era l’eroe che mi aspettavo,” disse Cedric dalla sua cella, le catene gli bloccavano i movimenti ed era al buio.
"Ho combattuto e sono finito qui, esprimere le mie opinioni liberamente mi ha portato direttamente qui.”
Non era sicuro che qualcuno lo ascoltasse.
“Per me questa è sicuramente la fine. Il mondo non cambierà mai, non cercate la ribellione, non cercate la rivoluzione. Il mondo gira solo in un verso, non puoi andare contro il destino, tutto è già scritto. L’ordine delle cose non può essere cambiato.”
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